Law and order del governo Meloni. Il pugno di ferro sui nostri denti
- novembre 03, 2022
- in misure repressive, riflessioni
- Edit
In nome della legalità e del decoro urbano, ci è arrivato un bel pugno di ferro tra i denti. E arriva anche sui denti di chi sorride al “ritorno dell’ordine e della disciplina”. Il nuovo Governo esordisce con un decreto legge che introduce il reato di invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno. È – si dice – una norma anti rave. In realtà è un pesante attacco ai diritti di riunione e di manifestazione di tutti e un’anticipazione delle politiche della destra in relazione al conflitto sociale.
di Livio Pepino
Dopo tante parole i fatti e, con essi, il volto e gli obiettivi della destra al governo. Il primo provvedimento varato dal Governo Meloni, annunciato con squilli di tromba in conferenza stampa dalla presidente del Consiglio e dal ministro dell’interno, è l’aumento del catalogo dei reati (come non ce ne fossero già abbastanza nel nostro sistema) con l’introduzione, contenuta nel nuovo art. 434 bis codice penale, del delitto di «invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» (per i cui organizzatori e promotori è prevista la pena della reclusione da tre a sei anni e della multa da 1.000 a 10.000 euro e l’applicazione di misure di prevenzione). La norma, stante la concomitanza di un rave party organizzato per Halloween nei pressi di Modena, è stata definita (e archiviata) come intervento anti rave ma è, in realtà, tutt’altro: una provocazione istituzionale, un mostro giuridico e, soprattutto, un segnale politico.
Cominciamo dalla provocazione istituzionale (a fronte della quale, ancora una volta, il presidente della Repubblica sembra aver scelto, impropriamente, il silenzio). Il nuovo reato è stato introdotto con un decreto legge, cioè con lo strumento che l’art. 77 Costituzione riserva ai «casi straordinari di necessità e di urgenza» e, nella conferenza stampa di presentazione, il ministro proponente ha espressamente richiamato, come giustificazione, il rave in corso a Modena. Orbene, se una certezza c’è, essa riguarda proprio l’assenza di qualsivoglia straordinarietà della situazione e la mancanza di ogni urgenza di provvedere: l’ultimo rave abusivo di una qualche consistenza prima di quello in corso risale a oltre un anno fa (Viterbo, agosto 2021) e a Modena quello in atto è rientrato grazie a una saggia e duttile trattativa condotta dall’autorità di polizia senza bisogno di strumenti straordinari, di codici e di pandette. Il ricorso al decreto legge è, dunque, una pura esibizione di forza e di prepotenza istituzionale. Un modo per dire che i vincoli costituzionali non valgono per questa maggioranza: cosa particolarmente grave (anche se sul punto nessuna maggioranza politica degli ultimi decenni ha la coscienza a posto) proprio perché si tratta del suo primo atto, quasi di una indicazione di metodo.
Ancor più grave il merito. Anche a voler enfatizzare l’efficacia di strumenti normativi ad hoc, infatti, è agevole rilevare come una norma che punisce i comportamenti richiamati nel nuovo art. 434 bis già esisteva (ed esiste) nel nostro sistema: è l’art. 633 codice penale che prevede come reato l’«invasione arbitraria di terreni o edifici altrui al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto» considerandola, se commessa da più di cinque persone, perseguibile di ufficio e punibile con una pena da due a quattro anni di reclusione (ulteriormente aumentata per promotori e organizzatori). Perché, dunque, prevedere una nuova fattispecie di reato? Due, a ben guardare, le ragioni. La prima è lo spostamento dell’attenzione normativa dalla “invasione” al “raduno”. Nel nuovo reato l’occupazione di un terreno o di un edificio passa, infatti, in secondo piano e rileva solo come presupposto di un raduno, cioè – per usare le parole del dizionario Treccani – del «radunarsi di molte persone in un luogo al fine di partecipare a una pubblica manifestazione di carattere vario, a festeggiamenti, a competizioni sportive eccetera», ove ne «possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica». In altri termini l’oggetto del divieto e della sanzione previsti nella norma diventa la riunione (o la manifestazione) che, per definizione, si svolge nello spazio (e, dunque, su un terreno o in un edificio) e che sempre, in astratto, può essere fonte di un generico pericolo (anche solo per la calca). La seconda ragione della creazione della nuova fattispecie è un ulteriore aumento delle pene per l’invasione di terreni, aumento che fa seguito a quello realizzato, con riferimento all’art. 633 codice penale, dal decreto legge n. 213/2018 (primo decreto Salvini) e che rende possibili, insieme all’arresto in flagranza degli indagati, anche lo loro sottoposizione a intercettazioni ambientali e telefoniche.
