Morire di carcere. Cosa racconta lo sciopero della fame di Alfredo Cospito
- novembre 29, 2022
- in 41bis, carcere, riflessioni
- Edit
Alfredo Cospito, anarchico, è in sciopero della fame dal 20 ottobre. Vuole denunciare le condizioni della pena di chi è condannato al 41bis, come lui. Soprattutto se il verdetto è emesso per opinioni politiche e come strumento di repressione
È passato più di un mese da quando Alfredo Cospito ha intrapreso uno sciopero della fame a oltranza per denunciare le disumane condizioni detentive a cui è sottoposto, ergastolo ostativo e regime speciale 41 bis. Alfredo è recluso dal 2012 per la sua attività politica di matrice anarchica, ovvero il coinvolgimento in azioni dimostrative e la diffusione di idee e contenuti sovversivi. Dall’inizio della sua protesta sono stati scritti vari resoconti dei reati che gli sono imputati e dei diversi processi in cui è coinvolto (come ad esempio il testo uscito su “Napoli Monitor”).
La lotta estrema di Alfredo è occasione per un dibattito pubblico più ampio sul senso della pena, sulle attuali tendenze politiche in materia di giustizia e sullo stato delle carceri in Italia. Da qualche settimana prendono la parola in sostegno alla sua denuncia esponenti della giurisprudenza, dell’università, della cultura e della società civile, e si organizzano numerose e diffuse iniziative di solidarietà in Italia e all’estero.
Proviamo a tracciare qui sotto gli elementi più significativi del dibattito, con alcuni rimandi a risorse esterne utili all’approfondimento dei diversi aspetti.
Il 6 luglio 2022 la Cassazione ha riqualificato una delle accuse, che vede Alfredo Cospito co-imputato insieme ad Anna Beniamino nell’ambito del processo Scripta Manent, da strage contro la pubblica incolumità (strage comune) a strage contro la sicurezza dello stato (strage politica). La vicenda in questione riguarda l’esplosione di due ordigni a basso potenziale davanti a una scuola carabinieri, di notte e in un’area extraurbana, che non causò feriti né tanto meno decessi.
Il reato di strage politica è il più grave del nostro ordinamento giuridico, nel quale è stato introdotto dal codice Rocco del 1930. Secondo l’Avvocato Gianluca Vitale la scelta di riqualificare l’accusa in tal senso solleva un problema giuridico e politico noto come diritto penale del nemico: «è il classico reato che disegna un diritto penale diverso per il nemico: io ti condanno a una pena così alta perché tu sei un nemico dello stato. […] Prevedere l’ergastolo al di là della concreta pericolosità dell’azione è fuori del perimetro costituzionale». È utile inoltre ricordare che l’anarchismo non contempla né rivendica in alcun modo lo stragismo tra le sue pratiche. Risulta quindi paradossale e indicativo che si sia deciso di ricorrere a questa accusa per un reato come quello contestato ad Anna Beniamino e Alfredo Cospito, e che invece non sia stata utilizzata per le grandi stragi degli anni ’80 e ’90 come quelle di Piazza Fontana, della stazione di Bologna, di Capaci, di via D’Amelio, di via dei Georgofili, seppure abbiano causato molti morti e rappresentato effettivamente una minaccia per lo stato.
La riqualificazione in strage politica implica la trasformazione della pena in ergastolo ostativo, il regime detentivo del “fine pena mai” che impedisce alla persona condannata di accedere a misure alternative e altri benefici come liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà. Il “fine pena mai” confligge con la finalità rieducativa della pena, ed è stato contestato dalla Corte costituzionale che nel 2021 ne aveva stabilito l’incostituzionalità, e dalla Corte europea per i diritti umani che nel 2019 aveva invitato l’Italia a rivedere la legge, ritenendola in contraddizione con la Convenzione europea che proibisce «trattamenti inumani e degradanti».
Pochi giorni dopo l’inizio dello sciopero della fame di Alfredo, proprio l’ergastolo ostativo era al centro del primo consiglio dei ministri del nuovo governo Meloni, la cui decisione è stata in sostanza quella di confermarne l’esistenza e anzi di restringere ulteriormente le condizioni di accesso ai benefici penitenziari, con il beneplacito delle opposizioni.
Dal mese di aprile scorso Alfredo è stato trasferito nel carcere di Bancali (Sassari) in regime di 41 bis. Forma più estrema tra i regimi speciali di Alta Sorveglianza, il 41 bis è stato inizialmente introdotto per combattere le associazioni mafiose ed è volto a impedire la comunicazione tra il detenuto e l’associazione criminale all’esterno.
