Sullo sciopero della fame di Alfredo Cospito e la tortura del 41bis i media e la politica si sono rincorsi nella denuncia di un incombente “pericolo anarchico”. Ma esiste davvero questo pericolo? È lecito dubitarne posto che negli ultimi decenni il solo fatto di violenza alle persone rivendicato da anarchici è stato il ferimento dell’ingegner Adinolfi. Altri sono i veri pericoli per la nostra democrazia.
di Gianfranco Ragona
In questi giorni la comunicazione e la politica si sono lanciate sul “caso Cospito” con un’enorme foga, pari soltanto alla generale approssimazione. Del resto, l’anarchismo non è un argomento di studi molto frequentato nelle Università e i media vi si dedicano prevalentemente alla ricerca di notizie ad effetto. I governi, poi, perseguono una linea di demonizzazione risalente agli albori dello Stato unitario.
Ma dietro tutto ciò c’è un essere umano, un anarchico, cui è stato inflitto il 41 bis, misura aberrante in sé, e in questo caso applicata in maniera irrazionale, se si guarda ai fatti noti. L’argomento utilizzato dai giudici e ripreso nel dibattito pubblico e politico è infatti fondato su una premessa errata: cioè che Cospito sia il capo di una organizzazione terroristica, con una sua struttura gerarchica e un progetto effettivo di sovversione violenta dell’attuale assetto statale. E in tale posizione dirigente, dal carcere, egli emetterebbe ordini che una docile massa inquadrata di anarchici sarebbe pronta a eseguire. L’argomento, ripeto, è assurdo, poco serio o forse in malafede.
Di per sé l’anarchismo non ammette l’esistenza di una gerarchia politica, quindi capi, sottocapi, quadri e masse, anzi il contrario: la sua ragion d’essere, convinca o non convinca, è la contestazione di ogni rapporto sociale fondato sul principio di autorità. Questo non significa che rifiuti ogni forma di organizzazione, ma si tratta per lo più – ovvero, al netto di antiche eccezioni – di organizzazioni strutturate secondo un principio federalistico, con decisioni fondate su un consenso che fluisce dal basso in alto. Non sono previsti statuti depositati, regolamenti, tessere, comitati di ammissione ecc. Certo, si tratta di forme di autorganizzazione del tutto diverse da quelle cui i più sono abituati; in qualche caso siamo di fronte a organizzazioni per gruppi di affinità (e di per sé provvisori e instabili, spesso impolitici), il che spiazza l’intelligenza comune, che non vede nulla al di là di una logica discendente del potere. Così, l’esistenza stessa degli anarchici mette in discussione il fondamento di quel legame sociale che oggi chiamiamo Stato, che permea i rapporti tra individui in ogni contesto: dalla famiglia alla scuola, dal lavoro all’amministrazione pubblica e così via. Gli anarchici spesso fanno secessione da questo rapporto e provano a vivere diversamente, per quanto e fin dove ciò è possibile, poiché il rapporto statale è totalizzante e non ammette rivali. Storicamente, lo Stato li ha avversati e spesso perseguitati, come ci ricordano ancora i nomi di Pinelli e Valpreda o quelli di Sole e Baleno (Maria Soledad ed Edoardo Massari).
Ci si può domandare, se nel caso di Cospito il sospetto di una comunicazione con l’esterno fosse autentico (il sospetto, non il fatto, intendo), non avrebbe potuto essere applicata la misura della censura, senza ricorso al 41 bis? Forse in molti se lo chiedono, anche negli ambienti della politica, che in queste ore sta dando il peggio di sé. Le istituzioni, invece di compiere un autorevole e doveroso atto di coraggio, ossia la revoca immediata del 41 bis per Cospito, mostrano tutta la loro debolezza che, come spesso accade, si manifesta con pose muscolari e agitando lo spauracchio del “pericolo anarchico”.
Esiste oggi un “pericolo” di questo genere? Bisogna intendersi bene ed essere molto chiari. Se si parla di “terrorismo” si va del tutto fuori strada, soprattutto se la mente corre alle stragi, alla violenza che ferisce e uccide esseri umani. Negli ultimi decenni, l’unico caso di ferimento rivendicato da qualche esponente anarchico è quello dell’ingegner Adinolfi, per il quale proprio Cospito è stato condannato. Pur considerando tutte le diverse manifestazioni riconducibili a quel mondo plurale e pluralistico che definiamo anarchico, non risultano altri casi. Sarebbe pure del tutto normale rilevarne qualcuno: del resto, persino di morti accidentali dovute al cattivo uso della forza fisica legittima sono piene le cronache. E invece, nell’epoca del culto dei numeri, le statistiche ci dicono che negli ultimi decenni non esiste alcun pericolo anarchico collegato ad atti di questa natura. Si tratta di una mistificazione, che si accompagna a quelle riguardanti la presunta “ala violenta” del movimento No Tav, di cui molti anarchici fanno parte.
Questo non significa che gli anarchici non sfidino l’ordine stabilito, contestando coi loro mezzi le politiche criminali sui migranti, lottando contro le povertà crescenti, facendo fronte comune con le vittime di quella nuova questione sociale che si affaccia con sempre maggiore drammaticità nelle nostre città. Il pericolo in questo senso è allora un altro, e non sorprende che i governi, poco interessati a rispondere ai bisogni degli strati sociali su cui la crisi si abbatte con violenza, temano l’estendersi della propaganda anarchica e la possibilità che si saldi ad altri movimenti che attraversano l’attuale situazione, non esigui, benché frammentati. Tuttavia, è di chi spera di esorcizzare questa paura lasciando morire Cospito, per poi magari avviare una repressione su vasta scala, che bisogna avere più timore oggi.
Un’ultima annotazione, solo apparentemente marginale. Durante una recente trasmissione televisiva, l’eminente storico Salvatore Lupo, conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi innovativi sulla criminalità organizzata, è stato indicato quale espressione di ambienti di “borghesia mafiosa”. Se non fosse una drammatica forma di degrado del dibattito pubblico, come opportunamente denunciato dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea, sarebbe solo ridicolo. Eppure questo è il livello, anche quando si accostano gli anarchici a fantasiosi connubi con simili organizzazioni criminali. La cosa qui è egualmente infamante: le mafie hanno storicamente sostenuto le classi proprietarie, trovando spesso accomodamenti con il potere ufficiale; gli anarchici si sono mossi nel tempo in direzione del tutto opposta, e con le mafie non hanno mai cercato abboccamenti o accordi. Non tutti possono dire lo stesso.
Poi, la riduzione del complesso dell’opposizione che non è ricompresa nella sfera istituzionale, così come del dissenso e della critica radicale della società, a un fatto di criminalità comune o peggio organizzata, è un sintomo di una crisi civile profonda, che difficilmente troverà soluzione in una classe dirigente che sul disprezzo verso le classi popolari, i loro bisogni, le loro istanze, ha troppo spesso cercato di puntellare la propria incerta coesione.
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