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Cantami o diva

Il nazionalismo ha inghiottito il mondo in una riedizione ingigantita dei deliri di un secolo fa, così i soldati ucraini vengono descritti come i moderni eroi omerici. Ma ci siamo mai chiesti chi era Achille? Non ci resta che disertare la guerra, la produzione, il consumo

di Franco Berardi Bifo

Nel 2013, quando le sorti del movimento mondiale Occupy volgevano al peggio e la speranza di Obama si andava dissolvendo, un gruppo di artisti mi invitò a tenere una conferenza al museo di arte contemporanea di Bucarest, che si trova nella parte posteriore dell’immenso palazzo che era stato dimora dei coniugi Ceausescu. Sul fondo della grande sala di marmi bianchi in cui si trovava una piccola folla di ragazze e ragazze, campeggiava una scritta: No Hope.

Il clima in sala era rilassato e frizzante. Dopo avere conosciuto Ceausescu e dopo avere sperimentato il capitalismo, i miei amici romeni avevano capito che nel mondo incombente non c’era alcun posto felice per loro.

Dunque occorre andarsene.

Bianco e nero e technicolor

Si teme che la guerra in Ucraina possa essere l’inizio della terza guerra mondiale. A me pare che per il momento si tratti di un inatteso capitolo della seconda. A parte il colore televisivo che ha rimpiazzato il bianco e nero dei cinegiornali e delle foto, tutto suona come una riedizione di vecchi deliri che speravamo sepolti, almeno in Europa.

Di nuovo risuonano quelle parole dementi che agitarono la prima parte del secolo scorso: la patria, la nazione, il sangue, il popolo, gli eroi. Tutto il veleno del Romanticismo irrancidito ritorna.

Carri armati tedeschi sul territorio di quella che un tempo si chiamava Unione Sovietica. Ferri vecchi di una guerra vecchia che promette di inghiottire la vita delle nuove generazioni, catapultate all’indietro in un incubo distopico dal quale adesso nessuno pare capace di tirarli fuori.

I cantori del mondo libero annusano l’odore mortifero della vittoria, e si eccitano nelle tribune televisive e parlamentari.

E i generali circondano Putin sul podio del Giorno della Vittoria promettendo vendetta e mandando a morire ragazzi ucraini e russi nel nome santo della Nazione.

Tutto questo orrore è coloratissimo. Le televisioni russe mostrano la parata e il podio e il piazzale che riluce delle divise di diecimila giovanetti in un sole che splende a rischiarare i volti, mentre urlano entusiasti Hurrah! Hurrah! Hurrah!

Decine di volte al giorno le televisioni occidentali mostrano con malcelato entusiasmo chiazze di sangue e cadaveri spiaccicati per terra per convincere il povero pubblico di una cosa che sappiamo benissimo, e cioè che la guerra è orrenda. Ma a loro piace, anzi non vogliono assolutamente che finisca, vogliono mandare altre armi, più lucide, più moderne, più letali, perché non si fermi la carneficina e alla fine ci arrida la vittoria.

Questa guerra demente è il suicidio della razza bianca, e fin qui sarebbe quasi una buona notizia; ma io temo che, prima di morire, la razza bianca intenda trascinare nel suo abisso l’umanità intera.

Ricordi di Jugoslavia

La guerra in Ucraina non è la prima guerra sul suolo europeo dopo il 1945, come spesso si dice. La guerra nell’ex Jugoslavia, 150.000 vittime tra il 1991 e il 1999, fu una sorta di prova generale della guerra civile globale che adesso ha il suo epicentro nella parte orientale dell’Ucraina. La guerra in corso ha una proiezione globale che la guerra jugoslava non aveva, ma le motivazioni sono le stesse che animarono Tudjman, Milosevic, Karadzic, Izetbegovic: l’identità nazionale, etnica, religiosa. Da quella guerra, un paese che era stato relativamente prospero e pacifico è uscito a pezzi: sette staterelli miserabili e politicamente irrilevanti da cui i giovani emigrano in massa.

