La guida della Coordinadora Arauco Malleco accusata di furto di legname e violazione della sicurezza dello Stato. Tra i popoli originari monta la delusione per il governo: dalla sinistra al potere nessuna soluzione sulle terre usurpate
di Claudia Fanti
Non è stato un fulmine a ciel sereno l’arresto, mercoledì scorso, di Héctor Llaitul, il carismatico leader della Coordinadora Arauco Malleco (Cam), tra le forze autonomiste mapuche più impegnate nel recupero delle terre usurpate e nei sabotaggi contro il latifondo e le imprese forestali presenti nel Wallmapu (come è chiamato il territorio mapuche in lingua mapudungún).
Accusato di furto di legname e di violazione della sicurezza dello stato, il portavoce della Cam – a cui lo stato cileno è stato condannato a versare un indennizzo pari a 15.000 euro per le torture sofferte durante la dittatura – aveva già incendiato il dibattito politico con il suo invito a «organizzare la resistenza armata» in difesa del territorio, indicando la necessità di «canalizzare la violenza verso il sabotaggio», mai verso atti di terrorismo, rispettando sempre «la vita dei lavoratori».
SALUTATO con grande soddisfazione dalle forze eredi della vecchia Concertación di centro-sinistra, l’arresto di Llaitul è destinato però a gettare benzina sul fuoco di un conflitto, quello tra stato, comunità mapuche e imprese forestali, che si è fortemente inasprito negli ultimi anni e a cui il governo Boric si è rivelato finora del tutto incapace di dare una risposta che non sia quella militare.
Con l’approvazione da parte del Congresso, lo scorso 17 agosto, della sesta proroga dello stato di eccezione nell’Araucanía, la militarizzazione nell’area ha già superato i 100 giorni e tutto indica che si prolungherà indefinitamente. E se la ministra dell’Interno Izkia Siches continua a ripetere che non si tratta di «una soluzione di fondo» e che «le soluzioni di fondo dobbiamo costruirle», le richieste del popolo mapuche continuano tuttavia a essere ignorate.
Del resto, per quanto all’interno del mondo mapuche – 1milione e 800mila persone pari a poco meno del 10% della popolazione -, le posizioni differiscano in maniera profonda, su un punto il consenso è abbastanza diffuso: che, cioè, l’attuale governo, al pari di quelli che lo hanno preceduto, non sta affrontando il nodo della questione, cioè la restituzione della terra usurpata durante il processo di occupazione del Wallmapu da parte dello stato (eufemisticamente detta “pacificazione dell’Araucanía”), l’autodeterminazione, l’espulsione delle imprese forestali.
A COMINCIARE da quella più grande di tutte, l’Arauco controllata dal gruppo Angelini-Matte, che da sola possiede 1.117.788 ettari di terra. Eppure i dati forniti dalla rete Environmental Paper Network basterebbero da soli a far scattare l’allarme: tra il 1975 e il 2007 le monocolture forestali sarebbero aumentate di dieci volte, occupando quasi la metà (il 43%) del paesaggio del centro-sud cileno, a scapito dei boschi naturali.
In questo quadro, è difficile che la «delusione tremenda» nei confronti di Boric di cui parla ad esempio Miguel Melín, rappresentante della Alianza Territorial Mapuche, non finirà per condizionare la partecipazione indigena al plebiscito del 4 settembre.
Tanto più che anche sul fronte del riconoscimento della plurinazionalità, uno degli aspetti più innovativi del testo della nuova Costituzione, si registrano preoccupanti passi indietro. Perché, tra le modifiche che le forze di governo, in caso di vittoria del Sì, si sono impegnate a realizzare per convincere gli indecisi a optare per l’Apruevo, vi sono proprio quelle che interessano più da vicino i popoli indigeni.
Così, il documento diffuso l’11 agosto dai partiti che sostengono Boric assicura, tra l’altro, che le attribuzioni delle autonomie territoriali saranno coerenti «con il carattere unico e indivisibile del territorio cileno, che il ricorso alla consultazione indigena potrà valere solo per le materie che riguarderanno direttamente i popoli originari e che la giustizia indigena sarà sempre subordinata alla giustizia ordinaria.
NON CERTO una buona notizia per un popolo mapuche già molto tiepido, perlomeno in una sua parte consistente, nei confronti di tutto il processo costituente, malgrado la presenza di suoi – e soprattutto sue – rappresentanti di spicco all’interno della Convenzione, e per di più in ruoli chiave (l’attivista mapuche Elisa Loncon ne ha ricoperto la presidenza per i primi sei mesi).
Non a caso, le elezioni per i 17 seggi riservati ai popoli indigeni nella Convenzione costituzionale avevano già evidenziato la loro diffidenza nei confronti delle istituzioni: era stato infatti meno del 23% degli iscritti al registro elettorale indigeno a recarsi alle urne.
Una bassa affluenza dovuta in parte all’assenza di informazioni e al difficoltoso processo di votazione, ma riconducibile anche alla forza del movimento più radicale di lotta per l’autodeterminazione, con il suo esplicito rifiuto del processo costituente in quanto tale.
Un rifiuto che la stessa Cam ha ribadito di nuovo all’inizio di agosto: «non è nostra responsabilità – ha dichiarato – invitare a votare per il sì o per il no, in quanto non abbiamo mai preso parte a questo processo. Semplicemente perché non è nostro, non rientra nella nostra cultura né nei nostri principi». Né la Cam è l’unica forza a ritenere la plurinazionalità una misura senza alcuna reale «prospettiva di trasformazione» e a puntare, al contrario, sul «recupero territoriale e la ricostruzione culturale».
UNA «VISIONE molto diversa» rispetto a quella riflessa dalla nuova Costituzione viene rivendicata anche dal leader dell’Alianza Territorial Mapuche Alberto Curamil, Premio Goldman per l’ambiente 2019 per il suo impegno nella protezione del fiume Cautín minacciato da progetti di sviluppo idroelettrico (il prestigioso premio, noto come Nobel dell’ambiente, gli venne conferito durante uno dei suoi diversi arresti, per l’accusa, da cui poi venne assolto, di aver partecipato a un assalto nel comune di Galvarino).
Pur riconoscendo le «ottime intenzioni» delle proposte contenute nel testo della nuova Costituzione, e auspicando che, malgrado i loro limiti, possano comunque facilitare il processo di recupero delle terre e il controllo del territorio, Curamil ritiene che non sia lì che si possa cercare il riscatto del popolo mapuche: l’importante, dice, è «la rieducazione della nostra generazione all’interno delle comunità». Al plebiscito, tuttavia, andrà comunque a votare e voterà sì, «in onore» di tutti coloro che hanno lottato nelle strade e sono stati arrestati, torturati e mutilati.
da il manifesto