Potere, forme di propaganda e pratiche di seduzione: il caso italiano
- aprile 06, 2023
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La dimensione manipolatoria che sottende l’esibizione di Giorgia Meloni, presso il “villaggio militare” allestito in Piazza del Popolo, lo scorso 28 marzo, può essere colta – nel pieno della propria evidenza – da una specifica prospettiva, che risiede tutta nell’inconsapevolezza puerile di chi la acclamava. I bambini che in coro invocavano il nome della presidente del Consiglio erano, inconsapevolmente, attori coinvolti in un’operazione di propaganda.
di Alessandro Ugo Imbriglia e Italo Di Sabato
I giovani alunni sono stati integrati, dalle istituzioni che hanno organizzato l’evento, entro una cornice promozionale ben precisa; gli istituti scolastici coinvolti e i relativi docenti non stati in grado di cogliere, in anticipo, il rischio della macchinazione governativa nella quale sarebbero stati trascinati i propri allievi; specifici gruppi di interesse, dal canto loro, avevano tutto l’interesse a “corrompere” – sul piano emotivo e cognitivo – la più ampia platea possibile, mettendo in scena una rappresentazione in grado di convertire il veicolo di morte al centro della scena, il caccia F-35 – oggetto concepito per massimizzare le possibilità di annientamento del nemico – in una merce seducente, concessa allo spettatore nel pieno del proprio ammaliante fulgore, entro una posa capace di suscitare la massima dose di fascinazione. Morte e seduzione – sembra doveroso evidenziarlo – sono due domini attigui, separati da una linea di demarcazione impercettibile, sempre pronti, anzi naturalmente predisposti, a sconfinare l’uno nell’altro, sotto l’impulso di una strategia orientata allo scopo di produrre questo vicendevole slittamento, una tale diabolica con-fusione. Se fosse stata concessa la possibilità di accedere all’abitacolo del caccia, quale fra gli astanti – indipendentemente dall’età, che non costituisce discrimine significativo – non sarebbe salito a bordo di uno spaventoso e mirabolante F-35? Ebbene sì, la bellezza mortifera di un velivolo tanto letale corrompe.
L’allestimento decorativo che fa da cornice all’oggetto ne aumenta l’impatto seduttivo. La merce – quella buona – è tale perché ammicca. L’intero impianto sensoriale del soggetto (dello spettatore) è sopraffatto dalla sensualità dell’oggetto. Tale dinamica attrattiva dell’oggetto ne chiama in causa la forma quanto la sostanza: l’oggetto è prorompente, esagerato, scintillante. Esso sollecita, come ogni merce che si rispetti, una forma subliminale di erotomania – adulta o materna che sia, non fa differenza; contano entrambe. Questa merce, l’F-35, che resta uno dei mezzi più letali nelle mani dell’uomo, assume – guarda caso – una connotazione femminile: Meloni entra nell’abitacolo perché deve essere attraente; la premier può riuscire in tale scopo divenendo un tutt’uno con il proprio velivolo, con la propria merce: in un certo qual modo ne annette le qualità; ne assorbe parte del “potenziale contenuto”. Per converso, Meloni fornisce un aspetto, delle movenze, un’espressività corporea alla potenza oggettuale e statica del velivolo; il soggetto (Meloni) concede un’ulteriore espressività all’oggetto (il velivolo da guerra). In una parola: lo umanizza. Il soggetto dona all’oggetto un’ulteriore abilità comunicativa, un’innocua e accogliente familiarità, scandita da coinvolgenti sguardi e calorosi abbracci; il soggetto potenzia l’estetica dell’oggetto, conferendogli il linguaggio non verbale proprio dell’essere umano.
In tal modo, si stabilisce il reciproco e amorevole accoglimento tra la folla e la sua eroina. La potenza mortale, il grado estrema di fatalità, che l’F-35 porta con sé è riscritta, tradotta, entro due fondamentali registri: il primo è “erotico” e concerne le “zone erogene” del mezzo – le taglienti ali, il muso affilato, la dirompenza dei reattori e così via. In tal senso, il ricorso a una metafora ahinoi adeguata, ci consente di accostare il velivolo (l’oggetto) a una donna dal tono suadente e dalle curve mozzafiato. Il secondo registro è “romantico”, giacché introduce, tra la performer e gli spettatori, una dose addolcita di compresenza, di amorevole e compiaciuta accettazione, di apertura empatica; la donna (Meloni), oltre a poter sfoggiare le curve sbalorditive del suo supporto estetico (il velivolo da guerra) resta pur sempre madre: elargisce carezze e sorrisi ai bambini in platea.
L’invasione violentissima del mezzo mortale, chirurgico, crudele è regolata, nella produzione dell’immaginario collettivo, entro questi meccanismi. Il militarismo, per legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica, deve produrre fascinazione, deve alimentare un coinvolgimento che sia erotico e al contempo romantico, che dunque si ispiri, in via definitiva, alla logica delle merci. Assumendo tale approccio, l’apparato governativo e l’apparato militare tentano di legittimare e imporre una postura bellicista, confacente alle attuali condizioni e imposizioni geopolitiche.