I fatti non lasciano dubbi: i rave sono, a tutto concedere, sullo sfondo e ben altra è la portata dell’intervento normativo. Il nuovo reato e le nuove pene riguardano marginalmente i frequentatori dei rave (anche se non sarebbe il primo caso in cui la sperimentazione di un surplus di repressione avviene nei confronti di categorie poco amate dall’opinione pubblica: basti pensare alla vicenda del DASPO per gli hooligans del calcio) ed hanno piuttosto come obiettivo le libertà di riunione e di manifestazione di tutti. Ed è superfluo dire che, quando si parla di queste libertà, il pensiero corre alle diverse espressioni del conflitto sociale, alle manifestazioni studentesche significativamente represse in modo brutale alla Sapienza di Roma mentre era in corso il dibattito sulla fiducia al nuovo governo, alle proteste contro grandi opere e disastri ambientali e via seguitando. Non solo. Questo intervento prosegue e completa quello realizzato con il decreto legge n. 53/2019 (secondo decreto Salvini) con cui le pene per reati come l’oltraggio, la resistenza a pubblico ufficiale, l’interruzione di pubblico servizio e il danneggiamento vennero significativamente aumentate in caso di commissione «nel corso di manifestazioni» (in controtendenza persino con le previsioni del codice Rocco, emblema del fascismo, che, nell’art. 62, n. 3, prevedeva – e prevede – come attenuante il fatto di «aver agito per suggestione di una folla in tumulto»).
La conclusione è evidente. Non siamo in presenza di una previsione marginale e di scarsa applicazione, destinata a garantire il rispetto della legalità in situazioni estreme, ma del biglietto da visita della nuova maggioranza e delle sue politiche. Un biglietto da visita inquietante che prefigura le modalità di gestione del conflitto sociale che si profila, originato dalla impossibilità di questa maggioranza – per vincoli europei e per il suo essere espressione del padronato di incidere sul quadro economico del Paese: modalità di gestione muscolari e di pura contrapposizione per cui è necessario, anche, dotarsi di nuovi strumenti. Un biglietto da visita ulteriormente inquietante perché segnato dal persistere del modello di diritto penale differenziato che ha costituito il DNA del berlusconismo, con la compresenza di un codice “dei briganti” e di un codice “dei galantuomini”: il primo incidente sulla vita e sulla libertà dei destinatari, il secondo diretto a scandire il tempo che separa i fatti dalla prescrizione.
A fronte di ciò le opposizioni (politiche e mediatiche) balbettano proteste di circostanza omettendo ogni analisi autocritica dei precedenti che questa deriva hanno preparato e favorito. Se anche cambieranno registro (cosa in verità assai improbabile) sarà sempre tardi.
*****************
Stato di polizia. Il 434-bis: dalle feste al dissenso
Il decreto anti-rave si spinge ben oltre la criminalizzazione delle feste tekno, attacca la libertà di manifestare, i comportamenti giovanili e le forme di protesta e autorganizzazione. L’analisi completa della nuova fattispecie di reato introdotta dal governo
di
Basta un rave-party per consentire al governo Meloni di introdurre, nelle successive 48 ore, una nuova fattispecie di reato applicabile non solo alle feste tekno ma, più in generale, a chiunque ponga in essere mobilitazioni e proteste.
Stiamo parlando del nuovissimo art. 434 bis del codice penale, rubricato “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.
In particolare la norma prevede che l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui (pubblici o privati), commessa da un numero superiore a 50 persone allo scopo di “organizzare un raduno”, sia punita con la reclusione da 3 a 6 anni e con la multa da 1.000 a 10.000 euro (pena diminuita per i partecipanti), se vi possono essere dei pericoli l’ordine pubblico; l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
Di seguito, alcune considerazione.
La norma è collocata nel codice penale all’interno del titolo dedicato ai “Reati contro l’incolumità pubblica”, in particolare nel capo “Dei delitti di comune pericolo mediante violenza”. Il nuovo reato si trova, dunque, accanto a quello di Strage (art. 422 c.p.) o Disastro ferroviario (art. 430 c.p.). In comune con questi, come ci ricorda il “nome di famiglia”, dovrebbe avere il fatto di essere un reato di “pericolo”. Cioè, per essere puniti non è necessario che la condotta abbia comportato una lesione reale del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice ma è sufficiente che questo venga messo a rischio dalla condotta dell’agente, con buona pace del principio di offensività.
