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La guerra in Ucraina lancia una nuova corsa agli armamenti. E ruba risorse

Il “macabro spot” della guerra in Ucraina spinge la corsa agli armamenti che sottrae risorse su clima e pandemia. Complice l’opacità delle banche armate

di Corrado Fontana

La guerra in Ucraina, così vicina. Le immagini di morti, feriti e sfollati. Ma anche di carri armati, fucili e armi di ogni genere. Tutto ciò sembra diventare un macabro spot che fa volare l’industria bellica. Le paure di aggressione alimentano infatti in modo plateale una rinata corsa agli armamenti che, per la verità, è in atto da anni. Con la differenza non trascurabile di aver fatto riemergere una retorica bellica che si traduce – ora senza grande imbarazzo – nelle voci di spesa dei bilanci nazionali. Drammaticamente. Complice l’azione scellerata avviata dall’esercito di Putin nel bel mezzo dell’Europa.

Si apre una nuova era di corsa agli armamenti

Del resto ce lo ha detto qualche giorno fa la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, con una dichiarazione dirompente effettuata assieme all’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell. Per la prima volta l’Unione europea finanzia l’acquisto e la consegna di armi e attrezzature, belliche e non, a un Paese sotto attacco. Parole chiare, solenni, definite come «un momento di svolta».

Ma non è l’unica notizia recente di questo tenore. Il 27 febbraio il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato a sorpresa che le forze armate tedesche, la Bundeswehr, riceveranno un fondo speciale una tantum di 100 miliardi di euro. E spostandosi nell’altro emisfero, il ministro della Difesa australiano annunciava il 5 marzo un prossimo shopping di sottomarini da guerra. Richiamando proprio l’azione europea di sostegno all’Ucraina per giustificare l’invio di armi a Taiwan in funzione anti-cinese.

Non è solo colpa di Putin: le armi volano da almeno 6 anni

Assistiamo, insomma, a una sempre più scoperta e folle rincorsa agli armamenti. Certificata coi numeri anche dal SIPRI di Stoccolma, a dicembre 2021. «La vendita di armi e servizi militari delle 100 maggiori aziende del settore ha totalizzato 531 miliardi di dollari nel 2020 – un aumento dell’1,3% in termini reali rispetto all’anno precedente. Le vendite di armi delle prime 100 compagnie di armi nel 2020 (tra cui le italiane Leonardo, 13ma, e Fincantieri, 47ma, ndr) sono state del 17% superiori rispetto al 2015». Ovvero il primo anno in cui SIPRI ha incluso dati sulle imprese cinesi.

corsa alle armi: vendite totali per le prime 100 compagnie del settore, 2000-2020
Corsa agli armamenti: vendite totali per le prime 100 compagnie del settore, 2000-2020 © SIPRI, dicembre 2021

 

E il trend è consolidato. Il 2020 è stato il sesto anno consecutivo di crescita delle vendite di armi da parte della top-100. Con un incremento che non si è arrestato neppure mentre l’economia globale si contraeva del 3,1% durante il primo anno della pandemia.

Banche armate: così Egitto compra i nuovi caccia

Una dinamica di corsa agli armamenti che non è perciò iniziata con l’invasione russa in Ucraina. E che spesso, per oliare le compravendite, ha bisogno di partner finanziari collaterali. Specialmente se chi acquista gli armamenti è uno Stato fortemente indebitato come l’Egitto. Un caso recente in cui sono entrate in gioco le cosiddette banche armate, almeno stando a indiscrezioni di stampa non smentite, in favore del regime guidato dall’ex generale al-Sisi. Tristemente noto per le responsabilità nel sequestro, la tortura e l’uccisione del ricercatore universitario Giulio Regeni.

Secondo il portale web «Disclose», che si basa su “documenti riservati” ricevuti su carta intestata del ministero dell’Economia francese e del ministero della Difesa egiziano, già ad aprile 2021 la Francia avrebbe firmato segretamente un contratto che solo successivamente ha acquisito una certa ufficialità. Al centro c’è la fornitura (in aggiunta a quella dei primi 24) di 30 aerei da guerra Dassault Rafale di produzione transalpina. Per un controvalore di circa 3,75 miliardi di euro. Il pezzo forte che viene accompagnato da altri due contratti del valore di 200 milioni di euro, che riguarderebbero le armi in equipaggiamento ai velivoli. A beneficiarne, oltre a Dassault Aviation, due altre imprese belliche francesi: MBDA e Safran Electronics & Defense (divisione militare del gruppo Safran).

La compravendita, scrive «Disclose», avverrebbe grazie a pagamenti effettuati principalmente a credito. «Sovraindebitato, lo Stato egiziano ha infatti ottenuto un prestito garantito dalla Francia fino all’85%. Su dieci anni. In altre parole, la Tesoreria pubblica si è assicurata con diversi istituti bancari francesi – Crédit Agricole, Société Générale, BNP e CIC – per consentire al maresciallo al-Sisi di concludere il trasferimento di armi. Se l’Egitto non riesce a rimborsare, è quindi il contribuente francese che dovrà spuntare la lista di 3,4 miliardi di euro lasciata dal Cairo, senza contare gli interessi».

Interessi privati con i soldi pubblici, e il silenzio assordante delle banche

L’operazione egiziana, su cui le massime istituzioni pubbliche francesi non hanno dato spiegazioni a «Disclose», realizzerebbe così una perfetta triangolazione di interessi tra diversi attori:

  • l’acquirente, cioè le forze armate dell’Egitto, uno Stato sovrano;
  • il venditore e costruttore delle armi, ovvero i gruppi industriali coinvolti, che ricavano profitti privati;
  • i mediatori e fornitori di servizi finanziari, cioè le banche che hanno concesso i prestiti mirati al buon fine della transazione, che ricavano profitti privati;
  • e infine lo Stato presieduto da Emmanuel Macron. Che ha offerto la garanzia pubblica necessaria a che le banche si assumessero il rischio. Per sostenere l’incremento del Pil e dell’influenza geopolitica nazionale.

 

Tutto questo accade mentre la pandemia di Covid-19 è lontana dalla sua conclusione. E la battaglia per contrastare i cambiamenti climatici fatica (tanto più ora che la guerra del gas è ufficialmente aperta) a trovare investimenti adeguati per progredire verso la necessaria transizione ecologica.

Eppure un’altra vendita di ben 42 aerei da guerra Rafale (e non solo) è stata definita a febbraio 2022 a favore dell’Indonesia. Paese anch’esso di grande interesse per le mire d’influenza francese. Per avere spiegazioni e conferme delle indiscrezioni pubblicate da «Disclose» sulla vendita in Egitto, e per sapere se lo stesso schema e gli stessi attori abbiano partecipato alla del tutto simile “operazione indonesiana”, abbiamo contattato il ministero dell’Economia e della Difesa francesi e Dassault Aviation senza ricevere risposta. Mentre le citate Crédit Agricole, Société Générale, BNP e CIC, anch’esse sollecitate da Valori.it, si sono trincerate dietro un no comment.

da Valori.it