C’è un anarchico, Alfredo Cospito, in sciopero della fame da oltre un mese per protesta contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. La sua è una scelta estrema che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti e che dovrebbe indurre la politica e l’amministrazione penitenziaria a rivedere una situazione carceraria insostenibile. È improbabile che ciò accada ma non è una buona ragione per accettarlo acriticamente
di Livio Pepino
Da tempo sulla questione del 41 bis (e su quella dell’ergastolo ostativo) si combatte, nel Paese, un’aspra guerra di religione di carattere essenzialmente ideologico (al punto che taluno si è spinto a presentare un esposto alla Dia contro i responsabili del sito Ristretti Orizzonti per avere ospitato «pubblicazioni, anche scritte dagli stessi detenuti, di sistematico attacco all’ergastolo ostativo e al 41 bis»). A riportare la questione sul terreno, drammaticamente concreto, delle condizioni di vita di chi si trova in tale regime detentivo interviene, ora, lo sciopero della fame per protesta, di un anarchico, Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Bancali (Sassari) per una condanna a 20 anni di reclusione inflittagli dalla Corte di assise d’appello di Torino per promozione e direzione di un’associazione con finalità di terrorismo (la FAI-Federazione Anarchica Informale) protrattasi dal 2005 all’aprile 2019 e per una pluralità di attentati commessi tra l’ottobre 2005 e il marzo 2007, uno dei quali (contro la Scuola Allievi carabinieri di Fossano avvenuto la notte sul 3 giugno 2006) qualificato come strage ex art. 422 codice penale (decisione, quest’ultima, ancora sub iudice essendo pendente giudizio di appello, fissato il 5 dicembre, per una nuova determinazione della pena per l’attentato, riqualificato dalla Corte di cassazione come strage contro la sicurezza dello Stato ex art. 285 codice penale). Cospito è in carcere da oltre 10 anni, essendo stato in precedenza detenuto, senza soluzione di continuità, per la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi (commessa in Genova il 7 maggio 2012) per cui ha riportato condanna a 10 anni e 8 mesi di reclusione inflittagli dal giudice delle indagini preliminari di Genova. Negli ultimi sei anni di carcerazione è stato detenuto in circuiti penitenziari di Alta Sicurezza 2, a seguito dell’intervenuta contestazione del reato associativo di cui all’art. 270 bis codice penale. Anche in quegli anni, peraltro, Cospito ha condiviso la carcerazione con detenuti della medesima area e/o comunque politici, ha goduto delle ore d’aria regolamentari, di palestra, biblioteca, socialità e, per lo più, non è stato sottoposto a censura della corrispondenza, tanto che – come si legge in un documento diffuso dai suoi difensori – «ha costantemente intrattenuto relazioni epistolari con decine o centinaia di anarchici e anarchiche, con siti e riviste della medesima matrice politica, partecipando anche alla esperienza editoriale che ha condotto alla pubblicazione di due libri sulla storia del movimento anarchico». In tali interventi egli ha ripetutamente rivendicato la propria appartenenza al «movimento anarco insurrezionalista», espresso approvazione per attentati e «azioni terroristiche contro persone» e invitato i compagni a «continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti, ritenuti essere i più efficaci» (così decreto 4 maggio 2022 Ministro della giustizia), venendo, per questo, sottoposto a tre procedimenti per il delitto di istigazione a delinquere ai sensi dell’art. 414 codice penale. Tale condizione carceraria è cambiata il 4 maggio scorso quando, con decreto del Ministro della giustizia, Cospito è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione a due delle ore d’aria «trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri, il cui perimetro è circondato da alti muri che impediscono alcuna visuale o semplicemente di estendere lo sguardo all’orizzonte, mentre la visuale del cielo è oscurata da una rete metallica» e riduzione della socialità «a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti, sottoposti al regime da numerosissimi anni, che in realtà si riducono ad uno in considerazione del fatto che un detenuto è sottoposto ad isolamento diurno per due anni e un secondo ormai tende a non uscire più dalla cella» (documento dei difensori, citato).
Si è arrivati così allo scorso 20 ottobre, quando Cospito, per protesta contro il regime penitenziario a cui è sottoposto e contro l’ergastolo ostativo (al quale, nel giudizio di rinvio sarà automaticamente condannato, stante il tenore dell’art. 285 codice penale, nel caso, più che probabile, di mancata concessione delle attenuanti generiche, pur in astratto applicabili per riportare il reato, privo di qualsivoglia effetto lesivo, alle sue effettive dimensioni fattuali), ha iniziato uno sciopero della fame, che lo ha portato in un mese alla perdita di oltre 20 kg, dichiarando l’intenzione di proseguirlo sino alla morte. A seguito di ciò altri anarchici detenuti hanno adottato analoghe iniziative, si sono moltiplicate le mobilitazioni sul territorio e si è rotta la cappa del silenzio che ha circondato analoghe iniziative del passato, con emersione di interventi critici nei confronti del “carcere duro” di alcuni intellettuali – tra cui Luigi Manconi, Massimo Cacciari e Patrizio Gonnella – e di media le mille miglia lontani dalle posizioni degli anarchici e presentazione, anche, di una interpellanza parlamentare.
Fin qui i fatti, che impongono alcune considerazioni.