Il 41 bis non è una condanna, ma una modalità di trattamento penitenziario, caratterizzata da restrizioni molto pesanti in cui tutto è sottratto tranne le funzioni biologiche primarie. Il regime prevede un’afflizione sensoriale, cognitiva e affettiva estrema: è vietato leggere, studiare, informarsi e comunicare con l’esterno tramite corrispondenza. Le ore d’aria sono ridotte a due in un cubo di pochi metri quadri con alte pareti che impediscono qualunque profondità visiva, e il cielo è coperto da una rete metallica. Un’ora di socialità al giorno insieme a tre altri detenuti sottoposti al medesimo regime da numerosi anni, indicati ovviamente dall’amministrazione penitenziaria.
Come racconta l’Avvocata Caterina Calia, il 41 bis viene applicato per reati politici dal 2003. Un caso eclatante è quello che vede sottoposti a questo regime da 17 anni Nadia Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma per il loro coinvolgimento nelle nuove Brigate Rosse. Questo caso è particolarmente significativo in quanto non sussiste il presupposto minimo che giustifica l’applicazione del 41 bis, ovvero l’esistenza di un’organizzazione di appartenenza all’esterno con cui si intende impedire la comunicazione, visto che da anni nessuna azione viene rivendicata con la sigla BR.
Calia osserva come «già con questi i tre prigionieri in realtà la finalità è rompere qualsiasi vincolo di solidarietà, di classe, impedire il passare di idee, di un confronto di qualsiasi natura tra interno ed esterno. […] Siccome il conflitto sociale è ineliminabile, vengono mantenuti come ostaggi con la finalità di prevenzione che non è più sul singolo, ma è diretta a chi all’esterno porta la solidarietà, denuncia le condizioni di vita del 41bis. Questo è scritto nero su bianco sui decreti fatti dal ministero per questi tre prigionieri quindi già lì si capisce che la volontà è non far uscire fuori le idee. Con l’applicazione per la prima volta del 41 bis ad un anarchico si è sdoganata ulteriormente, c’è stato un passaggio che è ancora più esplicito: tu non devi più comunicare col mondo, non devi più sapere nulla, devi essere sepolto vivo».
Nel caso di Alfredo, il pretesto per la disposizione 41 bis è la sua appartenenza al sodalizio FAI, la cui esistenza in quanto gruppo terroristico però non è dimostrata giuridicamente, ma solo ipotizzata. È cosa nota tra l’altro che l’anarchismo non prevede l’esistenza di organizzazioni strutturate e gerarchiche a cui fare riferimento.
L’accanimento penale contro Alfredo Cospito non è un caso isolato. Negli ultimi anni c’è stata a una proliferazione di processi e di condanne contro imputate e imputati di area anarchica: nel luglio di quest’anno sono stati dati 28 anni a Juan Sorroche per un attentato senza feriti alla sede della Lega Nord; nel 2020 cinque ordinanze di custodia cautelare in regime di Alta Sorveglianza per terrorismo, nonostante reati minori quali manifestazioni non preavvisate e imbrattamenti; due processi a Perugia qualificati come istigazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo per diffusione di slogan violenti anarchici; e altre iniziative giudiziarie a Trento, Torino, Bologna e Firenze, con diffusa applicazione di misure cautelari in carcere. Da notare che molte di queste sentenze fanno riferimento al reato di propaganda sovversiva, fattispecie però abrogata nel 2006, sulla base dell’assunto che la diffusione di idee, anche di sovversione violenta, debba essere tollerata da uno stato che si dica democratico, pena la negazione del suo stesso carattere fondante.
Queste ricorrenze allarmanti hanno spinto decine di avvocate e avvocati a esporsi sottoscrivendo una lettera aperta. La denuncia degli avvocati rileva una torsione giuridica in atto, finalizzata allo spegnimento di qualcosa che sta ben oltre il ruolo della magistratura, segno di “un pericoloso slittamento verso funzioni meramente preventive e neutralizzatrici degli strumenti sanzionatori”. Emerge infatti un doppio binario nella valutazione delle condotte, non più legate ai fatti ma agli autori, in cui le garanzie dell’imputato subiscono un deterioramento in vista di un risultato da raggiungere. Lo scardinamento delle garanzie costituzionali e la sproporzione della pretesa punitiva sono emblematici di «una deriva giustizialista che rischia di contrapporre a un modello di legalità penale indirizzato ai cittadini, con le garanzie e i tre diritti tipici degli stati democratici, uno riservato ai soggetti ritenuti pericolosi, destinatari di provvedimenti e misure rigidissimi, nonché di circuiti di differenziazione penitenziaria».