Questa è la più ampia dinamica a cui abbiamo assistito la scorsa settimana, in occasione del centenario dalla nascita dell’aeronautica militare italiana. Tale celebrazione ha costituito il proscenio più adeguato alla rappresentazione che il soggetto governativo intendeva fornire di sé.
I bambini presenti alla suddetta celebrazione, non sono stati certamente trascinati in Piazza del Popolo contro la propria volontà; non v’è stata alcuna pressione costrittiva. La loro non era certamente la condizione dell’ostaggio[1]. Non sono stati costretti; essi, al contrario, sono stati sedotti. La seduzione non ha a che fare col sequestro, ma ha molto a che vedere con l’agguato: Qual è il modo più efficace di attrarre un infante, se non quello di allestire una mostra di velivoli tanto sofisticati quanto potenti? È lo stile glamour e feticista dell’expo. L’infante non sta nella pelle; non vede l’ora di lasciarsi avvinghiare dall’oggetto; non può far altro che donarsi, farsi catturare, da quella sontuosa iconografia, con al centro la sua perla, il velivolo più avanzato di cui dispone l’aeronautica militare italiana. Ad ammaliare l’occhio ingenuo e sincero del bambino è la sottile percezione che quel mezzo, collocato a pochi metri dal proprio corpo, effettivamente tangibile, a portata di mano, possa contenere una potenza difficilmente quantificabile. Lo scarto che intercorre fra la presenza immanente ed extra-ordinaria dell’F-35 e il potenziale inesprimibile che esso racchiude diviene fonte, pro-pulsione, di un’euforia tipicamente puerile, o al massimo di un pathos tutt’al più adolescenziale. E non è certamente cosa da poco.
Ora, la cifra costitutiva di una tale rappresentazione scenica sta nella seguente e precisa relazione (o disposizione): il soggetto Meloni è sovrapposto all’oggetto, l’F-35; l’uno diviene portatore, nonché riflesso, della potenza dell’altro. È una forma di propaganda comune più che altro ai regimi, che le democrazie prendono a prestito, applicando ad essa i necessari accorgimenti. Né più né meno.
Detto ciò, come si stabilisce, con esattezza, un tale assetto? Anzitutto si sovrappongono due segni: il primo tecnologico-militare, il mezzo da guerra; il secondo politico-governativo, la presidente del Consiglio. Quest’ultima, la presidente del Consiglio, è chiamata a personificare le qualità, i caratteri distintivi, dell’oggetto (l’F-35) a cui è associata. È una forma simbolica di machismo, che, nel caso preso in esame, è sussunta dal genere donna, attraverso la performance di Giorgia Meloni. La messa in scena ambisce a stabilire la piena compatibilità fra le due merci esposte (l’F-35 e la presidente del Consiglio). La manifestazione di giubilo in primis dei bambini (il terzo segno) conferma che l’operazione di mercato (la propaganda) ha avuto esito positivo. Il duplice rimando, fra due segni apparentemente inconciliabili, ha sortito l’effetto sperato, grazie alla necessaria apposizione del terzo segno, il quale riveste un’essenziale funzione confermativa.
La sagoma della presidente del Consiglio nell’abitacolo con-fonde il soggetto (Giorgia Meloni) e l’oggetto (l’F-35): il mezzo da guerra diviene il rivestimento estetico, una patina paradossalmente glamour e virile, che avvolge la premier e ne agghinda il profilo governativo di ulteriori doti: potenza, dinamicità, sofisticatezza, compattezza e, in fine, ma non per ordine di importanza, una più ampia a e profonda capacità di incidenza. Per converso, il mezzo da guerra, l’F-35, in quanto oggetto pubblicamente condiviso dalle istituzioni, è proposto, all’immaginario collettivo, come una merce equiparabile a qualsiasi altro bene di mercato: il velivolo letale, da arma confinata al perimetro militare e bellico, è esposto al centro della “vetrina urbana”, in Piazza del Popolo; esso invade, come mai prima d’ora, la società civile, i luoghi della storia e, inevitabilmente, gli spazi della cultura. Il mezzo da guerra è dunque normalizzato: la sua invadenza, la sua pacchiana sovraesposizione, non desta particolare clamore e men che meno riprovazione.
In questo specifico passaggio, si eleva il coro di incitamento alla premier: i bambini invocano il suo nome, perché sedotti dall’immagine in potenza della “donna virile”. Al contempo, quest’ultima, risponde al coro incitando la propria acclamazione. La leva euforica di questo simbolismo è mossa dall’effettiva, nonché ovvia, incapacità dei bambini di comprendere l’ “adescamento” compiuto ai propri danni. Costoro non sono in grado di distinguere con chiarezza gli orientamenti politici dai quali sono sollecitati; non sono in grado di “negoziare” la propria presenza all’interno di un cerimoniale (un’esibizione massimamente mediatica); non sono in grado di decifrare, in quel preciso istante, la loro funzione squisitamente politica. I bambini non colgono, in definitiva, il frame della propaganda nel quale sono inseriti. I giovanissimi allievi non hanno la capacità di visualizzare gli obiettivi che sottostanno al loro coinvolgimento, e, probabilmente, molti fra gli insegnanti, fra dirigenti scolastici e le famiglie degli alunni – al pari dei più giovani – non hanno saputo visualizzare, ne tantomeno percepire, tali obiettivi.