Trent’anni dopo Sarajevo, un po’ più a oriente si fronteggiano due psicosi armate. Il destino militare della guerra è incerto, ma il destino di miliardi di donne e di uomini di tutto il pianeta è facilmente prevedibile: inflazione, recessione, interruzione dei cicli produttivi ed energetici, scarsità alimentare in aree del sud del mondo, moltiplicazione dei conflitti, moltiplicazione dei blackout locali e regionali. Peggioramento drastico dell’ambiente, riapertura delle centrali di carbone, spostamento degli investimenti verso il riarmo.

La lista delle tendenze in atto è sconvolgente, ma l’intero sistema mediatico e politico della razza bianca (russa, europea, nordamericana) investe tutte le sue energie per vincere la guerra.

Che gli ucraini odino i russi non c’è dubbio. E non c’è dubbio che abbiano ottime ragioni per odiarli. Basta ricordare la repressione violenta dell’esperimento libertario di Nestor Machno, negli anni subito successivi la rivoluzione d’ottobre. Basta ricordare l’Holodomor, la carestia che seguì l’imposizione della collettivizzazione della terra da parte di Stalin, che costò più di due milioni di vittime. Basta ricordare Chernobyl e l’incapacità delle autorità sovietiche di gestire il disastro da loro stesse provocato. Basti pensare alle conseguenze che Chernobyl ha avuto in termini di diffusione del cancro alla tiroide e di leucemia nella popolazione ucraina.

Ma questa non è una buona ragione per esporre gli ucraini a una nuova ecatombe, a una nuova umiliazione, come ha fatto l’amministrazione Biden con un cinismo che toglie il fiato. Per mesi i media americani hanno amplificato il pericolo che la Russia invadesse l’Ucraina, e i politici americani hanno fatto tutto il possibile perché questo accadesse. Qualcuno si è chiesto perché mai  Biden e i suoi portavoce abbiano insistito varie volte su una cosa che si poteva anche non dire: in caso di invasione russa all’eroica Ucraina, manderemo armi e aiuti finanziari, ma non interverremo direttamente con le nostre truppe. Non era questo un modo per tranquillizzare i russi, e dirgli fate pure, tanto l’Occidente non interverrà?

Sfruttando il ben fondato odio degli ucraini per l’imperialismo russo, l’amministrazione Biden ha pensato di attirare Putin in una trappola, e novanta giorni dopo pare che ci sia riuscita. Il blitzkrieg è fallito, la presa di Kiev è fallita, e Putin non può per il momento dichiarare nessuna grande vittoria. Ma occorre vedere la mancata vittoria russa in un quadro più grande, che non è solo quello militare.

Borodino

Il disegno di Putin, mi pare, non è vincere la guerra in Ucraina, ma rovesciare con un’azione locale l’ordine del mondo. L’invasione è soltanto l’innesco di un attacco non militare al pianeta intero: un attacco che colpisce il ciclo alimentare, il ciclo energetico, il ciclo finanziario, e dulcis in fundo il ciclo psichico globale.

L’attivismo bellicista in cui si è lanciato Biden è pericoloso per tutti, anzitutto per lui. I sondaggi lo danno in minoranza, il suo paese è dilaniato da una guerra civile psicotica (GCP) che ogni giorno miete qualche vittima e una volta alla settimana lascia decine di morti in una scuola o in un supermercato. I capi di governo che ha incontrato a Tokyo firmano trattati con lui, ma nessuno può fidarsi di quell’uomo, se non altro per il fatto che non controlla il Congresso e presto sarà sostituito da un nuovo Trump (o forse dal vecchio).

Il mondo libero di cui l’America è leader ha messo in moto una catastrofe che, anche senza (non impossibili) coinvolgimenti militari, lo travolgerà.

Anche la Russia sarà travolta dalle conseguenze delle sanzioni e di una guerra disgraziata. Ma consiglio a tutti di rileggersi le pagine in cui Tolstoj racconta, in Guerra e Pace, i giorni successivi alla sconfitta di Borodino, nel 1812. Kutuzov decise di non difendere Mosca, e il popolo decise di bruciarla. Quando Napoleone giunse nella capitale, si trovò in mezzo alle macerie ancora fumanti, mentre intorno l’inverno strangolava la sua Armata.

Fu l’inizio della fine di Napoleone.

