La Corte, interpellata dal Tar della Sicilia su due provvedimenti adottati nei confronti di Sea Watch 3 e 4, sottolinea come i controlli sulle imbarcazioni devono essere giustificati da “indizi seri” e le azioni correttive “proporzionate e adeguate”. Paletti precisi che d’ora in poi dovranno guidare l’attività ispettiva delle Capitanerie di porto
di Luca Rondi
Le navi impegnate in operazioni di ricerca e soccorso nel mar Mediterraneo possono essere ispezionate solo in caso di “evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente” e comunque le “azioni correttive” che lo Stato di approdo può adottare devono essere “adeguate, necessarie e proporzionate”. Così la pronuncia del primo agosto della Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue) sgretola la legittimità dell’utilizzo strumentale dei fermi amministrativi per bloccare nei porti italiani le navi delle Ong. Nello specifico, il caso su cui è intervenuta la Corte riguarda una richiesta pregiudiziale rivolta dal Tar della Sicilia con riferimento ai provvedimenti disposti dalla Capitaneria di porto di Palermo e di Porto Empedocle nell’estate 2020 contro la Sea Watch 3 e 4. “Una sentenza che speriamo metta fine a un comportamento ostruzionistico e strumentale da parte delle autorità italiane”, spiega l’avvocata di Sea Watch Lucia Gennari.
Per capire l’importanza di questa pronuncia serve fare un passo indietro. Tra maggio 2020 e luglio 2021 le navi utilizzate dalle Ong cominciano ad essere sistematicamente sottoposte a cosiddetti Port State Control (Psc) nei porti italiani a seguito delle loro attività di salvataggio. È una nuova “strategia” da parte delle istituzioni italiane nell’ostacolare le attività delle navi umanitarie: gli “scarsi” risultati dei procedimenti penali e lo sciogliersi dell’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina porta a un cambio di registro. Il copione è quasi sempre lo stesso: ispezione da parte della capitaneria di porto, rilevazione di presunte irregolarità tecniche e operative, disposizione di un fermo amministrativo che “blocca” la nave per giorni o mesi. Provvedimenti che vengono notificati, tra marzo 2020 e luglio 2021 a quasi tutte le organizzazioni impegnate nell’attività di salvataggio: dall’Alan Kurdi (sottoposta a fermo il 5 maggio 2020), all’Aita Mari di Salvamento Marítimo Humanitario (6 maggio 2020), passando dalla Ocean Viking di SOS Méditerranée (22 luglio 2020) e la Open Arms (17 aprile 2021). L’obiettivo è quello di lasciare sempre “più spazio” ai libici, garantendo loro forniture milionarie a sostegno alle attività di “ricerca e soccorso” della cosiddetta Guardia costiera libica, allontanando occhi indiscreti da ciò che succede nel Mediterraneo centrale.
Le giustificazioni di tali fermi amministrativi sono spesso paradossali. Sea Watch 3 e 4, battenti bandiera tedesca, vengono fermate rispettivamente il 9 luglio e il 20 settembre 2020 e accusate di aver accolto a bordo un numero di persone maggiore rispetto a quanto previsto dalle certificazioni della nave oltreché di una serie di irregolarità tecniche e operative. Come se fosse possibile prevedere a tavolino il numero di persone che si incontrerà nell’attività di ricerca. Gli avvocati di Sea Watch Andrea Mozzati, Enrico Mordiglia, Giulia Crescini e Lucia Gennari presentano così al Tar Sicilia due istanze di sospensione del fermo: a questo punto il tribunale amministrativo, nel dicembre 2021 decide di presentare cinque questioni, in via pregiudiziali, alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Nel frattempo, nel marzo 2021, lo stesso Tar sospende la misura cautelare della Sea Watch 4 permettendo alla nave di tornare a operare nel Mediterraneo.
Con la sentenza del primo agosto la Corte ha fornito indicazioni chiare: l’osservanza delle regole che riguardano la sicurezza marittima a tutela della condizione di vita e di lavoro a bordo vengono dopo il rispetto della Convenzione sul diritto del mare e sulla salvaguardia della vita umana in mare. “La prima sancisce, in particolare, l’obbligo fondamentale di prestare soccorso alle persone in pericolo o in difficoltà in mare -scrivono i giudici-. La seconda dispone che le persone che si trovano, a seguito di un’operazione di soccorso in mare, a bordo di una nave, compresa una nave gestita da un’organizzazione umanitaria quale la Sea Watch, non devono essere computate in sede di verifica del rispetto delle norme di sicurezza in mare. Il numero di persone a bordo, anche ampiamente superiore a quello autorizzato, non può dunque costituire, di per sé solo, una ragione che giustifichi un controllo”. Un’ispezione che può essere svolta solamente nel caso in cui sia dimostrato “in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente”. “Se non esistono questi gravi pregiudizi la Corte sottolinea che il fermo si traduce in un ostacolo all’adempimento dell’obbligo di soccorso in mare”, spiega Gennari. In altri termini: la salvaguardia della vita umana vale più dei “precetti” amministrativi.
Ma i giudici europei hanno chiarito un altro punto importante. “Lo stato di approdo non può contestare la mancanza di certificazioni per l’esercizio di attività di ricerca e soccorso -continua Gennari, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Da un lato perché questa richiesta non è fondata su norme del diritto europeo e dall’altro perché significa mettere in discussione l’operato dello Stato di bandiera: una procedura che si può fare, eccezionalmente, ma secondo procedure che l’Italia non ha mai rispettato”. Nel caso della Sea Watch 4, infatti, le autorità tedesche, lo Stato di bandiera della nave, in seguito al fermo del Tar avevano dato l’assenso alla prosecuzione delle attività in mare perché non avevano riscontrato irregolarità nelle certificazioni. Ma l’Italia aveva ignorato queste considerazioni. La Corte sottolinea quindi come “l’ultima parola” non spetta allo Stato di approdo ma a quello di bandiera dell’imbarcazione.
Ora la palla passa al Tar della Sicilia che dovrà pronunciarsi sulla legittimità del fermo tenendo in considerazione la pronuncia della Corte. “Vedremo cosa deciderà il giudice -conclude Gennari-. Sicuramente i paletti messi dalla Corte entro cui può svolgersi l’attività di ricerca e soccorso di ispezione e la disposizione di un fermo sono molto chiari”. La Sea Watch, intanto, festeggia la decisione “La sentenza fornisce una base legale alle Ong e rappresenta una vittoria per il soccorso in mare -si legge sul profilo Twitter dell’Ong-. Le navi potranno continuare a fare ciò che sanno e che devono fare: soccorrere le persone e non rimanere bloccate in porto per decisioni arbitrarie e pretestuose”.
da altreconomia