La cosiddetta “emergenza carceri” viene comunemente associata ad un duplice fenomeno: da un lato il sovraffollamento, dall’altro il tasso di suicidi. I dati ufficiali sono eloquenti e riferiscono che ad oggi vi sono circa dodicimila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare (circa 45 mila); nel contempo, sono oltre cinquanta i detenuti che si sono tolti la vita nel corso del 2010. Una minore attenzione mediatica è invece dedicata alla composizione della popolazione carceraria, definibile come un vero e proprio microcosmo delle minoranze sociali. Un’analisi delle statistiche offerte dalle principali associazioni operanti in questo ambito disvelano proprio questa natura discriminatoria, ora di classe, ora etnica, ora di orientamento sessuale, del sistema penitenziario italiano.
In generale, le statistiche attestano che quasi due terzi della popolazione carceraria sono rappresentati da tossicodipendenti e stranieri (circa 30 mila), di cui circa la metà ancora in attesa di giudizio. La percentuale di persone straniere nelle carceri è in costante e progressivo aumento dal 1991 ad oggi. Per loro, le misure di custodia cautelare, applicate in via generale con straordinaria disinvoltura, sono ben più frequenti che per gli italiani. Peraltro, un’analisi ad ampio raggio dovrebbe includere nella popolazione carceraria straniera anche gli individui ristretti nei cosiddetti Centri di identificazione ed espulsione (CIE) delle persone immigrate: veri e propri luoghi di detenzione in cui da anni si denunciano invano abusi e violazioni dei diritti fondamentali. Quanto al fenomeno delle tossicodipendenze, invece, si deve ricordare che il modello introdotto dalla legge Fini-Giovanardi del 2006 punta decisamente sul sistema penitenziario anziché sulle misure alternative ed introduce sanzioni penali per la detenzione a qualunque titolo delle sostanze stupefacenti (senza peraltro una loro distinzione). Questa sola fattispecie penale causa circa il 35% del totale dei detenuti in Italia, nonché del 50% dei detenuti stranieri.
Cresce, contestualmente, il numero delle persone transessuali, molte delle quali sudamericane, detenute per reati minori, di prostituzione o uso di droga. I transgender, al pari di altre tipologie di detenuti, sono confinati in appositi bracci carcerari, non di rado a stretto contatto con persone condannate per reati particolarmente gravi, come ad esempio la pedofilia, quasi a voler considerare il transessualismo un crimine in se. Apposite ali per i transessuali sono ad esempio presenti nel carcere milanese di San Vittore o in quello romano di Rebibbia (proprio sul braccio g8 di Rebibbia è focalizzato il volume di Mele, A., Genere irrisolto. Transessuali e istituzioni carcerarie, Prospettiva editrice, 2007). L’ambiente carcerario, inoltre, rende ancora più difficile la condizione delle persone transessuali che nella vita di tutti i giorni sono tra i soggetti più esposti ad atti di intolleranza, discriminazione e abusi sessuali. Al fine di assicurare a questi una condizione più dignitosa, si è di recente sperimentata, ad Empoli, la prima struttura penitenziaria ad hoc, la cui istituzione e i cui risultati sono oggetto di controversia.
Negli ultimi anni sono numerose le ricerche di taglio scientifico ed empirico che hanno evidenziato la torsione della natura della popolazione carceraria: dalla criminalità intesa in senso “professionale” alla micro-criminalità connessa all’emarginazione sociale. Ed è alla luce di queste considerazioni che emergono con maggiore chiarezza i reali intenti del cosiddetto “Piano carceri” varato in questa legislatura, con tanto di dichiarazione dello stato di emergenza e conseguente nomina del commissario straordinario. Accanto alle misure deflattive consistenti nelle possibilità di scontare ai domiciliari l’ultimo anno di pena – ma non per i reati gravi – il Piano si propone di raggiungere una capienza carceraria complessiva di ottantamila posti. Ecco come viene rovesciata la questione del sovraffollamento: anziché debellare la piaga delle migliaia di persone detenute per reati futili o minori, l’ordinamento statale amplia le strutture carcerarie esistenti, così da assorbire una maggiore percentuale di soggetti appartenenti all’area dell’emarginazione sociale.