Tra partecipazione a guerre discutibili, nazionalizzazione di scuole e ospedali e qualche opportuna rimessa in libertà di religiosi, l’Eritrea rimane un enigma (almeno in parte)
di Gianni Sartori
Quello dell’Eritrea rimane un conto in sospeso. Se negli anni settanta e ottanta era una delle rivendicazioni della sinistra (una parte almeno) anticolonialista, in seguito non sono mancate le perplessità.
Ma già all’epoca fiorivano le contraddizioni. Ricordo una festa dell’Unità (mi pare a Ferrara, vado a memoria) dove lo stand dell’Etiopia (all’epoca governata dallo stalinista Mènghistu Hailé Mariàm) si trovò a pochi metri di distanza da quello della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli (ricordate Lelio Basso?) che ospitava una mostra della Resistenza eritrea. Finì letteralmente a botte, con il servizio d’ordine del PCI che – non sapendo che pesci pigliare (quelli etiopi o quelli eritrei?) – se ne restava con le mani in mano. Ricordo anche l’amarezza di Verena Graf (“allieva” di Lelio Basso e portavoce della LIDLIP a Ginevra) per quella che era stata “una delle poche cause vinte”, ossia l’indipendenza dell’Eritrea (risalente al 1991)quando (metà anni Novanta?) giungevano notizie di centinaia di arresti di giovani dissidenti.
Per non parlare del ruolo assunto da Asmara (non certo disinteressato visto che rivendica una porzione del Tigray) nel recente conflitto tra il Fronte di Liberazione del Tigray (Tplf) e l’esercito di Addis Abeba che ha utilizzato ampiamente sia droni turchi che cinesi. Conflitto temporaneamente sospeso con il “cessate il fuoco” del 2 novembre.
Sarebbero circa centomila i soldati inviati dall’Eritrea contro i combattenti e i civili del Tigray. Inoltre già si parlava di una possibile ulteriore mobilitazione dei riservisti.
Detto questo, non si vuole nemmeno accusare la povera (in senso letterale) Eritrea di tutte le disgrazie del continente africano. Per esempio la nazionalizzazione forzata di centri sanitari e scuole gestiti da religiosi non è detto sia stata necessariamente un male. Magari, azzardo, un male necessario (in chiave comunque anticolonialista, contro le eccessive ingerenze esterne?).
In agosto aveva suscitato scalpore (e anche qualche protesta) la nazionalizzazione di uno storico istituto tecnico gestito dalla congregazione dei Fratelli delle scuole Cristiane di La Salle (De La Salle Brothers – Fsc) nella regione di Gash-Barka.
Si trattava dell’Agro-Technical School – Hats che istruisce giovani di ogni gruppo etnico o religioso all’utilizzo di macchine agricole, colture agricole e allevamento. Stessa sorte per la Don Bosco Technical School di Dekemhare.
Già qualche anno fa, nel 2019, si era assistito ad una prima nazionalizzazione forzata di scuole secondarie e strutture sanitarie (oltre una ventina tra ospedali e cliniche) gestite da religiosi.
Particolarmente dolorosa (non tanto o non solo per le religiose coinvolte, ma forse per la popolazione) quella dell’ospedale di Zager, specializzato in maternità.
Di segno opposto (conciliante?) la recente liberazione (28 dicembre) di Abune Fikremariam Hagos Tsalim, vescovo di Segheneiti, arrestato il 15 ottobre all’aeroporto di Asmara insieme al sacerdote Mihretab Stefanos.
Rimane invece sconosciuta la sorte di un frate minore capuccino, padre Abraham di Tesseney, ugualmente arrestato in ottobre.
Finora il governo eritreo (guidato in maniera autocratica da Isaias Afwerki) non ha mai fornito spiegazioni in merito alle ragioni di tali arresti. In Eritrea aderisce alla Chiesa cattolica circa il 4% della popolazione.
Numerose sono state le denunce provenienti dal mondo cattolico, ma non solo, per le violazioni dei diritti umani (torture, esecuzioni sommarie…) e per la leva obbligatoria a tempo indeterminato imposta a uomini e donne anche al di sotto dei 17 anni. E’ possibile quindi che le nazionalizzazioni di strutture scolastiche e sanitarie rappresentino anche una ritorsione per tali critiche all’operato del governo.
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