Lamine, 25 anni, è stato arrestato al termine di uno sbarco a Messina nel 2021: è un ragazzo del Gambia accusato di avere condotto l’imbarcazione su cui viaggiavano circa cento persone, dieci delle quali sono morte durante la traversata, quando l’imbarcazione si è ribaltata. I naufraghi sono stati soccorsi dalla nave umanitaria di Medici senza frontiere (Msf) Geo Barents e sono stati portati in salvo in Italia, ma all’arrivo Lamine è stato arrestato con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e omicidio plurimo. Rischia 24 anni di carcere.
“Lamine è uno dei tanti ragazzi che sono in carcere con cui siamo in contatto. Continua a dire che non era lui alla guida del mezzo e siamo sicuri che conoscesse alcune delle persone decedute: è in corso il processo contro di lui e rischia una pena molto severa”, racconta Richard Brodie, un ricercatore e operatore sociale dell’Arci Porco rosso di Palermo. Secondo un report dell’associazione, realizzato in collaborazione con Borderline Europe, nel 2022 sono stati arrestati 264 presunti scafisti in seguito al loro sbarco in Italia: una persona ogni trecento arrivate.
Ma secondo gli attivisti che stanno seguendo una novantina delle persone finite in carcere con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, nella maggior parte dei casi non hanno nulla a che fare con gruppi criminali, anzi sono a loro volta vittime di sfruttamento.
“Dai numerosi processi che abbiamo seguito e dalle sentenze, risulta che molti ragazzi sono stati reclutati all’ultimo momento dalle organizzazioni criminali, spesso sono stati costretti a condurre il mezzo oppure si sono autorganizzati per il viaggio, cioè hanno condotto delle imbarcazioni che hanno comprato insieme ai loro compagni di viaggio. Ma nonostante questo sono trattati in carcere da pericolosi criminali”, continua l’attivista, secondo cui molti dei detenuti condannati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina stanno in carcere per molti anni in un regime che non prevede misure alternative. “È un accanimento”, commenta Brodie.
“La percentuale di arresti rispetto agli arrivi è costante rispetto al 2021 e anche al periodo 2014-2017. Molto diverse rispetto a questo periodo, però, sono le nazionalità delle persone fermate”, continua Brodie.
Cambiano le rotte
Negli anni successivi alla riapertura della rotta libica, un quarto delle persone fermate all’arrivo con l’accusa di essere scafisti era originario dell’Africa occidentale, mentre negli ultimi due anni solo dieci persone provenienti da questa zona sono state arrestate con la stessa accusa. Invece la maggior parte delle persone fermate proviene dal Nordafrica e dall’Asia centrale.
“I nordafricani sono il doppio rispetto all’anno precedente: abbiamo contato 118 fermi nel 2022, a fronte dei 61 nel 2021. Nell’ultimo biennio, come negli anni precedenti, la maggior parte di questi fermi coinvolge cittadini egiziani. E infatti il numero di egiziani che hanno deciso di affrontare i rischi del Mediterraneo quest’anno è più che raddoppiato rispetto all’anno scorso (18.285 rispetto a 8.576 , secondo i dati del ministero)”, racconta Brodie.
Il numero maggiore di tunisini ed egiziani è legato al cambiamento delle rotte: nel 2022 si è intensificato il traffico sul percorso che parte dalla Tunisia e si sono riaperte vecchie rotte che partono dalla parte orientale della Libia, dai porti di Tobruk e Derna.
Secondo il rapporto, un altro cambiamento significativo tra il 2021 e il 2022 è stata la diminuzione degli ucraini fermati dalla polizia. Questi erano di solito impiegati come skipper nei viaggi tra la Turchia e la Calabria o la Sicilia orientale, ma nell’ultimo anno, a causa della guerra in Ucraina, è stato impossibile per gli uomini tra i 18 e i 60 anni lasciare il paese. Nel 2022 ne sono stati arrestati dopo lo sbarco solamente nove.
