“Tenere una persona in prigione per tutta la vita è inumano e contrasta con l’articolo 27 della Costituzione”. Dagli aspetti inumani del carcere duro al principio di uguaglianza non rispettato, l’ex magistrato Gherardo Colombo nel nuovo saggio “Anti Costituzione” passa in rassegna i tradimenti dei principi della Carta, “la nostra prima legge”.
di Federica Farina
È un’opera che rende chiaro a tutti quanta distanza ci sia tra quello che scrissero i Costituenti e la prassi odierna. È il nuovo libro del giurista ed ex magistrato Gherardo Colombo, “Anti Costituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società” (Garzanti). Ne abbiamo parlato con l’autore.
Gherardo Colombo, la Costituzione è un tema fondamentale che ricorre nei suoi scritti ma sono in pochi a conoscerla davvero. Perché è così importante conoscere la Carta?
Perché è la nostra prima legge e se non la si conosce non la si può osservare. La Costituzione ci parla delle relazioni tra gli esseri umani, si riferisce – direttamente o meno – a tutto quel che facciamo. E non consente che le altre leggi la trasgrediscano, perché in caso contrario il loro destino consiste nell’essere espulse dall’ordinamento. Sarebbe necessario conoscerla, ma non avviene.
No, infatti a scuola non si studia. Non fa parte del programma di diritto…
Dovrebbe essere insegnata a cominciare dalle elementari, non si tratta solo del programma di diritto. La Costituzione può essere insegnata anche senza citarla, ma facendo riferimento al suo contenuto, in qualsiasi disciplina, soprattutto in quelle umanistiche: c’è tanto della Costituzione nei Promessi Sposi, o nella filosofia di Socrate, per dire. Un’occasione importante per dedicarsi ad essa direttamente è l’introduzione, come materia a sé, dell’educazione civica. Ma, a parte il fatto che l’oggetto della nuova disciplina è troppo vasto – comprende perfino l’educazione alla tutela delle “eccellenze territoriali e agroalimentari” – dipende poi sempre da come il tema viene affrontato: per capire la Costituzione occorre entrare nel suo “spirito”, vederla per quel che è: un sistema di vita piuttosto che una serie di articoli dei quali non si capiscono collegamenti e interrelazioni. E se ai docenti non si dà una mano perché la facciano propria, è difficile che le cose possano cambiare.
Non ci si rende conto quindi di come quel testo sia qualcosa di estremamente concreto e che, come ha detto lei, riguarda proprio le relazioni tra gli esseri umani?
Sì, ribadisco, si riferisce alle relazioni umane, avendo come punto di partenza il riconoscimento della pari dignità di ogni persona e conseguentemente della possibilità, per ciascuno, di avere opportunità per la propria realizzazione. Uguaglianza davanti alla legge vuol dire questo: nessuna caratteristica personale deve penalizzare, nessuno può essere discriminato.
Il principio di uguaglianza, come lei dice, è il “caposaldo”, la “pietra angolare” della Costituzione, ma nella pratica non viene rispettato. Vediamo ogni giorno discriminazioni verso le donne, i migranti, verso chi ha minori possibilità economiche. Perché?
Vorrei sottolineare che il principio di uguaglianza non contraddice il fatto che siamo tutti diversi, lei per esempio è donna e io uomo, lei è giovane e io vecchio. Riguarda però le possibilità, i diritti e i doveri. L’ostacolo al riconoscimento della stessa dignità a ciascuna persona, qualunque sia la sua specificità, credo sia soprattutto culturale: fino a un attimo prima dell’entrata in vigore della Costituzione, salvo rarissime eccezioni, il principio fondamentale dell’aggregazione sociale era costituito dalla discriminazione. Pensiamo alla legge che escludeva dalle scuole i bambini ebrei: precede di soli otto anni l’elezione di chi avrebbe scritto la Costituzione. E l’elezione è stata la prima occasione in cui le donne hanno potuto votare. La discriminazione, purtroppo però è proseguita anche dopo: ci sono voluti 27 anni dall’entrata in vigore della Costituzione perché venisse riconosciuta la parità di genere in famiglia. Fino al 1975 infatti il codice civile diceva che “il marito è il capo della famiglia; la moglie… è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza” (articolo 144). Solo da allora la legge ha messo i coniugi sullo stesso piano. Perché questo ritardo? Perché il modo di pensare della gente faceva resistenza al cambiamento: hanno giocato un ruolo pesante la tradizione, il passato che ci ha educati per millenni, ma anche l’attaccamento al potere da parte di chi lo detiene.