Nel caso del nuovo art. 434 bis, la norma dice che si è puniti se dal raduno “può derivare” (non “derivi”) un pericolo per l’ordine pubblico; l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Questi ultimi abbiano i “beni” protetti dalla norma. Concetti che, come ben sappiamo, si prestano a interpretazioni discrezionali ed arbitrarie.
Posto che risulta vergognosa la criminalizzazione di un fenomeno culturale come i rave-party (ridotto a “raduni di sballati”), da più parti è stato giustamente evidenziato come il nuovo reato si presti ad applicazioni in ben altri campi. In particolare il rischio potrebbe essere quello di un suo uso per l’ulteriore criminalizzazione del dissenso.
L’esempio dell’occupazione di scuole ed università appare, a riguardo, emblematico.
Infatti, fino a oggi, chi occupava una scuola o un’università rischiava di poter incorrere nel reato di occupazione di edifici (ex art. 633 c.p.), fattispecie a tutela della proprietà. Tuttavia la giurisprudenza quando si è trovata a decidere su tali casi ha spesso non condannato gli studenti e studentesse imputati di tale reato, evidenziando la totale carenza dell’elemento dell’ “altruità”. Anche qui, per capirci, se l’art. 633 è posto a tutela dell’altrui proprietà, è evidente – ci dice la Cassazione – come questo non possa essere applicato in caso di occupazione di scuole e università. Queste ultime non sono “estranee” agli studenti e studentesse, che rappresentano i “soggetti attivi” delle comunità scolastiche ed universitarie (si veda, ad esempio, la sentenza della Cassazione n.1044/2000).
Senonché, con il nuovo reato, fresco fresco di approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, è evidente che le occupazioni di scuole e università potranno essere punite, addirittura con pene ben più severe (fino a 6 anni di reclusione) di quelle draconiane già previste – soprattutto dopo il decreto sicurezza Salvini Salvini – dall’art.633 c.p.
Infatti, il bene tutelato dalla nuova norma non è più la proprietà altrui ma la tutela dell’ordine pubblico. Il fatto che gli studenti e studentesse siano parte della comunità scolastica e universitaria potrebbe, così, passare in secondo piano e portare a numerose sentenze di condanna di migliaia di ragazzi e ragazze, rei di aver posto in campo delle proteste negli spazi che quotidianamente vivono.
È passata in sordina, ma l’art. 5 del decreto legge appena approvato dal Consiglio dei ministri, oltre a introdurre il nuovo art. 434 bis del codice penale, apporta delle modifiche anche al d.lgs. n.159/2011, ossia alla normativa che disciplina le misure di prevenzione. Queste ultime sono delle misure limitative della libertà personale che si applicano “prima” della commissione dei reati, sulla base di fumosi presupposti di “pericolosità”.
Nel nostro Paese, le misure di prevenzione personali sono spesso utilizzate nei confronti di persone “sospettate” di reati, prima che siano condannate e anche in caso di assoluzione, non a caso vengono spesso definite “pene basate sul sospetto”. Inoltre le misure di prevenzione disposte dal questore (foglio di via, obbligo di dimora) e dal tribunale (sorveglianza speciale) si sono rivelate degli ottimi alleati nei processi di securizzazione,, colpendo ampiamente i movimenti sociali. Giusto per fare qualche esempio, possiamo ricordare il gran numero di fogli di via a cui sono stati sottoposti, recentemente, i ragazzi e le ragazze di Extinction Rebellion Torino, per essersi incatenati all’interno dell’edificio della Regione Piemonte.
Il decreto legge appena approvato dal governo Meloni introduce la possibilità di applicare la “sorveglianza speciale”, ossia la più gravosa delle misure di prevenzione, nei confronti dei “soggetti indiziati” del nuovo reato di cui all’art. 434 bis del codice penale. Forse questo rende ancor più palese come la previsione di questa fattispecie incriminatrice voglia, in realtà, colpire proprio gli esponenti dei movimenti sociali, con una misura di prevenzione che potrà essere comunque applicata (al di là dell’effettiva condanna) e che comporta importanti limitazioni alla libertà personale, compresa l’impossibilità di partecipare a future manifestazioni.
Il nuovo art.434 bis del codice penale si presta, dunque, a queste pericolosissime derive e ben si colloca nel solco di quei provvedimenti tesi a reprimere ogni forma di dissenso.