L’utilizzo di misure repressive come strumento per contrastare fenomeni sociali è una pratica in uso allo stato fin dalla stagione del terrorismo degli anni ’80. La risposta a un fenomeno sociale, che dovrebbe situarsi su un piano politico, affrontando le condizioni che tale fenomeno fa emergere, viene invece demandata alla magistratura. Lo strumento giuridico viene quindi usato in maniera impropria, soprattutto nei confronti delle categorie rispetto alle quali si è sviluppata una politica di emergenza: il terrorismo, la mafia, le tossicodipendenze, i migranti. Il carcere fa parte di un complesso sistema repressivo e punitivo che negli ultimi anni viene rinforzato senza sosta dai governi di ogni colore, per mezzo di decreti e ordinanze che producono morti in mare, chiusura dei confini, criminalizzazione della socialità, limitazioni a diritti fondamentali come la libertà di circolazione e di espressione. Tanto più è forte questa tendenza giustizialista, tanto più la controparte dei movimenti conflittuali sociali dal basso si indebolisce, e questi rapporti di forza entrano nelle aule di giustizia alterandone i processi.
STRAGE DI STATO
Nelle carceri italiane si sta consumando una vera e propria strage. A novembre 2022 si contano 79 suicidi dall’inizio dell’anno, il numero più alto da quando si registra questo dato. Gli ultimi tre casi proprio negli ultimi giorni: ad Ariano Irpino un ragazzo quarantenne arrivato da una settimana soltanto, tossicodipendente; a Firenze un detenuto marocchino, anche lui con problemi di dipendenze e con un noto disagio psicologico; a Foggia un detenuto nigeriano.
L’osservatorio Antigone ha pubblicato lo scorso 2 settembre il rapporto “Suicidi. Persone, vite, storie. Non solo numeri ” aggiornato al 2022, che rileva che il tasso di suicidi più elevato è tra persone giovani (tra i 20 e i 39 anni), e mette in luce la presenza massiccia di persone carcerate con disagi psichici e problemi di dipendenza da farmaci o da sostanze. I dati raccontano che il carcere è un luogo che crea isolamento e disperazione, e che la finalità di accompagnare il condannato nel reinserimento sociale, prevista dall’articolo 27 della Costituzione, è completamente mancata. Il record macabro dei suicidi di quest’anno si aggiunge al triste elenco di tragedie, abusi e violenze in ambito penitenziario, tra i quali ricordiamo i morti per le rivolte nel marzo 2020, a inizio pandemia, e le torture sui detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
È importante segnalare come proprio dall’area anarchica arriva da anni una delle rarissime voci di denuncia sulla questione carceraria e sulle lotte condotte all’interno dei CPR – Centri di Permanenza per Rimpatri, vere e proprie galere per migranti.
MOVIMENTO DI OPINIONE E INIZIATIVE DI SOLIDARIETA’
La storia di Alfredo e più largamente ergastolo ostativo, 41 bis e condizioni di detenzione sono oggetto di una crescente attenzione da parte del mondo accademico e culturale, di cui citiamo alcuni esempi che ci sembrano rilevanti, senza alcuna pretesa di esaustività.
“Il Dubbio”, giornale degli avvocati, ha condiviso le riflessioni dei professori universitari Spangher e Fiandaca, che denunciano lo stravolgimento dello strumento penale dall’epoca dello stragismo in avanti. Massimo Cacciari ha scritto un articolo su “La Stampa” in cui sottolinea la sproporzione tra reato commesso e pena inflitta. “Il post” invece si concentra sullo sciopero della fame come unica forma di protesta rimasta alle persone prigioniere e ne traccia i precedenti. Su “Ristretti Orizzonti” inoltre si più consultare una rassegna stampa quotidiana sul tema carcerario. L’Avvocato Flavio Rossi Albertini, che segue personalmente il caso Cospito insieme a Maria Grazia Pintus, ha rilasciato nelle ultime settimane diverse interviste, tra le quali segnaliamo questa perché più recente su Radio Città Fujiko. Nella puntata del 20 novembre di Zazà su Radio3 prende la parola il giornalista e docente universitario Luigi Manconi, che ha anche curato un articolo uscito su “Repubblica”.
Moltissime anche le iniziative di solidarietà organizzate nel corso degli ultimi mesi. Qui una raccolta in costante aggiornamento delle azioni e dei presidi in Italia e all’estero, tra cui citiamo l’occupazione della sede di Amnesty International a Roma, che mette in risalto il parallelo tra l’indignazione verso il sistema carcerario degli altri paesi e il silenzio su quello che succede nel nostro.
Il 1° dicembre è fissato a Roma il riesame della disposizione di 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito. Il 5 dicembre a Torino ci sarà l’udienza in appello per la conferma della pena.
da DINAMOpress
Qualcuno si sta muovendo per chiedere la grazia?