L’importanza della rotta – che in una settimana di navigazione collega le coste dell’Egeo all’Italia – tuttavia è cresciuta e il posto degli ucraini al timone delle barche a vela è stato preso dai russi e dai turchi.
“Abbiamo assistito al raddoppiarsi dei fermi di cittadini turchi (24 nel 2021, 52 nel 2022) e russi (7 nel 2021, 14 nel 2022), ma anche a molti più fermi di persone dal continente asiatico in generale: dai siriani ai bangladesi, passando da paesi senza sbocco sul mare, come il Kazakistan e il Tagikistan”, racconta Brodie.
“Come abbiamo scritto nel rapporto, nella maggioranza di questi processi le persone sotto accusa hanno poco o nulla a che fare con organizzazioni e gruppi violenti. Più spesso, sono loro a essere esposti a questi metodi e sfruttati. È importante notare che queste organizzazioni si evolvono per reagire e colmare il vuoto creato dalle politiche di chiusura dell’Europa, e sono il prodotto di politiche tuttora attuate in primis dal governo italiano”, conclude il ricercatore.
Controinchiesta sulle presunte complicità tra Ong e scafisti
L’8 gennaio il Corriere della Sera ha pubblicato il resoconto del lavoro sotto copertura di un agente di polizia che, infiltrato su una nave di Save the Children, avrebbe documentato la collaborazione tra Ong e trafficanti libici di esseri umani.
Attraverso una controinchiesta, due giornalisti freelance sono riusciti a sbugiardare questa narrazione che manifesta non poche incognite.
Innanzitutto la testata riporta alcune ipotesi investigative spacciandole come fatti comprovati. Le carte del processo, che ancora è in fase preliminare, dimostrano che la questione non è ancora così verificata. L’inchiesta della procura di Trapani è stata inoltre un maxi investimento economico oltre investigativo, interesse che ha delle radici più strettamente politiche più profonde: sono infatti stati hackerati cellulari di medici senza frontiere, sono state posizionate numerose microspie, e sono state raccolte moltissime intercettazioni nel 2017 toccando l’intero ambiente di chi si occupa di salvataggio in mare. Il tutto di pari passo con una propaganda politica che ne ha dipinto un nemico pubblico.
Nella narrazione mainstream italiana, si fa anche confusione sull’utilizzo stesso dei termini del discorso, a partire da quello di “trafficanti” fino a quello di “salvataggio” diviso in “vero” e “falso”. Sembra banale ma è opportuno specificare che l’ultima distinzione non sia altro che un’idea diffamatoria, in quanto il salvataggio in mare operato dalle Ong negli ultimi anni ha di fatto
intralciato moltissime operazioni di arresti, da cui si spiega anche la furia investigativa.
I due freelance non hanno consultato solo le carte processuali ma anche i rapporti dell’agente infiltrato, il quale non documenta le complicità narrate, ma anzi mette in luce quelle tra trafficanti e guardia costiera libica. Questa è finanziata da Italia e UE per contenere le partenze e non sembra casuale che il Corriere preferisca non parlarne.
Sull’atteggiamento inoltre della guardia costiera italiana, branca della marina militare, è solo negli ultimi anni che essa è così piegata alla campagna antimigratoria del governo.
Non molto tempo fa infatti, in virtù di accordi internazonali, essa dichiarava che di fronte ad evidente pericolosità intrinseca delle navi provenienti dalla Libia, il soccorso fosse necessario.
Tra gli elementi che chiarificano le radici delle sistemiche versioni dei fatti, esemplificativo è infine un aspetto del processo Salvini – Open Arms : la marina militare inviò un sommergibile, operazione chiaramente costosa, a fare alcune foto al barcone vuoto appena salvato da Open Arms per dimostrare che esso ancora galleggiava. Questa foto arrivò a Salvini, allora ministro dell’Interno, che non esitò ad usarla per la sua propagada contro le ong.
Radio Onda Rossa ne parla con Lorenzo D’Agostino, giornalista freelance. Ascolta o Scarica