Indagini di alcune ong hanno dimostrato come la Commissione e le sue agenzie abbiano venduto tecnologie per monitorare migranti e cittadini in violazione dei principi di democrazia
di Walter Ferri
La crisi rappresentata dal cosiddetto Qatargate ha fatto tremare le istituzioni europee lasciando trapelare come il secondo articolo del trattato dell’Unione europea, quello che riconosce e tutela i diritti umani, non sia sempre al centro delle priorità di chi governa. Le ambiguità proprie ai corridoi del potere di Bruxelles si estendono però ben oltre agli eclatanti casi fatti di torbidi regali e borsoni pieni di banconote, si incastonano con regolarità in ogni angolo della burocrazia, soprattutto quando questa ha a che fare con situazioni riconosciute come emergenziali. Uno dei campi che maggiormente si presta alla poca trasparenza istituzionale è quello della sicurezza nell’ottica del controllo di confine, ambito in cui frequentemente vengono registrati episodi tutt’altro che virtuosi.
Dal 28 novembre 2022 qualcosa potrebbe però essere cambiato: la responsabile dell’ufficio del difensore civico europeo (il cosiddetto ombudsman) Emily O’Reilly ha riconosciuto che la Commissione ha elargito fondi a paesi terzi senza dotarsi dei meccanismi necessari a prevenire che i governi autoritari adoperassero le risorse dell’Unione europea per violare i valori fondamentali dell’uomo, quindi ha chiesto che fosse posto rimedio alla drammatica mancanza. Si tratta di una presa di posizione storica che dona speranza ad avvocati e attivisti impegnati da anni nel lottare perché l’Unione europea sia considerata responsabile per alcuni lati oscuri del suo operato.
Il confine che si estende oltre il confine
Tutto è partito anni fa. Un collettivo composto dalle organizzazioni non governative Privacy international, Access now, The Border violence monitoring network, Homo digitalis, International Federation for Human Rights e Seawatch ha infatti notato come l’impegno europeo a esternalizzare i controlli di confine andasse a foraggiare nazioni note per avere uno scarso rispetto dei diritti dei vulnerabili e degli oppositori politici. Al fine di far chiarezza, il gruppo ha fatto richiesta di accesso ai documenti dei vari organi competenti, incappando immediatamente in un marcato ostracismo.
Con molta pazienza, le varie ong sono comunque riuscite a ottenere centinaia di carte che evidenziano problemi di fondo e che suggeriscono tra le righe che le
tecnologie provenienti dall’Unione europea vengano adoperate per compiere azioni
non conformi ai valori promossi ufficialmente da Bruxelles, quindi nel novembre del 2021
hanno interpellato la mediatrice O’Reilly al fine di stabilire se i comportamenti comunitari siano adeguati al contesto.
“Ottenere i documenti è stato molto difficile e alla fine abbiamo ricevuto da alcune di queste agenzie delle informazioni che hanno confermato i nostri sospetti e le nostre preoccupazioni, ovvero che le autorità hanno ricevuto addestramenti e materiali legati allasorveglianzae che in alcuni casi questi trasferimenti sono avvenuti in prossimità di episodi in cui questi strumenti sono stati adoperati per violare i diritti degli abitanti di queste nazioni o per spiare dissidenti e personaggi politici”, sostiene Ioannis Kouvakas, senior legal officer di Privacy International, l’organizzazione da cui è scaturita la scintilla che ha avviato l’indagine.
Scandagliando i documenti in questione si scopre dunque come, per esempio, la European Union Agency for Law Enforcement Training (Cepol) abbia istruito le autorità dei partner governativi all’uso di “moderne tecnologie investigative” che contravvengono esplicitamente aicodici di condotta adottati entro i confini dell’Unione europea. Non si va per il sottile: nelle diapositive usate durante i corsi ci sono tutte le informazioni necessarie a creareprofili fasullisui social ai fini di spionaggio, isock puppets, dichiarazioni altisonanti che annunciano come “il futuro è nell’uso dei malware” e raccomandazioni su come meglio adoperare i software Xry/Ufed al fine di ricavare dai cellulari sequestrati tutte le informazioni utili a ottimizzare le possibilità delle forze dell’ordine.