Lo sciopero della fame di detenuti per protesta potenzialmente fino alla morte (praticato assai più di quanto si dica: basti pensare a quel che accade, oggi, in Turchia e in Egitto) è una scelta esistenziale drammatica, che mostra un carcere senza speranza nel quale, come accade nel nostro Paese, si moltiplicano i suicidi (giunti, quest’anno, al numero senza precedenti di 80). Ed è una scelta che – qualunque siano i reati commessi da parte di chi lo pone in essere, anche i più odiosi – interpella coscienze e intelligenze e impone analisi che rifuggano da slogan cinici e superficiali (come quelli sull’intangibilità del potere punitivo dello Stato e sulla necessità di respingere asseriti ricatti). Analisi a partire, inevitabilmente, da situazioni particolari ma che investono profili generali: nel caso specifico, la sproporzione del trattamento sanzionatorio riservato agli antagonisti e, tra essi, agli anarchici, l’accettabilità etica e la legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo (su cui è in atto un braccio di ferro tra Corte costituzionale e Parlamento) e il senso del regime del 41 bis, su cui è opportuno, sia pur brevemente, soffermarsi.
C’è un punto fermo. Il regime detentivo di cui all’art. 41 bis, comma 2, ordinamento penitenziario è, per usare le parole della legge, «la sospensione, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell’articolo 4 bis (vale a dire, sostanzialmente, dei delitti connessi alla criminalità organizzata) in relazione ai quali vi siano elementi tali dal far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza». Non, dunque, un trattamento carcerario particolare per detenuti di diversa pericolosità, ma una sospensione del trattamento. Se le parole hanno un senso, l’istituto deve avere carattere eccezionale e limitato nel tempo ed essere applicato con estrema prudenza e oculatezza. Del resto, la norma, introdotta nel giugno 1992, all’indomani dell’omicidio di Giovanni Falcone, aveva originariamente un’efficacia temporale limitata a tre anni e una sfera di applicazione riservata alla sola criminalità mafiosa; è stato solo con la legge n. 279 del 2002 (e successive modifiche) che la misura ha assunto la configurazione attuale, le ha dato carattere di stabilità e ne ha esteso la portata agli imputati e condannati per terrorismo ed eversione. Non solo ma la Corte costituzionale ha ripetutamente chiarito che la norma è conforme a Costituzione solo se interpretata come dalla stessa Corte chiarito, e cioè «se non contiene misure diverse da quelle riconducibili con rapporto di congruità alle finalità di ordine e sicurezza proprie del provvedimento ministeriale» e se «le misure disposte non violano il divieto di trattamenti contrari al senso d’umanità né vanificano la finalità rieducativa della pena». Ma oggi la realtà è ben diversa.
I detenuti inseriti nel circuito del 41 bis sono, secondo l’ultima rilevazione nota (XVIII Rapporto Antigone), ben 749 e un numero così elevato (insieme alla durata molto prolungata della misura) evidenzia che tale regime penitenziario si è trasformato in uno strumento ordinario di “guerra alla mafia” (e non solo), assumendo non a caso, nel linguaggio comune, la denominazione di “carcere duro”. Inoltre le limitazioni imposte a chi vi è sottoposto, lungi dal rispondere all’esclusiva esigenza di impedire contatti con gli appartenenti all’organizzazione criminale di riferimento, assumono un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto alla privazione della libertà ed evocano «l’idea di un sistema intransigente che mira a “far crollare” (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla “redenzione”, cioè alla collaborazione con la giustizia, principale “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata”: sentenza Corte costituzionale n. 273/2001» (XVIII Rapporto Antigone, cit.). Difficile non concordare con tale valutazione se si guarda alle condizioni di chi è sottoposto al 41 bis: detenzione in cella singola, due ore giornaliere di socialità in gruppi composti da massimo quattro persone, possibilità di un colloquio al mese con i soli familiari e dietro vetro divisorio della durata di un’ora con la video e audiosorveglianza di un agente di polizia penitenziaria, partecipazione alle udienze esclusivamente “da remoto”, limitazione degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, censura della corrispondenza e molto altro. Ancor più difforme dal modello “costituzionale” del 41 bis è la specifica situazione di Cospito, primo e unico anarchico ad esservi sottoposto in forza di una misura esplicitamente motivata con la sua attività di propaganda e proselitismo assai più che con la dimostrata esistenza di contatti con appartenenti a una medesima organizzazione (sulla cui esistenza la stessa sentenza 6 luglio 2022 della Corte di cassazione mostra non pochi dubbi allorché afferma che «non v’è chi non veda come la stessa esistenza di una struttura organizzata si ponga in ideale conflitto con lo spirito anarchico […], spirito certamente refrattario a vincoli e gerarchie»: p. 41 dattiloscritto) e già sottoposto per almeno sei anni – come si è detto – a un regime detentivo differenziato ma senza il surplus di restrizioni che caratterizzano il 41 bis e inserito in questo circuito in mancanza di qualsivoglia fatto nuovo.
Questo il quadro evidenziato da uno sciopero della fame che rischia di trasformarsi in tragedia: un quadro su cui è necessario intervenire in modo puntuale, sia sul piano legislativo (e, dunque, con effetti generali) che su quello amministrativo con riferimento al caso specifico. È, a dir poco, improbabile che ciò accada, ma non è una buona ragione per accettarlo acriticamente.