Solo stando alle norme approvate negli ultimi decreti sicurezza possiamo ricordare:
- La flagranza differita, mutuata da quel laboratorio di repressione che sono gli stadi (dove è presente dal lontano 2003) e introdotta per le manifestazioni di piazza dal buon Minniti (d.l. n.14/2017);
- La reintroduzione, da parte del decreto sicurezza di Salvini (d.l. n.113/2018), del reato di blocco stradale di scelbiana memoria, punito con pene fino a 12 anni, con il chiaro intendo di criminalizzare una forma tradizionale con cui si manifesta il dissenso sociale ossia il c.d. “picchettaggio stradale”. Decreto Salvini che, non a caso, interviene, rispetto a ciò, anche sul TU dell’immigrazione introduce il nuovo delitto di blocco stradale nel catalogo dei reati ostativi alla cui condanna definitiva consegue la mancata concessione allo straniero del visto di ingresso in Italia. Una norma quest’ultima che sembra chiaramente indirizzata a depotenziare le proteste che, in questi anni, i migranti hanno saputo mettere in campo per rivendicare dignità e diritti;
- L’irrigidimento delle pene per il reato di occupazione (art. 633 c.p.) sempre da parte del decreto sicurezza di Salvini, con la previsione della reclusione fino a 4 anni per i responsabili (aumentate di 1/3 per gli organizzatori) e la possibilità di utilizzo delle intercettazioni telefoniche;
- Le numerose disposizioni volte alla criminalizzazione del dissenso previste nel decreto sicurezza bis di Salvini (d.l. n.53/2019), che è riuscito a introdurre come circostanza aggravante di molti reati (resistenza a pubblico ufficiale ma anche interruzione di pubblico servizio) il fatto che le condotte siano poste in essere in occasione di manifestazioni in luogo pubblico e che ha, addirittura, introdotto una nuova, paradossale, ipotesi di “danneggiamento” in base alla quale «chiunque distrugga, disperda, deteriori o renda, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui» in occasione di manifestazioni è punito con la reclusione da uno a cinque anni (nuovo art. 635 c.p.).
Inoltre, sempre il decreto sicurezza bis di Salvini aveva escluso la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” per i delitti di violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art.336 c.p.); resistenza a pubblico ufficiale (art.337 c.p.) e di oltraggio a pubblico ufficiale (art.341 bis c.p.). Com’è noto, sul punto, si era pronunciato lo stesso Presidente della Repubblica che aveva censurato tale norma, evidenziando come non sembrava una scelta ragionevole impedire al giudice di valutare, in tali casi, la concreta offensività della condotta, perseguendo in maniera troppo rigorosa fattispecie non capaci di generare “allarme sociale”. Nonostante ciò questa disposizione è rimasta viva e vegeta nel nostro ordinamento, non intaccata dal decreto Lamorgese (d.l. n.130/2020), quello –per capirci – che avrebbe dovuto “spazzare via i decreti di Salvini”.
Non c’è da stupirsi. La peggiore destra ha rivelato fin da subito il suo brutale volto ma è, in realtà, da anni che il diritto penale è utilizzato, da destra e da sinistra, in maniera emotiva e simbolica.
Infatti, come nota Livio Pepino, le leggi penali hanno una rilevante funzione simbolica, tracciando la linea di confine tra ciò che è bene e ciò che è male; ciò che è socialmente accettabile e cosa, al contrario, deve essere oggetto di riprovazione. Non a caso, negli ultimi anni i processi di criminalizzazione hanno riguardato, oltre ai migranti, i poveri (dal Daspo urbano al reato di accattonaggio) e gli attivisti. I primi destinatari di provvedimenti che vorrebbe vederli espulsi dalle nostre città in nome del “decoro”. I secondi colpiti da un arsenale repressivo con l’evidente fine di silenziare e depotenziare le battaglie sociali.
Dal governo Meloni non possiamo che aspettarci un potenziamento di questa deriva, come già questi primi provvedimenti evidenziano. La palla, dunque, passa a noi, nella consapevolezza che – come lucidamente evidenzia Ferrajoli – «un diritto non difeso è destinato a deperire e, alla fine, a soccombere»..
