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La guerra contro Assange e l’irrilevanza del diritto

Aver reso trasparenti i crimini, non per il gusto della cronaca ma per cambiare le regole del gioco e chiamare le cose per nome, è considerato un attacco all’intoccabilità dei poteri.  Venerdì 25 marzo l’incontro online con il padre di Julian Assange

di Gianni Tognoni

Da una parte un giornalista che ha letteralmente cambiato la storia della trasparenza informativa, proprio nel momento in cui questo settore diventava “globalmente” critico per gli equilibri mondiali e nello stesso tempo protagonista dei mercati più sensibili e strategici direttamente coinvolti nel multiverso dei big-data. A suo carico, al di là di tante chiacchiere, un’accusa che sembra uscita dalle favole: la violazione di una normativa sullo spionaggio emanata letteralmente in un altro secolo, in un altro mondo, che deve a tutti i costi essere giudicata nel sistema notoriamente e programmaticamente più sfavorevole all’“imputato”.

Tutti i dati e le iniziative prese per evitare (o gestire) una vicenda assurda sembrano essere stati inutili. Le interpretazioni del diritto in un Paese “culla” della civiltà, sociale e giuridica, non sembrano scalfire i “diritti” di un’alleanza ( arrogante e già responsabile di menzogne criminali che hanno portato a guerre e genocidi) con un altro Paese “democratico” che primeggia per la sua capacità di esercitare il potere penale con gradi incomparabili di arbitrarietà (da Guantanamo a Peltier, al sistema carcerario). La cronaca trova per questo “fatto personale” spazi minimi: coerenti con la percezione-decisione della sostanziale irrilevanza complessiva del “caso” che non fa parte delle priorità dei custodi dottrinali e politici dei Paesi che contano.

La guerra-invasione della Russia contro l’Ucraina ha scatenato reazioni che hanno “convocato” letteralmente tutta la “civiltà”, giuridica e non, delle parti in causa. Nel più stretto rispetto delle regole riconosciute, e perciò non solo rispettate, ma considerate segno di libera discussione “democratica”, in caso di guerra: conta solo la verità che dà la libertà al più forte di muoversi più liberamente.

Come era stato il caso per le guerre disastrose le cui cause false erano state tra quelle “rivelate” ai tempi in cui Julian Assange iniziava la sua storia di “spia”: o di “indicatore” dell’entrata in un tempo che aveva bisogno di rendere lecite, e occultabili, tutte le guerre immaginate come “necessarie”. Non si sa quando e come le falsità di questa guerra (già molto note, e quelle sospettate) e le loro implicazioni saranno riconosciute. Per “pesare”, nell’ipotesi di trattative, le guerre hanno bisogno di mettere sul tavolo i loro “morti” con le loro storie. Anche perché nelle guerre, accanto ai morti, più o meno commoventi per età, quantità, modalità di morte, si producono tanti affari, presenti e futuri, per i quali il diritto è ancor più rispettoso. Quanti diritti “umani” sono stati, e saranno, violati con la militarizzazione urgente, fuori da qualsiasi controllo, dei bilanci di tanti Paesi?

Lo scenario di guerra in Ucraina -questo almeno è stato riconosciuto: anche se con tanti distinguo- non è purtroppo né l’unico né il più grave. Il mondo è abitato da guerre e dalle loro vittime. Per bombe. Per trattamenti inumani come la fame. Malattie provocate e mantenute in strettissima complementarietà ( al là delle tante discussioni) tra pandemie e brevetti. Per contratti dai confini indistinguibili tra legalità commerciale e criminalità per “dimenticanza” di diritti umani e dei popoli.

Siamo in tanti a pensare che la pace e i suoi strumenti semplici è l’unica soluzione. In Ucraina. In Palestina. In Yemen. Sappiamo che la lista dei Paesi “senza diritto alla pace”, per “conflitti di interessi” tra i vari potenti è lunga. Gli Assange, donne ancor più che uomini, più o meno tecnologici o mediatici, sono tanti ma facilmente (o tenacemente) eliminabili. E soprattutto la loro metodologia -rendere le cose trasparenti, non per il gusto della cronaca ma per cambiare le regole del gioco e chiamare le cose per nome- non viene promossa come indicatore e garante di democrazia ma come un attacco all’intoccabilità dei saperi-poteri che si dichiarano indipendenti dai diritti fondamentali.

L’“impotenza” del diritto di fronte alle sue violazioni (la guerra è solo il caso estremo) è di fatto l’espressione di una civiltà che si è abituata, di fatto assuefatta, a fare del diritto una disciplina ed una categoria mentale che “guarda indietro”. Per punire in modo molto selettivo e discriminatorio: ciò equivale anche a garantire l’impunità con gli stessi criteri. Non c’è soluzione di continuità tra la “tortura” dei tanti dissidenti dai modelli culturali e politici dominanti e le guerre che vengono inflitte alle popolazioni che “disturbano” progetti repressivi, post o neo-coloniali. Gli Stati protagonisti degli “spettacoli” di trattative di queste settimane rappresentano perfettamente questa mescolanza di società che si rifanno, vantandosene, a modelli di democrazia, o di autoritarismo, e che usano l’emergenza per giustificare l’esclusione dall’informazione.

La non credibilità del diritto come cultura di riferimento è divenuta sempre più un dato di fatto nella gestione della politica e della società, che assomigliano sempre di più, per ragioni diverse, a scenari di guerra (cioè di falsità programmatiche e impunibili), ad alta o bassa o “normale”intensità.

E come in tutte le guerre la vita delle persone -singole o collettive, di bambini o di donne o di popoli originari o di deboli- è una variabile da usare come merce di scambio, come una delle tante “materie prime” di cui valutare il peso e il prezzo sul mercato, intellettuale, economico, politico, finanziario, militare più favorevole. È necessario un test? Perché non ri-adottare come soggetti, e non come vittime irrilevanti, i tanti migranti da tante guerre, che continuano da tanti anni a rimanere senza corridoi umanitari, e senza nemmeno un posto nelle normali agende di lavoro di società che hanno sottoscritto la Dichiarazione universale dei diritti umani?

Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli

da altreconomia


“Diritti, informazione e democrazia. Il caso Assange”. Venerdì 25 marzo 2022 alle 15.30 Fondazione Basso, Centro per la Riforma dello Stato, Filosofia in Movimento e Micromega invitano all’incontro in diretta streaming. 

Intervengono John Shipton, attivista del movimento per la pace, padre di Julian Assange, Sara Chessa, attivista dei diritti umani, giornalista, Gianni Marilotti, senatore, promotore del Comitato parlamentare per il monitoraggio del caso Assange, Stefania Maurizi, giornalista d’inchiesta, Cinzia Sciuto, caporedattrice di MicroMega, Enrico Zucca, magistrato, Francesco Masala, Osservatorio Repressione, Vincenzo Vita, presidente della Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.