Mentre donne, uomini e bambini vengono picchiati sulle frontiere, lasciati morire in mare e imprigionatә in campi di detenzione, gli Stati europei affrontano la migrazione come se fosse un fenomeno emergenziale e non storicamente determinato dalle loro stesse politiche. Quale “rifugio” è realmente possibile nella “Fortezza Europa”?
introduzione del libro di Carlo Perazzo
In questo libro, nato sul campo, da un’esperienza di lavoro nell’accoglienza, l’incontro con l’alterità culturale diventa l’occasione per un’antropologia al contrario: nello specchio della migrazione emergono le nostre politiche razziste, le burocrazie, le presunzioni culturali. Da qui, la violenza strutturale che caratterizza le migrazioni odierne non appare come un’emergenza, bensì come l’esito di un particolare modo di concepire gli Stati nazioni e di un preciso modo di governo economico-politico: il capitalismo attuale.
Il libro, dopo una chiara introduzione al fenomeno migratorio, propone uno studio critico delle convenzioni internazionali e della normativa italiana su asilo e accoglienza, rendendolo un utile strumento di lavoro. Questa sorta di “antropologia delle istituzioni”, accompagnata dalla “voce dal campo”, permette sia di approfondire i processi di “clandestinizzazione” e “refugizzazione” tipici del razzismo di Stato, sia di far emergere le contraddizioni e i conflitti interni all’accoglienza e al ruolo difficile di chi ci lavora.
Dall’introduzione:
Tre anni fa mi sono trovato ad essere allo stesso tempo studente di antropologia e operatore in un progetto istituzionale di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Un doppio ruolo condiviso da tanti e tante in un tempo in cui l’università offre sempre meno spazi e risorse e l’accoglienza è diventata un settore che assorbe moltə neolaureatə. Se gli strumenti interpretativi dell’antropologia mi hanno permesso di analizzare in modo critico i nostri gesti quotidiani di operatori e operatrici dell’accoglienza e le contraddizioni della “macchina” nella quale ci trovavamo, l’esperienza concreta del lavoro mi ha offerto la possibilità di misurare le teorie critiche incontrate sui testi di studi. Dopo pochi mesi la mia posizione rispetto al fenomeno dell’accoglienza istituzionale era abbastanza chiara: ai miei occhi (e non solo per fortuna) si rivelava come una “disfunzione funzionale” viziata da premesse istituzionali che generano inevitabilmente un meccanismo violento in cui, da una parte, si deforma un essere umano in una particolare forma istituzionalizzata di umanità: il rifugiato e la rifugiata; dall’altra, si porta alla soglia (e spesso oltre) del burn-out coloro che hanno il compito di “far funzionare il disfunzionale”, operatori e operatrici che si ritrovano schiacciati nelle contraddizioni tipiche delle “istituzioni totali”. Certo, come tutte le analisi che non vogliono rischiare di essere eccessivamente approssimative è doveroso ammettere che le cose non sono mai così chiare ed uniformi: vi sono molteplici esperienze di resistenza e risignificazione, piccole e grandi conquiste, c’è la famosa agency che l’antropologia cerca di far emergere, la capacità dei singoli di muoversi, vivere e creare nonostante i labirinti istituzionali nei quali sono immersi. E fortunatamente anche nella nostra esperienza ci sono state persone richiedenti asilo che sono riuscite, nonostante tutto, a radicarsi e a realizzare – almeno in parte – il loro progetto di vita; così come noi “addettə al lavoro” siamo riuscitə a vivere momenti significativi, a spostare piccoli equilibri nelle istituzioni, ad offrire e strumenti e servizi che prima non esistevano nel territorio. Piccole lucciole di gioia in un buio diffuso. Ciò però non toglie che una lettura di insieme onesta non possa non cogliere la tendenza generale di un meccanismo falsato in partenza, costruito sull’emergenza e che in essa rimane impantato, facendo spesso affondare in questo pantano le persone che si trovano a viverlo.
