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Il “belpaese” delle violenze e dei falsi di polizia

L’omicidio di Stefano Cucchi e il processo che ne è seguito confermano che l’abuso di potere, la pratica della tortura, la falsificazione degli atti, la copertura dei responsabili, l’insofferenza per le verifiche della magistratura non sono eventi eccezionali in un contesto sano e leale, ma elementi ricorrenti nella condotta delle nostre forze dell’ordine. Da qui occorre ripartire, senza rimozioni, per un reale risanamento.

di Lorenzo Guadagnucci

Per chi, come il sottoscritto, ha vissuto da testimone e parte civile i processi seguiti al tragico G8 genovese del 2001, la vicenda di Stefano Cucchi appare come un calvario umano, giudiziario, politico e civile pieno di rimandi a quell’esperienza. Le giornate di Genova portarono alla luce, con inattesa crudezza, la pronunciata attitudine di settori consistenti delle forze dell’ordine a compiere atti di violenza ingiustificata contro cittadini inermi, a coprirli falsificando verbali e comunicazioni ufficiali, a rifiutare di riconoscere le proprie responsabilità, una volta accertati gli abusi, di fronte all’autorità giudiziaria e alla stessa cittadinanza. A Genova ‒ giova ricordarlo ‒ fu praticata su larga scala la tortura: come hanno scritto a chiare lettere prima i magistrati italiani poi quelli della Corte europea per i diritti umani, furono torturati i cittadini soggetti alla famosa “perquisizione” alla scuola Diaz e quelli passati per l’altrettanto sinistramente famosa caserma di polizia di Bolzaneto, adibita nei giorni del G8 a carcere provvisorio per le persone fermate durante le manifestazioni. Il luglio genovese fu anche un festival della menzogna e del falso in atto pubblico: falso, dalla prima all’ultima riga, il verbale d’arresto dei 93 ospiti della scuola Diaz e false le “spiegazioni” date alla stampa; falsi gran parte dei verbali su quanto avvenuto a Bolzaneto; falsi anche i documenti su decine di arresti avvenuti per strada durante le manifestazioni, come dimostrato in numerosi processi in sede civile vinti dai malcapitati che sono riusciti a dimostrare, grazie a foto, filmati e testimonianze, il frequente ricorso a inventate e stereotipate accuse di lanci di oggetti contro gli agenti e di resistenza a pubblico ufficiale.

La vicenda di Stefano Cucchi si è svolta lontano da occhi indiscreti ed è stata vissuta dalla vittima in solitudine; il suo, se vogliamo, è stato un caso di “ordinaria amministrazione”, senza alcun risvolto politico legato a manifestazioni di protesta e senza il clamore mediatico collegato. È proprio questo che fin da subito inquietò chi usciva dall’esperienza genovese: a otto anni dal G8, che aveva svelato una sorprendente attitudine alla violenza delle nostre forze dell’ordine, emergeva una storia piena di punti oscuri, di falle, di dubbi, messi in luce dai familiari di Stefano, ma respinti e tacitati con fermezza dai corpi istituzionali. Abbiamo capito col tempo, e grazie a una serie imprevedibile di eventi ‒ la tenacia dei familiari, la pur tardiva rottura del fronte dell’omertà, la professionalità dei magistrati ‒ ciò che temevamo. Gli abusi, le violenze, i falsi osservati a Genova nel 2001 facevano parte ‒ questa la constatazione ‒ di un “sistema” che esisteva prima del G8 e che ha continuato a esistere dopo il 2001 nonostante lo scandalo suscitato dalle denunce di decine di testimoni e dai processi aperti a carico di numerosi appartenenti (anche di vertice) alle forze dell’ordine. L’abuso di potere, la pratica della tortura, la falsificazione degli atti, l’opzione primaria per la copertura dei responsabili, l’insofferenza per le verifiche della magistratura e per le richieste di trasparenza dell’opinione pubblica non erano eventi e comportamenti eccezionali e deprecabili all’interno di apparati leali e capaci di correggere i propri errori, bensì elementi ricorrenti nella condotta delle nostre forze dell’ordine. La sorte di Stefano Cucchi e i successivi depistaggi, con l’incredibile serie di menzogne e falsificazioni, ne sono stati una dimostrazione. Purtroppo non l’unica, se pensiamo ai casi di altre persone decedute durante fermi di polizia e al calvario affrontato dai familiari per conoscere almeno le circostanze dei decessi e per ottenere eventualmente giustizia. Col tempo, ci siamo abituati all’idea che in situazioni simili, pur così drammatiche, tocchi alle famiglie indagare sui fatti e che dalle forze dell’ordine, intese come istituzione, non possa arrivare alcun contributo alla loro ricostruzione.

