Semplificare il discorso che esprimono nefasti sistemi articolati e complessi – nei loro versanti sociali, politici, simbolici, mediatici, ecc. – riducendolo alla manifestazione di sentimenti di odio – pratica che da tempo va per la maggiore in Italia e in Europa – non è soltanto fuorviante, danneggia in profondità le lotte e la costruzione di politiche antirazziste.
di Annamaria Rivera
I lessici deformanti, le retoriche e le rappresentazioni negative delle altre e degli altri o la propensione a mascherare dietro eufemismi provvedimenti e istituzioni di stampo razzista e anticostituzionale sono, al tempo stesso, una delle cause e uno degli effetti di quel sistema complesso e multidimensionale che chiamiamo razzismo: un sistema, spesso subdolo, di disuguaglianze giuridiche, economiche, sociali e di status; un sistema di solito caratterizzato da forti scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti.
Dunque, per contrastare il razzismo è utile, sebbene non sufficiente, decostruire e smascherare le parole e le retoriche di cui esso si serve o che inventa, avalla o afferma come se fossero verità indiscutibili. Anche se da sola è insufficiente, l’opera di ecologia delle parole rappresenta uno dei mezzi per cercare di decomporre quella che Etiennne Balibar definì la comunità razzista, o almeno per intaccarne la compattezza e provare così a metterla in crisi.
Ciò detto, io trovo molto problematica la locuzione hate speech (“discorso d’odio”), divenuta ufficiale a livello internazionale. Non per caso essa fu coniata negli Stati Uniti da un gruppo di studiosi di diritto alla fine degli anni ’80, in un paese in cui il termine “razza” è usato abitualmente, come se fosse neutro. La credenza secondo cui tutti gli insulti, le affermazioni, le locuzioni offensive e discriminatorie siano espressione di odio è alquanto infondata, a mio parere.
Anche se allargassimo il significato di “odio”, intendendolo come ostilità, avversione, rigetto, antipatia, inimicizia verso taluni individui e gruppi, non riusciremmo a comprendere l’intera gamma di motivazioni che ispirano parole, locuzioni, discorsi razzistici e discriminatori, anche quelli sessisti e omofobici. Se proprio volessimo attribuire alla sfera dei sentimenti e delle emozioni i moventi del comune parlare razzista, saremmo costretti a constatare che spesso a prevalere sono il disprezzo, la noncuranza, la derisione, il dileggio.
Non per caso, in Italia, tra i primi lemmi coniati per nominare in blocco persone immigrate e rifugiate vi è stata l’espressione napoletana vu’ cumprà («vuoi comprare?»): ritenuta la frase tipica con cui il tipico venditore itinerante straniero si rivolgerebbe ai passanti e basata sulla generalizzazione arbitraria secondo cui tutti i migranti sarebbero al massimo dei miserabili ambulanti. Del resto, le rappresentazioni veicolate dai mezzi di informazione e talvolta dalle stesse istituzioni per lo più tendono a occultare o a minimizzare l’effettivo ruolo produttivo svolto dai lavoratori/trici immigrati/e e quindi il loro contributo all’economia dei vari Paesi europei.
Inoltre, non credo affatto che quei politici e rappresentanti d’istituzioni, che sono soliti pronunciare le peggiori offese e oscenità razzistiche (gli imprenditori politici del razzismo, come ebbi modo di definirli in passato) siano mossi da qualche passione o sentimento. Se mai dall’ideologia e da una ben precisa strategia: volta ad ottenere consenso, deviando verso capri espiatori il rancore popolare, perlopiù dovuto alle condizioni economico-sociali vissute.
Vi è un altro paradosso che connota l’hate speech. In alcuni Paesi europei, fra cui l’Austria e la Spagna, tra i moventi è nominata insistentemente la “razza”. La stessa cosa accade per organismi internazionali quali CERD e CEDU, cioè, rispettivamente il Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale (dell’Onu) e la Convenzione europea dei Diritti dell’uomo.
Eppure è dai primi anni ’40 del Novecento che biologi, genetisti, soprattutto antropologi culturali quali Franz Boas, Fernando Ortiz, Ashley Montagu iniziarono a dimostrare la totale infondatezza scientifica della “razza”. Dunque, si potrebbe dire paradossalmente che chi continua oggi a perpetuarne il mito è egli stesso razzista, quantunque si occupi di hate speech.
Lo stesso si può dire a proposito delle espressioni “di colore” o “in base al colore”, come se esso fosse una realtà invece che una percezione storicamente e culturalmente determinata. In realtà, è il discorso dominante a decidere chi sia nero, chi bianco, chi di “razza ebraica”, chi di un’altra “razza”. Negli Stati Uniti è classificato/a come nero/a chi abbia anche solo un ottavo di “sangue nero”, pur se il suo aspetto è decisamente “bianco”. Per dirne un’altra, il Sudafrica dell’apartheid inventò la categoria dei bianchi onorari (i giapponesi, in particolare), tali per condizione di classe elevata.