Nei momenti più difficili e frustranti del lavoro è stato molto utile provare a tenere una sorta di diario di campo. L’idea era quella di annotare nel Diario di una non-accoglienza tutti quei cortocircuiti che quotidianamente ci trovavamo a vivere e che nel tempo emergenziale del lavoro non riuscivamo a fermare. Oltre alla necessità di avere una valvola di sfogo, la sensazione era quella di lasciare un segno per il futuro, per quando, “a bocce ferme”, si sarebbe riguardato a questo tempo e a ciò che lo Stato sta facendo con i suoi progetti di cui spesso si parla tanto senza sapere molto. In quel futuro sarebbero stati importanti i diari di tutti. Ma al di là delle fantasie, il diario era fondamentale per tenere un filo, un passo di distanza dal marciare quotidiano a ritmi che rendevano la riflessione difficilissima, e per non smettere di pensare criticamente a tutto ciò che dentro il progetto istituzionale accadeva. Affrontarlo dopo mesi mi ha permesso di tematizzare alcuni dei problemi centrali dei progetti di accoglienza istituzionali che lì, in quella specifica esperienza, già emergevano: il problema della relazione tra “accolti” e “accoglienti”, l’utilizzo del discorso e dello strumento medico, la questione del lavoro quasi non retribuito, la cosiddetta “integrazione” sociale, il ruolo delle istituzioni e delle associazioni locali, il “razzismo di Stato”.
Dopo un anno e mezzo di lavoro da operatore ho deciso di non rinnovare il contratto e la fine dell’università mi ha permesso di costruire un lavoro di tesi attorno a quell’esperienza. A freddo, provando a pensare a come raccontare a qualcuno che non aveva vissuto l’esperienza di un progetto istituzionale cosa fosse questa benedetta accoglienza, ho avuto bisogno di fare moltissimi passi indietro e partire dal più lontano possibile. I progetti, fotografati nel presente, non possono rispondere a molti dei loro perché. Io stesso mentre lavoravo vedevo che c’erano infinite disfuzionalità senza riuscire a comprenderne l’origine. La tesi è diventata l’occasione per rispondere alla domanda: “ma come diavolo siamo arrivati a questo?”. Il risultato è stata una sorta di antropologia al contrario: un lavoro che, anziché vedere e raccontare l’alterità del migrante, coglieva l’occasione della sua presenza per analizzare il nostro modo di relazionarci all’alterità stessa, per mettere in luce tutto ciò che di noi – e delle nostre istituzioni – diamo spesso per scontato. In sostanza, quella che il sociologo Abdelmalek Sayad chiamava la “funzione specchio” della migrazione:
«Abitualmente si parla di “funzione specchio” dell’immigrazione, cioè dell’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale»1.
Il quadro che è emerso è quello di un enorme meccanismo brutale, divenuto sempre più violento negli ultimi trent’anni, di cui noi operatori e operatrici non eravamo che l’ultimo piccolissimo tassello. Il colonialismo e il neocolonialismo, la devastazione ambientale e i “nuovi profughi”, la distruzione di qualsiasi lavoro locale che non preveda lo sviluppo di un’economia capitalista, la chiusura di vie di ingresso regolari, la necessità di manodopera priva di diritti, l’ideologia umanitaria e la logica dell’eterna dipendenza, i campi di prigionia e l’esternalizzazione delle frontieri, i migliaia di morti in mare, i respingimenti e i muri, la retorica razzista, la violenza dei CIE-CPT-CPR etc, la “refugizzazione” e la “clandistinizzazione” di essere umani, sono solo i più eclatanti capitoli di questa storia. Una storia che a noi, oggi, arriva sputata nei giornali e telegiornali da riprovevoli personaggi politici come l’ex ministro dell’interno Matteo Salvini, certamente simbolo di questa mortifera volontà istituzionale, ma non più di moltә altrә che, prima e dopo di lui, non hanno fatto che scrivere ciascunә una pagina di un libro che ha una sua perfetta coerenza interna e nessun colpo di scena o ripensamento.
Oggi che Salvini ha perso le sua posizione privilegiata si parla molto meno di migrazioni. Oggi c’è il Covid-19 di cui parlare e c’è una ministra, Lamorgese, che ha tutta un’altra postura ed “eleganza” rispetto al capo della Lega, che parla poco e lavora soprattutto in silenzio. Eppure il numero di morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa nel 2021 è praticamente raddoppiato rispetto agli anni 2020 e 20192 e nell’est Europa bambinә migranti respinti muoiono di freddo nei boschi. Per carità, lungi da noi dare l’impressione di rimpiangere qualcuno: il punto qui è evidenziare come tutto ciò che concerne le migrazioni e l’accoglienza ha una coerenza indiscutibile da quando l’Italia ha iniziato a porsi il problema, a partire dai quarant’anni di vuoto giuridico tra l’indicazione costituzionale dell’articolo 10 sull’asilo politico e la prima legge parlamentare minimamente organica in tema: un vuoto riempito da prassi e circolari ministeriali per nulla dibattute democraticamente.