Racconta Tolstoj:

“Le forze di dodici nazioni d’Europa si rovesciano sulla Russia. Esercito e popolazioni civili indietreggiano fino a Smolensk poi da Smolensk fino a Borodino. L’esercito francese, con un impulso di intensità crescente, si porta fino a Mosca, meta del suo movimento. L’intensità del suo impulso, man man che si avvicina alla meta, cresce in modo paragonabile al crescere della velocità d’un grave a misura che s’avvicina alla Terra. Alle spalle, migliaia di chilometri di nudo, ostile territorio; innanzi, poche decine di miglia che ancora dividono dalla meta”.

A Borodino le sorti della battaglia volgono a favore di Napoleone, e allora Kutuzov decide di ritirarsi, a costo di lasciare Mosca in mano ai nemici. Il suo ragionamento è semplice e realistico: se difendiamo Mosca la perderemo, e insieme perderemo l’esercito. Se ci ritiriamo, Mosca sarà espugnata, ma l’esercito potrà ricostituire la sua forza. Mosca viene abbandonata, e data alle fiamme.

“Il popolo aspettava con noncuranza il nemico, non tumultuava, non s’agitava, tranquillamente aspettava il suo destino, sentendo di possedere le forze necessarie per trovare, al momento più difficile, quel che avrebbe dovuto fare. E quando il nemico si avvicinava gli elementi più agiati di ogni nucleo si allontanavano, abbandonando i loro averi: i più poveri restavano e incendiavano e distruggevano tutto quanto veniva abbandonato. La consapevolezza che così vanno le cose e che sempre andranno così è profondamente radicata nell’intimo di ogni russo.”

Il sesso degli angeli

Loreto mi parla del suo amico Vasyl, un ucraino antifascista che una decina di anni fa fuggì dal suo paese dopo essere stato massacrato di botte da una banda di fascisti. Dopo l’invasione, la mia amica gli ha scritto per chiedergli se pensava di andarsene di nuovo, e Ivan ha risposto che no. Ha deciso di rimanere, per combattere i russi invasori (a fianco dei suoi picchiatori di ieri). Taras Bilous, uno scrittore di Kiev, spiega perché ha deciso di sostenere la resistenza anti-russa, e descrive il fascismo russo come lo specchio del cinismo euroamericano. Le conseguenze di una vittoria russa sarebbero orribili, dice.

È vero: le conseguenze di una vittoria russa sarebbero orribili. Ma purtroppo sarebbero orribili anche le conseguenze di una sconfitta russa, e non soltanto per i russi. Il nazionalismo ha inghiottito il mondo in una riedizione ingigantita dei deliri di un secolo fa. La questione se esista una nazione ucraina distinta da quella russa è simile a quella relativa al sesso degli angeli. La psicosi nazionalista è anzitutto un’oggettivazione ossessiva dello stereotipo identitario, e questa ossessione che ci sembrava un patetico retaggio del passato è tornata incontenibile nel secolo nuovo, annunciata dalla tragedia jugoslava.

Cantami o diva

Mezzo secolo di advertising ha prodotto un effetto di infantilizzazione e rimbambimento della popolazione. Il conformismo è penetrato nelle fibre più intime della psicologia collettiva sotto la forma ambigua dell’esibizionismo e della trasgressione consentita: eroi di cartapesta che imitano le imprese estreme della pubblicità, e vivono avventure omologate per compensare il vuoto servilismo della vita reale.

Perciò non mi sorprende, anche se mi addolora, che intellettuali e giornalisti che provengono dalla cultura internazionalista abbiano deciso di bere l’oscena melassa mediatica e siano diventati interventisti come il fascismo sorgente nel 1914.

Quando il primo marzo vidi Zelensky che parlava all’Assemblea dell’Unione europea, mi parve chiaro che prendeva forma un’operazione fondata sul fatto che il Mediascape ha creato le condizioni per un ritorno degli eroi. Guardo le foto dei miliziani del battaglione Azov asserragliati nell’acciaieria, con le bende sporche di sangue, i cappellacci sulla testa e i tatuaggi sul bicipite. Eroi omerici. Aiace il paranoico solitario, Achille il vanesio iracondo.

