Sono le 12:37 di un assolato sabato estivo quando dalla fabbrica si alza una nube che il vento spinge in direzione sud-est e sembra dissolversi poco dopo.
Quello che sta avvenendo è la fuoriuscita con conseguente dispersione di circa 3.000 chilogrammi di sostanze inquinanti, tra cui anche diossina. La nube sorvola undici comuni, tra cui Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno, inquinando complessivamente 1.810 ettari di territorio. La Brianza intera non lo sa ancora, ma ha appena avuto inizio il primo choc ambientale italiano: quell’evento che sarà ricordato come il “Disastro di Seveso”.
L’ICMESA nasce in Svizzera nel 1924 con il nome di “Industrie Chimiche K. Benger & C.” del gruppo Givaudan. Il 29 novembre 1945 lo stabilimento viene spostato in Brianza e l’industria diviene la “Industrie Chimiche Meridionali S.A.”. Assumerà il tragicamente famoso acronimo di ICMESA solo nel 1947.
Per la Brianza del dopoguerra la fabbrica è una nuova realtà che però si distingue presto per la sua incuria ai danni dell’ambiente: l’incidente del 10 luglio 1976 infatti, pur unico nella sua gravità, vanta alcuni precedenti. L’immissione senza preventiva depurazione degli scarichi industriali nel torrente Tarò sollevava infatti da tempo le lamentele della popolazione, per l’emanazione di odori insopportabili e l’intossicazione di capi bestiame; numerosi incendi appiccati per smaltire i rifiuti industriali provocavano inoltre “nubi fumogene irrespirabili”.
Poco dopo mezzogiorno di questo sabato del 1976, nel reattore A-101 dell’ICMESA, dedicato alla produzione di triclorefenolo, la pressione raggiunge le 4 atmosfere e la temperatura i 250º: un cedimento del disco di rottura nella valvola di sicurezza porta alla dispersione nell’ambiente di una miscela altamente tossica.
Il 15 luglio vengono accertati numerosi casi di intossicazione ai danni della popolazione e i sindaci di Seveso e Meda vietano il contatto diretto con prodotti e terra interessati dall’incidente e consigliano un’accurata igiene personale.
Il 18 luglio l’ICMESA viene chiusa ma soltanto venerdì 24 luglio la presenza di un massiccio quantitativo di TCDD nella zona maggiormente colpita dalla nube tossica viene confermata e i sindaci ordinano l’evacuazione dell’area e il trasferimento delle famiglie per consentire le operazioni di bonifica: nasce così la “ZONA A”, presidiata dai soldati del 3° Reggimento Artiglieria a Cavallo. Vengono evacuate 736 persone, corrispondenti a 204 nuclei familiari, e viene imposta la sospensione dell’attività ad un’azienda agricola, a 37 imprese artigiane, a 10 esercizi commerciali e a 3 industrie.
Ad agosto vengono poi definite la “ZONA B”, caratterizzata da un tasso di inquinamento più lieve e la ZONA R (o “di Rispetto”) non inquinata, oppure contaminata con valori inferiori ai 5µg/m².
In entrambe le aree sono applicate misure precauzionali per contenere il rischio di intossicazione.
Nei mesi successivi le rassicurazioni delle autorità circa le imminenti opere di bonifica non riescono a placare le tensioni generate in una popolazione che, sfinita e traumatizzata da continui nuovi casi di cloracne e aborti terapeutici, ad ottobre occupa la superstrada Milano-Meda, in segno di forte protesta. A queste manifestazioni il sindaco di Seveso risponde appellandosi all’esercito.
La Regione Lombardia, all’indomani della tragedia, intenta contro l’ICMESA un procedimento penale e una causa civile. Nel 1983 il Tribunale di Monza condannerà in primo grado cinque dirigenti dell’industria per omissione dolosa delle misure di sicurezza sul lavoro e disastro colposo. Il responsabile tecnico dello stabilimento e il direttore tecnico della Givaudan, verrano condannati a cinque anni di reclusione; il progettista degli impianti e il presidente dell’ICMESA a quattro anni; il responsabile del reparto a due anni e sei mesi.
Ma due anni dopo la Corte d’Appello di Milano assolve tre dei cinque imputati e riconosce i due direttori tecnici colpevoli di fatti colposi anziché dolosi riducendo loro la pena rispettivamente a due anni di carcere e a un anno e sei mesi.
La controversia tra lo Stato e la Regione Lombardia da una parte e ICMESA e Givaudan dall’altra si risolve, nel marzo 1980, con il raggiungimento di un accordo: lo Stato deve essere risarcito con 7 miliardi e alla Regione devono essere corrisposti 40 miliardi per le spese delle opere di bonifica; occorre inoltre destinare 70 miliardi a programmi di bonifica e ricerca. Il tutto per un totale di 103 miliardi e 630 milioni di lire.
Dopo l’incidente di Seveso, che la rivista Time classifica all’ottavo posto tra i peggiori disastri ambientali della storia, gli Stati dell’Unione Europea si sono dotati di una politica comune in materia di prevenzione relativa ai grandi rischi industriali, con l’emanazione della “Direttiva Seveso 82/501/CEE”. Dal 13 agosto 2012 è in vigore la n. 197 Direttiva 2012/18/UE (la Seveso III) recepita dall’Italia, dopo tre anni, con il D.lgs. n°105 del 26 giugno 2015.
A quarant’anni esatti dall’incidente, l’articolato iter giudiziario non si è ancora del tutto concluso e nella zona di Seveso è oggi ancora percepibile la paura che per decenni ha dilagato tra la popolazione, in un territorio gravemente compromesso sotto il profilo ambientale.
Se inizialmente la fuga di diossina non provocò decessi tra la popolazione e i primi sintomi accusati dagli abitanti furono irritazioni agli occhi e alla pelle, in seguito venne riscontrata la comparsa di patologie dermatologiche, come la cloracne, di disturbi cardio vascolari, di sterilità nei soggetti maschili. Numerose neoplasie vennero inoltre diagnosticate a danno del tessuto linfatico ed emopoietico. L’insorgere di recenti e gravi patologie è tuttora riconducibile all’incidente del 10 luglio 1976, al giorno in cui Seveso e l’ICMESA divennero tristemente famosi.
Tania Marinoni (Arengario)
da InfoAut
Guarda “Seveso 10 luglio 1976 – disastro all’ICMESA”:
https://www.youtube.com/watch?v=zt0m3CH30Vs&feature=emb_title