Per capire la violenza del presente è necessario un lavoro di contestualizzazione che illumini la strada sinora percorsa. Questa necessità sta alla base dei primi due capitoli del testo, frutto anche di un ulteriore bisogno: provare ad uscire da quell’ottica emergenziale che tende a schiacciare buona parte del discorso e delle pratiche sull’accoglienza in una sorta di “eterno presente”, che pare essere quasi senza storia. Proprio per restituire la dimensione storica di questi fenomeni, e quindi per coglierne essenza e direzione, nel primo capitolo si è cercato di render conto delle trasformazioni avvenute lungo gli ultimi decenni nel contesto delle migrazioni dal sud verso il nord del mondo, provando a sottolineare come le attuali politiche sull’accoglienza siano comunque legate a tali cambiamenti in modo estremamente forte.
Un ulteriore lavoro di contestualizzazione, ma secondo una prospettiva politico-normativa, viene presentato nel capitolo secondo. L’intento è quello di ricollocare i progetti di accoglienza istituzionale all’interno dell’ampio quadro normativo internazionale, ed in particolare italiano, che dal secondo dopoguerra ha determinato e organizzato la migrazione e l’asilo in Europa e Italia. Questo approfondimento si è rivelato fondamentale per acquisire coscienza di quanto, nel ruolo di operatore dell’accoglienza, non riuscivo ad afferrare in modo esplicito: una precisa e razionale volontà di rendere il sistema istituzionale di accoglienza una grande “disfunzione funzionale”. La proposta, qui, è quella di non interpretare l’odierno sterminio di migranti nel Mar Mediterraneo e nei campi di prigionia come qualcosa di incompatibile con gli enunciati dei Diritti Umani e con le convenzioni internazionali su asilo e protezione internazionale, bensì di cercare proprio all’interno di essi le condizioni di possibilità di quella che è probabilmente la strage umana più impressionante del presente che vede protagonista la “fortezza Europa”.
Si tratta di una sorta di etnografia dello Stato e delle normative, che si conclude poi con una presentazione delle leggi italiane in materia di asilo e migrazione e con la ricostruzione di quella che abbiamo definito “filiera dell’accoglienza”. Il fine è quello di evidenziare la grande confusione, di certo non casuale, che il sistema istituzionale di accoglienza presenta: confusione che ci è parso utile provare ad ordinare sia per comprenderne la (dis)funzionalità che per affinare gli strumenti di lavoro utili.
Solo alla luce di un quadro così ampio lo sgomento del Diario di una non-accoglienza, così come il ruolo compromesso dell’operatore, possono risultare comprensibili fino in fondo.
L’evidente sproporzione tra “l’analisi contestualizzante” e il diario di campo può essere letta come l’enorme sforzo che certe esperienze “difficili da digerire” richiedono per essere integrate e comprese. Il diario diventa così l’occasione per fare il percorso più ampio che lo precede, con l’idea di riportare dentro al discorso tutto ciò che nel parlare comune di migrazione e accoglienza resta invece fuori. Il vero oggetto di analisi che l’esperienza di lavoro ha stimolato è il “modo istituzionale” di governare migrazione e accoglienza: lo Stato, le forze che lo muovono, le leggi, i centri, i campi, gli operatori. L’immagine inquietante che può venirne fuori è quella di un grande campo diffuso e sconfinato che, se non completamente, si macchia di atteggiamenti e scelte omicide tali da farci pensare a logiche totalitarie.
Infine, l’appendice in chiusura cerca di approfondire alcuni termini con i quali “parliamo” la migrazione e l’accoglienza, e prova a riprendere in mano la nozione di razzismo, spolverandola un po’ da molte banalizzazioni comuni.
1 Abdelmalek Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul “pensiero di stato”, “aut aut”, 275, 1996, p. 10.