D’altronde, chiunque può essere razzizzato: in Italia, per un buon numero di anni, e tutt’oggi in Grecia, le principali vittime di razzismo sono stati gli albanesi, poi anche i romeni. Di questi ultimi, nel 2006, il giornalista di un quotidiano di destra osò scrivere: «È considerata la razza più violenta, pericolosa, prepotente, capace di uccidere per una manciata di spiccioli, che da anni terrorizza il nostro paese. Eppure questa razza si appresta addirittura a entrare nell’Unione europea». (Augusto Parboni, Un’etnia sempre in “cronaca nera”. Hanno il monopolio criminale di clonazioni e prostituzione, «Il Tempo», 3 ottobre 2006).
Più tardi, il 10 aprile 2017, sarà Luigi Di Maio, leader del M5s, più volte ministro, a postare su Facebook un’asserzione analoga: «L’Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali». E’ ugualmente sua la definizione delle navi delle Ong, impegnate nella ricerca e nel soccorso in mare, quali «taxi del Mediterraneo», frase corredata dal classico «Chi li paga? E perché lo fa?», postata undici giorni dopo.
Da non pochi anni, in Italia come in altri Paesi europei, va affermandosi un razzismo istituzionale tanto estremo e incalzante da alimentare, per il tramite decisivo dei mezzi di comunicazione di massa e dei social network, forme assai diffuse di xenofobia popolare. Corollario e nel contempo agente di questo processo è il progressivo scadimento del linguaggio pubblico, che ormai sembra sottratto a ogni freno inibitorio.
La caduta dell’interdetto fa sì che pochi si scandalizzarono quando Beppe Grillo pubblicò nel suo blog, nel 2006, una lunga citazione dal Mein Kampf di Hitler contro «i giullari del parlamentarismo». E quando Matteo Salvini, leader della Lega Nord, nel 2008 osò affermare in pubblico che i topi «sono più facili da debellare degli zingari, perché sono più piccoli», echeggiando, forse inconsapevolmente, una delle metafore zoologiche tipiche dell’antisemitismo più classico. Il che non gli ha impedito di diventare, dieci anni dopo, ministro dell’Interno.
Ma è anche lo stesso lessico normativo e burocratico che talvolta nomina i/le migranti con appellativi stigmatizzanti e inferiorizzanti: “clandestini”, “extracomunitari”, “badanti”… In particolare, la parola clandestino ha svolto un certo ruolo nel rafforzamento dell’asse, repressivo e discriminatorio, delle politiche dell’immigrazione in Italia: l’unico Paese europeo nel quale chi non è in regola rispetto al titolo di soggiorno viene definito in modo spregiativo: altrove si dice, in maniera più o meno neutra, sans papiers, indocumentados e simili. Queste politiche, a loro volta, hanno finito per avallare la retorica che ruota intorno all’equazione che assimila l’immigrato al “clandestino”, ergo al criminale.
Un’altra tendenza è quella di ricorrere al lemma etnia (in realtà, un sinonimo eufemistico di razza) per definire la provenienza di persone immigrate, invece che usare il criterio neutro, o almeno simmetrico, della nazionalità. E ciò con esiti grotteschi: sulla migliore stampa italiana, recentemente perfino sul manifesto, quotidiano di sinistra, ci è capitato di leggere individui di etnia latino-americana o addirittura di etnia cinese (mentre mai abbiamo letto di etnia europea o di etnia nordamericana).
Vi è anche un gergo del senso comune razzista, in apparenza innocente, che usa vocaboli connotati ideologicamente come se fossero neutri. Si pensi al neologismo buonismo (e buonista; angéliste, in francese), con il quale si è soliti stigmatizzare le politiche egualitarie e inclusive, gli atti e i discorsi solidali nei confronti delle persone migranti e rifugiate, e delle minoranze. È un lemma che appartiene alla medesima famiglia semantica di pietista, usato in Italia durante il fascismo come un’accusa contro quegli italiani che, dopo l’approvazione delle leggi antiebraiche, cercarono di difendere, proteggere, soccorrere i loro concittadini ebrei.
E a proposito e per concludere. Si pensi ai sovranismi che attraversano gran parte dei paesi europei, al riemergere in forme esplicite dell’antisemitismo insieme con l’anti-islamismo: verbali e perfino fattuali (dai ricorrenti affaires del velo in Francia agli attentati a sinagoghe e moschee). Tutto ciò rende ancor più necessaria l’opera di “ecologia delle parole”, purché condotta nel contesto di una diffusa attivazione della società civile.
da Comune-Info