L’elemento manipolativo nel coinvolgimento degli alunni risiede proprio in questa mancanza, cioè nell’assenza di consapevolezza dell’infante. La presa di coscienza sarà, nel migliore dei casi, una presa di coscienza differita: un giorno, tra qualche tempo, quando il bambino non sarà più tale, e disporrà della necessaria maturità intellettuale, potrà legittimamente chiedersi: davvero ho preso parte a questo scempio? Perché mi avete coinvolto? Chi ve lo ha concesso? Ero un mezzo per cosa..?
La scelta di abbellire la scenografia di un evento pubblico ricorrendo a un coro di bambini urlanti, festosi, che patriotticamente sventolano bandierine tricolore, è ormai riproposta con una significativa frequenza. La compagine politica dei “normalizzatori” riterrà che il fatto analizzato in questa sede abbia ben poco valore: che male c’è a intonare l’inno d’Italia in divisa, mano sul petto?
Oppure: che male c’è a scandire il nome della Signora Presidente del Consiglio ai comandi di un F35? Per costoro, pare sia invece normale “deportare” un’intera scolaresca di bambini in Piazza del Popolo, al cospetto di un F-35, oggetto apocalittico presieduto dai suoi più fedeli araldi, Giorgia Meloni e Guido Crosetto. Esiste un modo migliore per suggestionare l’atteggiamento di un bambino e condizionarne la condotta? Probabilmente no.
Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha dichiarato che «è fisiologico procedere a un continuo ripianamento delle scorte, sia per termine di vita operativo sia per ammodernamento, a prescindere dall’esigenza ucraina». E quindi, ben vengano gli investimenti in armi – d’altra parte, Crosetto è stato presidente dell’AIAD, che è l’equivalente della Confindustria nel settore della Difesa.
Detto ciò, i bambini che acclamavano Giorgia Meloni non erano in grado di comprendere le cause oggettive e gli effetti attesi della loro partecipazione; gli adulti che li accompagnavano invece sì. Essi erano chiamati a farlo. Avrebbero dovuto interpretare con tempestività ed estrema accortezza la prassi diseducativa che avrebbe coinvolto i propri alunni. Gli insegnanti che consentono ai propri allievi di farsi contagiare – sul piano emozionale e concettuale – da istanze e finalità politiche, delle quali non comprendono il cinismo, l’opportunismo e la strumentalizzazione, possono essere considerati profili educativi adeguati al ruolo che ricoprono? Permettere che si dispieghi dalle fila dei propri studenti un inno rivolto alla presidente del Consiglio non è un tema sul quale sono chiamati quantomeno a riflettere? Una cosa è certamente vera: la folla ha le sue dinamiche ed è regolata da una propria psicologia, ma non coglierne il rischio denota un’insufficiente accortezza e scarsissime capacità di lettura. Nel caso opposto, gli educatori che hanno colto tale rischio, ma non hanno avuto il coraggio o la prontezza nel sollevare il problema, non possono che certificare l’assoluta inattitudine al proprio lavoro. Da ciò non deriva un’amara conclusione: gli adulti, in particolar modo gli insegnanti che non si oppongono a tali indecorose messe in scena, non sono degni di ricoprire il proprio ruolo e non introducono certamente i propri allievi a una corretta comprensione della realtà. Avrebbero dovuto escludere i più piccoli da un’indegna kermesse, che ha posto al centro della scena un assoluto e sovrastante protagonista, uno fra i più letali mezzi da guerra a disposizione delle potenze occidentali.
In conclusione, la priorità degli educatori dovrebbe essere solamente una: tutelare l’innocenza intellettuale dei propri discenti da coloro che vogliono colonizzarne la psiche.
Note:
[1] L’ostaggio, a ragion veduta, è tipicamente concepito come soggetto conscio della propria condizione. A partire dalle proprie limitate risorse, egli percepisce il vincolo a cui è arbitrariamente sottoposto, e dunque ne comprende la causa, o tenta quantomeno di comprenderla. L’ostaggio sa di essere, gioco-forza, un oggetto orientativamente statico, nella misura in cui il proprio margine d’azione è estremamente ridotto. Da ciò ne deriva, per l’ostaggio, un’immane sofferenza e un disperato senso di impotenza. La presa in ostaggio, nella stragrande maggioranza dei casi, non si attiene e non si verifica entro una prassi manipolativa o coercitiva; l’ostaggio non è oggetto di manipolazione o destinatario di coercizione. L’ostaggio subisce la forza bruta; azione che implica, nel suo farsi, la brutalità del sequestro, lo strappo non ricucibile.
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