Vi siete mai chiesti chi era Achille? Un giovanotto atletico che andò a uccidere Ettore e molti altri innocenti troiani perché la moglie di un amico era fuggita con l’avvenente Paride. Non è forse un idiota quell’Achille?
Non sono forse idioti gli eroi in generale? Non siamo forse intrappolati nella trappola dell’idiozia?

Cinquanta anni fa dicevamo “socialismo o barbarie”, ma per lungo tempo ci siamo chiesti che volto avesse la barbarie imminente. Ora lo sappiamo.

Sul New York Times è uscito un articolo di Peter Coy che filosofeggia con una ridda di frasi contraddittorie ma gonfie di boria retorica: “Il coraggio sembrava estinto, poi è arrivato Zelensky”. L’oggetto delle riflessioni fascistoidi di Peter Coy è il coraggio, anzi l’eroismo. Per qualche secolo abbiamo pensato di costruire una cosa chiamata civiltà, in cui non occorre essere forzuto e aggressivo per procurarti il pane, ma tutti, anche quelli mingherlini e paurosi possono accedere all’istruzione e alla sanità. Ma non importa. Peter Coy spiega con orgoglio che siamo finalmente tornati all’epoca degli antenati con la clava, con la piccola differenza che la clava in dotazione è una ordigno nucleare che può incenerire Londra, così tanto per dire.

Biden e Napoleone

In un’intervista televisiva, Hillary Clinton dichiarò all’inizio dell’anno che il suo sogno era di procurare un nuovo Afghanistan a Putin (che, non senza ragioni, considera responsabile della sua sconfitta alle presidenziali del 2016).  Forse ci è riuscita, a procurargli un Afghanistan ucraino; solo che Putin non è Brezhnev, e temo le cose non finiranno nello stesso modo.

I sovietici non ammettevano l’idea di usare l’arma finale se non per rispondere a un’aggressione atomica, mentre i fascisti putiniani hanno ripetutamente affermato che, in caso di minaccia esistenziale, la Russia non esiterà a ricorrervi. E cosa sia minaccia esistenziale lo decideranno loro, naturalmente.

Inoltre l’Unione Sovietica era una costruzione politica che poteva dissolversi per volontà del gruppo dirigente, mentre la Russia non è una costruzione politica ma un mito fondativo, un’entità mistica, una madre terrifica. È come uno shahid, un martire collettivo in attesa di farsi esplodere. Come nel 1812, la Russia ha attirato il mondo libero nei recessi gelidi della disperazione russa (anche se Biden non è Napoleone).

Troppo tardi

Non voglio fare insinuazioni malevole, ma guardando le immagini delle battaglie mi sono fatto l’idea che la guerra ucraina sia l’occasione per rinnovare il parco-armi. I vecchi carri armati dell’era sovietica andavano smaltiti. Qualcuno si è chiesto perché i russi non abbiano usato i loro sistemi d’arma più recenti come gli aerei Sukhoi Su-57 e i carri armati T-14 Armata, considerati i più moderni al mondo. Addirittura sui campi di battaglia ucraini si sono visti modelli degli anni Settanta. Anche le armi che gli americani mandano a Zelensky non sono all’altezza della tecno-guerra che si dovrà combattere nel Pacifico.

Putin e Biden svuotano gli arsenali e incrementano la spesa militare così vanno alle stelle i profitti dei loro amici che producono armi.

La National Rifle Association, che si riunisce a pochi chilometri dalla strage di Uvalde in Texas, dovrebbe ringraziare il presidente che con sdegno retorico denuncia la vendita di armi ai ragazzini psicotici, e al tempo stesso compra armi da mandare in Ucraina perché altri ragazzini psicotici si possano liberamente ammazzare.

Un’onda di fanatismo nazionalista travolgerà, anzi sta già travolgendo il continente europeo: Biden non è in grado di vincere nessuna battaglia nel suo paese, e ha scelto di fare d’Europa il luogo della sua vendetta.

La determinazione di Biden nell’armare il nazionalismo ucraino ha trasformato l’Europa in una nazione, contraddicendo lo spirito del progetto europeo. L’Unione Europea è ora uno stato razziale e razzista che ammette rifugiati sulla base del colore della pelle, ed eroga contributi in misura doppia ai bambini con pelle bianca e capelli biondi, rispetto a quelli coi capelli crespi e la pelle scura.