Non solo Libia
Nella sola Libia, l’Europa ha investitoalmeno 42 milioni di euro attingendo dal bacino dell’Emergency Trust Fund for Africa (Eutfa), un fondo dedicato a scopi umanitari, per dotare le cosiddette guardie costiere libiche (Gacs e Lcgps) di motovedette, di Toyota Land Cruiser e della strumentazione atta a ottimizzare i servizi di intelligence della nazione. La situazione non migliora nel momento in cui si va a vagliare l’operato di Frontex, quella stessa Agenzia europea per il controllo di frontiera che già in passato era finita nel mirino dell’antifrode per aver distolto lo sguardo sulle violazioni dei diritti umani perpetrati dalla Grecia nei confronti di profughi e migranti. Una recente indagine di Human Rights Watch ha per esempio identificato una correlazione tra il pattugliamento dei velivoli controllati da Frontex e le intercettazioni delle motovedette libiche, il tutto a discapito dell’immediata sicurezza di coloro che sfidano il mare
Gli investimenti Eutfa su territorio libico fanno peraltro riferimento a un programma, il Support to integrated border and migration management in Libia (Sibmmil), in cui il soggetto attuatore è il
ministero degli Interni italiano, un’entità che storicamente si è dimostra poco aperta a discutere i dettagli del progetto per timore, sostengono le istituzioni, che il rivelare certe informazioni possa danneggiare i rapporti bilaterali tra Roma e Tripoli. The Border Collective, l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e l’
Associazione ricreativa e culturale italiana (Arci) stanno
contestando da anni davanti alla
Corte dei conti dell’Unione europea la
legittimità finanziaria dell’usare i fondi per lo sviluppo dei paesi africani al fine di sostenere le potenzialità di
sorveglianza dei governi autoritari, soprattutto in quelle situazioni in cui non vengono rispettati i criteri di monitoraggio sul rispetto dei diritti umani.
“Le persone non vengono salvate dalle guardie costiere libiche, vengono intercettate e spostate indietro, che per noi è una violazione del principio di non respingimento perché poi vanno incontro a violazioni dei diritti umani gravissimi, tornano nei circoli della detenzione – spiega Giorgia Jana Pintus, che si occupa per Arci del monitoraggio dell’esternalizzazione delle frontiere -. Ci sono varie inchieste internazionali che dimostrano che in Libia avvengono crimini contro l’umanità”.
La novità
La dissonanza che divide scopi e destinazione di questi fondi non è l’unico elemento a mettere in discussione la correttezza delle strategie dell’Unione europea. Attivisti e legislatori contestano infatti che le leggi europee sul trasferimento delle tecnologie di sorveglianza impediscano la condivisione spensierata di apparecchiature e formazione che potrebbero essere usati in danno ai valori dell’Unione europea, argomento che è stato al centro della decisione dell’ombudsman.
“Nell’inviare questi equipaggiamenti e nel portare a termine questi addestramenti, l’Unione europea non ha fatto seguito di quanto avrebbe dovuto fare, ovvero elaborare una valutazione dell’impatto sui diritti umani”, spiega Marwa Fatafta, advocacy manager di Access now. A oggi, Bruxelles ha sostenuto che la responsabilità della gestione dei diritti umani ricada esclusivamente sulle nazioni di destinazione, nonché che la minaccia di ripercussioni economiche sia sufficiente a garantire che le dittature e i governi autoritari si comportino per il meglio. I fatti raccontano notoriamente una storia differente e O’Reilly non manca di rimarcare che questo presupposto sia mendace.