L’anno scorso la clamorosa rivelazione ‒ in fondo casuale, dovuta alla mancata cancellazione degli hard disc ‒ della spedizione punitiva compiuta nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere ha messo a nudo quanto poco sia stata elaborata, dentro le forze dell’ordine, la “lezione” del G8 genovese. I filmati ripresi dalle telecamere interne hanno riproposto scenari analoghi a quelli di Bolzaneto, a cominciare dal sinistro “comitato di accoglienza”, come gli agenti definivano il corridoio umano nel quale i detenuti erano costretti a passare, in modo da essere colpiti con calci, pugni, sputi, manganellate dalle due file di agenti. Niente di eccezionale, dunque, né a Bolzaneto né a Santa Maria Capua a Vetere, ma tecniche di tortura conosciute, trasmesse, praticate a distanza di un ventennio e messe in atto ‒ siamo costretti a temere ‒ chissà quante altre volte, lontano da telecamere rimaste accese e denunce pubbliche.

Nonostante tutto all’indomani del il G8 del 2001, a processi ancora in corso (in mezzo a ripetuti tentativi di depistaggio e condizionamento), si tentò di avviare una “stagione di riforme”, nella speranza di spezzare quel “sistema” autoreferenziale e incontrollabile che si intuiva esistere nelle forze dell’ordine e che aveva reso possibile l’abnorme caduta di legalità osservata a Genova. Furono formalizzate alcune proposte concrete: dall’obbligo per gli agenti di avere codici di riconoscimento personale sulle divise all’approvazione di una legge sulla tortura, fino al rinnovamento dei criteri di formazione degli agenti nell’ottica della prevenzione e della non violenza piuttosto che della repressione. Si proponeva anche di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del luglio genovese e si chiedeva, come premessa logica e necessaria al progetto d’insieme, che i vertici delle forze dell’ordine ripudiassero formalmente gli abusi compiuti a Genova e chiedessero scusa alle vittime, alla cittadinanza, agli stessi lavoratori di polizia, allontanando inoltre dal servizio attivo i dirigenti sotto processo o già condannati. Ben poco, anzi quasi niente di tutto ciò si è concretizzato: solo la legge sulla tortura, approvata faticosamente nel 2017 e con rilevanti menomazioni nel testo. Tutto il resto è stato abbandonato, nessun processo di riforma ha preso piede, nonostante alcuni indubitabili successi in sede giudiziaria come le condanne dei vertici di polizia nel caso della Diaz, le responsabilità accertate per Bolzaneto, le stesse recenti condanne inflitte nel secondo processo Cucchi. Al contrario, si è scelto di non seguire le prescrizioni contenute nelle sentenze di condanna contro l’Italia davanti alla Corte europea per i diritti umani nei casi Diaz e Bolzaneto: i giudici hanno chiesto al nostro paese la destituzione dei condannati e l’introduzione dei codici di riconoscimento, ma è tutto rimasto lettera morta e un’altra possibilità d’azione è svanita.

La catena degli eventi ‒ fra Genova G8 e la sentenza Cucchi, passando per ulteriori casi che potremmo evocare facendo i nomi di Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini e altri ancora, fino ai fatti di Santa Maria Capua a Vetere ‒ ci conduce a constatare la permanenza nelle forze dell’ordine di alcuni nodi irrisolti: nella formazione, nelle regole d’ingaggio, nel contenimento della violenza, nell’autocontrollo, nella trasparenza, nella condivisione dei princìpi costituzionali. I processi, così difficili, così contrastati, ci hanno offerto l’occasione di conoscere un universo umano e professionale abituato a non mostrarsi all’esterno, geloso della propria autonomia fino a toccare livelli patologici (come spiegare altrimenti il così ricorrente uso del falso e del depistaggio?). E tuttavia sappiamo che dentro le forze dell’ordine esistono correnti d’opinione ‒ e prassi concrete ‒ di sicura tenuta democratica e coscienti dell’urgenza di avviare un’ampia operazione di riforma, nel segno dell’apertura e della trasparenza. Sono voci che meriterebbero d’essere incoraggiate e d’essere coinvolte in un ampio progetto di democratizzazione, un progetto che dovrebbe includere necessariamente ampie porzioni della società civile. I primi punti di una possibile riforma li conosciamo già, ma l’orizzonte dovrebbe essere più largo e guardare ai fondamenti della convivenza democratica: nel 1981, quando fu smilitarizzata la polizia di Stato, si disse che la Costituzione entrava finalmente nelle caserme. Quella riforma, col tempo, è stata svuotata dall’interno, quindi sterilizzata, ma il filo del discorso andrebbe ripreso, rilanciato ed esteso agli altri corpi di polizia. Sarebbe un modo, fra le altre cose, di onorare la memoria di Stefano Cucchi.

da Volere la Luna