Coloro che in Europa incitano sconciamente gli ucraini alla guerra si renderanno conto presto di avere messo in moto l’apocalisse, ma sarà troppo tardi. Allora gli eccitati interventisti si metteranno zitti per un po’, faranno finta di non ricordare come adesso fanno finta di non ricordare l’entusiasmo con cui accolsero le guerre di Afghanistan e Iraq, quando eravamo tutti americani. Ma sarà troppo tardi.

È già troppo tardi.

Questa guerra seppellisce le promesse umanistiche, per non dire quelle democratiche. Mettiamoci una pietra sopra e non parliamone più. L’umanità reale non è all’altezza di quelle promesse. Rassegniamoci. E disertiamo. Allontaniamoci in tutti i modi possibili.

Nazismo, forma estrema del dominio bianco

I due blocchi dichiarano di combattere contro il fascismo, perché entrambi sono affetti da schizo-fascismo. Dovunque il culto della nazione dilaga, riemerge il culto della superiorità razziale, si ripropone l’individuazione di un capro espiatorio da sterminare: gli ucraini per i russi, i russi per gli ucraini, i palestinesi per lo stato colonialista israeliano, i migranti africani per lo stato razziale europeo, i musulmani per il fanatismo induista. 

Il nazismo hitleriano, pur nella sua eccezionalità, era perfettamente in linea con la violenza del colonialismo, come dice Cedric Robinson nel libro Black Marxism. I vincitori nella seconda guerra mondiale hanno stabilito che Hitler era la personificazione del male, e dunque chi lo aveva sconfitto doveva essere la personificazione del bene. Ma Hitler non era la personificazione del male, bensì la punta estrema della disumanità intrinseca alla storia dell’imperialismo occidentale.

I marxisti afroamericani, che vedono la storia dell’imperialismo dal punto di vista di chi quella storia l’ha subita più duramente, sanno benissimo che il Nazismo non è che uno dei capitoli del libro dell’ininterrotta violenza bianca colonialista contro i popoli oppressi.

Disperanza

Secondo un’indagine di cui riferisce il NYT il 27 per cento della popolazione americana presenta sintomi di depressione clinica, con un picco del 51 per cento tra i giovani di 15-25 anni. Sappiamo come si cura la depressione americana: prendi il fucile automatico che papà ti ha regalato per il compleanno, vai alla scuola più vicina e massacri una ventina di ragazzini, oppure vai al supermercato a uccidere un po’ di esseri umani dalla pelle meno bianca della tua.

Terapia americana.

Elaborare collettivamente la depressione è il più grande problema politico del prossimo futuro. Per attraversare l’epidemia depressiva occorre adottare un metodo interpretativo e terapeutico-politico che sia fondato sulla disperanza. Occorre interpretare la depressione come forma di conoscenza e non solo come patologia: la forma di conoscenza più prossima alla verità. Occorre elaborare la depressione come diserzione da ogni gioco sociale competitivo, aggressivo.

Non c’è modo oggi di suscitare una soggettività attiva, occorre adottare una strategia fondata sulla passività, sulla non collaborazione, sulla diserzione. Diserzione dalla guerra, dalla produzione, dal consumo, dalla democrazia, dalla procreazione. Non stiamo solo attraversando una trasformazione economica geopolitica e sociale, ma una vera e propria ridefinizione cosmologica e quindi epistemica. Una nuova percezione del cosmo in cui ci muoviamo e dell’episteme, come facoltà di interpretare il mondo.

Le attese di mondo che la modernità ci ha lasciato in eredità sono ineffettuali, perché la cosmologia moderna, fondata sull’espansione, è esaurita, e solo l’abbandono della speranza moderna può riattivare l’immaginazione che la depressione ha paralizzato.

Vedi dei punti caotici bianchi e neri fin quando non riconosci un cane dalmata. Vedi una macchia sul muro, poi riconosci che si tratta di una anziana signora curva. Vedi una anziana signora curva, ma poi se guardi meglio vedi anche una bellissima ragazza dai capelli lunghi. Solo quando ti arrendi al caos puoi vedere la nuova forma.


Articolo  pubblicato su Nero ed. e Comune-Info