La posizione dell’ombudsman si regge esclusivamente sui dati riguardanti l’Eutfa, ma il suo suggerimento di introdurre opportune pratiche d’analisi e di controllo ha valore universale, inoltre gli uffici della mediatrice ci confermano che lo staff sia già al lavoro su altre due denunce,una dedicata a Frontex e l’altra allo European External Action Service (Eeas). La macroinchiesta prodotta dal collettivo di ong si è dimostrata semplicemente troppo vasta e capillare per essere risolta in un’unica sessione, quindi per ottenere risultati tangibili è stato necessario scinderne i contenuti al fine di concentrarsi sugli attori specifici che sono protagonisti dei punti critici della vicenda. Le prove portate innanzi alla moderatrice sono di una tale portata che risulta difficile credere che gli esiti dei giudizi futuri otterranno un esito diverso da quello già riscontrato nei confronti del fondo per l’Africa. “Speriamo che questa decisione possa influenzare come l’Unione europea sviluppi i progetti e le proprie politiche estere, che si assicurino di garantire i diritti fondamentali delle persone anche al di fuori dell’Unione europea – ci confessa Fatafta -. Non è una situazione ‘occhio non vede, cuore non duole’, se invii capacità di sorveglianza e tecnologie ai paesi non europei, sei comunque responsabile per le violazioni dei diritti umani che derivano nell’abuso di questi strumenti”.
I possibili contraccolpi di una gestione leggera delle tecnologie e delle competenze legate alla sorveglianza si estendono infatti ben oltre i confini nazionali dei paesi terzi. Pur accantonando gli interessi morali nei confronti di migranti e rifugiati, non possiamo ignorare il fatto che lo cyberspionaggio di natura politica sia un fenomeno che si sta espandendo a livello esponenziale. Tenendo conto del solo spyware Pegasus prodotto dall’israeliana Nso Group, in Europa sono già finiti sotto la sorveglianza illegale di soggetti ignoti diversi giornalisti, alcuni attivisti, i politici separatisti catalani, ma anche gli stessi funzionari dell’Unione europea. “[Questi elementi di cronaca] evidenziano come la tecnologia non sia un qualcosa che possiamo abbandonare alle singole nazioni al di fuori dell’Europa pensando che non impatterà su di noi come cittadini dell’Unione […] non è semplicemente un problema delle nazioni autoritarie, ha a che fare con tutti noi”, ribadisce Kouvakas.
Plasmare il futuro
Nel frattempo, l’Eutfa ha esaurito naturalmente il proprio corso ed è stato infine sostituito da altri finanziamenti che dureranno fino al 2027. Quella ottenuta dagli sforzi congiunti delle ong potrebbe dunque apparire come una vittoria futile e tardiva, tuttavia gli esiti delle loro fatiche hanno realizzato un precedente che andrà a riverberare su ampia scala. Nel formalizzare la propria opinione, l’ombudsman ha d’altronde avuto l’accortezza di generalizzare la sua analisi in modo che questa potesse coprire tutti quei frangenti in cui Bruxelles sosterrà i sistemi di sorveglianza dei poteri extra-Unione europea, alterando potenzialmente le future politiche di gestione dei confini. Difficile prevedere l’impatto effettivo della novità, almeno tenendo conto che l’Unione europea sta supportando da tempo il concetto di delegare ai vicini il compito di arginare l’immigrazione illegale, ancor più che diversi patti bilaterali hanno concesso a Frontex di operare direttamente al di fuori della sua normale area operativa.
“Si sta esternalizzando il controllo dei flussi migratori ai paesi del Nord Africa per evitare che le persone raggiungano le coste europee – spiega Jana Pintus -. Per evitare di essere giudicati per respingimento illegittimo […] quello che si è fatto è stato fornire mezzi e attrezzature perché fossero i paesi di transito a bloccare queste persone, visto che noi [europei] non potevamo farlo perché siamo soggetti al diritto europeo, al diritto internazionale e agli obblighi del diritto d’asilo”. La parola espressa da O’Reilly potrebbe però vanificare, o perlomeno ridimensionare nettamente, il vantaggio che si cela maldestramente dietro alla decisione di subappaltare i respingimenti ai governi autoritari, cosa che andrebbe dunque a complicare non poco le speranze di coloro che vorrebbero scaricare al di fuori dell’Unione europea ogni onere gestionale e complicazione etica.
da Wired
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