A pochi giorni dall’arrivo a Riyadh del premier britannico Boris Johnson – la data della visita non è stata ancora resa nota -, l’erede al trono saudita e presunto «modernizzatore» Mohammed bin Salman (MbS), ieri ha mandato davanti al boia 81 persone – tra cui sette yemeniti e un siriano – condannate a morte per vari reati, dall’omicidio a legami con il terrorismo. Appena una settimana fa, MbS aveva detto ai giornalisti che intende modernizzare il sistema di giustizia penale del paese. I fatti dicono ben altro. Non è noto come gli 81 condannati siano stati messi a morte. In Arabia saudita, uno dei paesi al vertice della classifica annuale delle esecuzioni capitali, è pratica comune la decapitazione.
È stata la più grande esecuzione di massa nella storia del regno, superiore persino a quella del gennaio 1980 per i 63 militanti condannati a morte per aver occupato armi in pugno l’area della Grande Moschea della Mecca nel 1979, il peggior attacco di sempre contro il regno e il luogo più sacro dell’Islam. Quaranta dei condannati a morte sono residenti di Qatif e Al-Ihsa, aree a maggioranza sciita da sempre nel mirino delle autorità wahhabite saudite. Le loro famiglie e i centri per i diritti umani denunciano confessioni estorte sotto tortura. Le autorità saudite negano e affermano che i processi sono stati regolari e supervisionati da 13 giudici in tre gradi di giudizio per ogni individuo.
Il bagno di sangue ha oscurato la notizia della liberazione, venerdì, dopo 10 anni di carcere, del noto blogger Raif Badawi, arrestato e incarcerato quando aveva 28 anni con l’accusa di aver «insultato l’Islam». La sentenza prevedeva anche 1.000 frustate pubbliche da infliggere entro 20 settimane. Tuttavia, la sua prima fustigazione in una piazza di Jeddah, creò un’ondata di sdegno e fu descritta dalle Nazioni Unite come «crudele e disumana». Dopo quella protesta non venne più frustato. Il blogger prima del suo arresto, gestiva il sito «Sauditi liberi» che chiedeva libertà di espressione e incoraggiava il dibattito sui diritti umani e le questioni religiose nel paese. La libertà riacquistata due giorni fa non consentirà a Raif Badawi di raggiungere la moglie Ensar e i tre figli che vivono in Canada. I giudici hanno confermato il divieto per il blogger di lasciare l’Arabia saudita per dieci anni previsto dalla sentenza. Anche sua sorella Samar così come l’attivista Nassima al Sadah, rilasciata nel 2021, sono bloccate nel regno.
da il manifesto