Se il nuovo art.434 bis del c.p. si rivelerà la porta di accesso per una incisiva limitazione della libertà di manifestare, bisogna rispondere con una lotta non solo di resistenza ma di attacco. Una lotta che ci veda capaci di sfidare i divieti, riempire le piazze, continuare a presidiare i luoghi che quotidianamente viviamo, come il movimento per la giustizia climatica, quello femminista e studentesco ci hanno insegnato.
da DINAMOpress
*****************
La mano illiberale che ha scritto il decreto contro le feste popolari autogestite
E se chiamiamo i “rave party” “feste popolari autogestite e gratuite” o “moderni riti collettivi”, come molti etnografi consigliano? Ecco che lo scenario cambia e l’idea di intervenire sul codice penale per impedirli appare sotto altra luce. Quella di chi non sopporta le libere scelte altrui.
di Lorenzo Guadagnucci
Le parole -specie se poco conosciute- a volte confondono le idee. Dici “rave party” e pensi a droghe e overdose, a sbandati di ogni tipo, a pericoli e violenze, a losche trame di misteriosi organizzatori, e così una legge che li criminalizza pare quanto meno ragionevole, se non addirittura necessaria. Se però chiamiamo quegli stessi eventi “feste popolari autogestite e gratuite” o “moderni riti collettivi”, come molti etnografi consigliano, ecco che lo scenario cambia e l’idea di intervenire sul codice penale per impedire tali feste appare sotto un’altra luce.
I giuristi stanno mettendo a fuoco le molte pecche del decreto legge appena approvato dal Governo Meloni: una definizione a dir poco approssimativa (si puntano i famigerati e misteriosi “rave party” ma senza nominarli), tanto da far venire il dubbio che la norma possa essere usata anche per manifestazioni politiche, sindacali e studentesche; un’entità della pena massima (sei anni) che pare sproporzionata, a meno che non sia un espediente -fatto ancora più grave- per ammettere l’uso delle intercettazioni telefoniche (e via chat) durante le indagini, possibili per reati punibili con cinque e più anni di detenzione; l’uso a prima vista inopportuno dello strumento del decreto legge; un impianto normativo che sembra confliggere con l’articolo 17 della Costituzione, pensato e scritto con spirito di grande liberalità, visto che il “diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi” può essere limitato solo “per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica”.
Ma c’è un altro punto da considerare, prima ancora di ogni valutazione tecnica, ed è proprio lo statuto di tutte quelle forme di espressione pubblica, di libertà vissuta collettivamente, di manifestazione del proprio essere e del proprio pensiero che escono dai canoni prevalenti nella società. I “rave party”, o “feste popolari autogestite e gratuite”, possono anche non piacere per la loro carica trasgressiva; si possono biasimare la musica, le danze, gli accampamenti, il consumo di alcol e stupefacenti; si può pensare che siano feste inutili e sbagliate, ma perché criminalizzarle? Perché introdurre nel codice penale un divieto ad hoc, preventivo e generale, nonostante esistano già norme adeguate a punire i reati eventualmente commessi di volta in volta?
La spiegazione si può trovare alzando appena lo sguardo. Viviamo una stagione di grandi incertezze e di altrettanto grandi malesseri in seno alle nostre democrazie, scosse dalle emergenze globali e da una crisi di credibilità sempre più pronunciata, tanto che in Italia oltre un terzo dei votanti, il 25 settembre scorso, ha rinunciato a presentarsi ai seggi. Perciò chi governa -e specie chi lo fa dopo aver vinto elezioni condotte sotto lo slogan “Dio, patria, famiglia”- gioca tutte le sue carte sul tavolo (in realtà truccato) dell’eterna emergenza sicurezza. È così che alla solita falsa emergenza immigrazione si risponde (ma non è una vera risposta, semmai una pretestuosa iniziativa) sbarrando la strada alle navi di soccorso; è così che si alzano i manganelli contro gli studenti alla Sapienza e che si alzano stridule grida di allarme per gli attivisti che imbrattano i vetri (non le tele, i vetri) di celebri quadri per richiamare l’attenzione sul collasso ambientale, è così che si espongono al rischio di pene abnormi (vedi i vecchi “decreti Salvini”) gli attivisti che fermano per qualche minuto il traffico al fine -ancora- di scuotere tutti dall’apatia rispetto alla crisi climatica.
La legge contro le “feste popolari autogestite e gratuite” è dunque una legge bandiera, concepita nella logica del cosiddetto populismo penale, ma non può essere sottovalutata, perché fa parte di un progetto ideologico e politico sempre più chiaro, che ha come sbocco ciò che in altre parti d’Europa (non a caso modello dei nuovi governanti italiani) chiamano da tempo “democrazia illiberale”.
da altreconomia