Quindi il principio di uguaglianza non viene applicato perché a tanti non conviene?
A chi si trova in una posizione superiore sulla scala sociale non conviene distribuire equamente i diritti tra tutti. Ma solo apparentemente. Se siamo sull’orlo di una guerra nucleare è proprio per via della discriminazione, del non riconoscere i diritti degli altri. La soluzione – insisto – sta nell’educazione, nella conoscenza, nella consapevolezza: la cultura si cambia nel momento in cui si capisce che sarebbe meglio fare diversamente. Bisognerebbe partire dalle scuole anche perché per gli adulti cambiare è più difficile, dovrebbero mettere in crisi parti consistenti del proprio passato. Si può sempre cambiare ma è più facile per chi ha una storia personale breve dietro le spalle.
A proposito di difficoltà, sembra che sia diventato molto difficile per gli italiani andare a votare. Lei a proposito dell’articolo 1 scrive: “La sovranità appartiene al popolo che tende ad evitare di esercitarla per non essere chiamato a risponderne”. Perché non si esercita più la sovranità? È dovuto alla perdita di un ideale?
La gente non vuole esercitare la sovranità perché è comodo, perché la responsabilità fa paura. Molto meglio lamentarsi di quel che fanno gli altri piuttosto che essere chiamati a dare le ragioni delle proprie decisioni. Pigrizia e viltà sono le ragioni per cui tanta parte dell’umanità rimarrebbe volentieri minorenne a vita, sostiene Kant in Che cos’è l’illuminismo. Se c’è la mamma che decide per me, io non devo preoccuparmi di farlo. Ma se al mio posto pensa e agisce qualcun altro, la democrazia non esiste. Per riattivare la partecipazione è necessario innanzitutto comprendere il legame che esiste tra l’impegno, la partecipazione e l’esercizio effettivo della democrazia. Abbiamo visto quanto vasto sia stato l’astensionismo alle regionali del Lazio e della Lombardia. Ci sarà stato qualcuno che non è andato a votare perché ha preferito fare altro, ma sicuramente in tanti non hanno votato perché hanno ritenuto di non essere rappresentati da nessuno dei candidati in lizza. Queste persone sono state confuse con gli indifferenti, e chi fa politica può tranquillamente non tenerne conto. Pensi che differenza se invece di astenersi milioni di persone avessero messo nell’urna una scheda bianca! La politica avrebbe dovuto tenerne conto.
Un altro articolo su cui si è concentrato nel libro e in cui ha messo in evidenza quanto la prassi oggi sia diversa da quello che aveva previsto la Costituzione è l’articolo 27…
Quello che scrivo arriva dalla mia esperienza. Se si legge la Costituzione e poi si entra in carcere, si vede subito che quello che succede nei fatti è completamente diverso da quel che sta scritto nella Carta. Se si rispettasse, ci guadagneremmo tutti perché avremmo più sicurezza e coloro che escono dal carcere sarebbero più spesso capaci di vivere positivamente con gli altri. Ma non è la sicurezza che ci interessa, vogliamo soltanto essere rassicurati, e la rassicurazione riguarda la pancia e non la testa. Se i colpevoli stanno in carcere noi siamo innocenti, e se il lupo sta in gabbia non può farmi male. Ma in gabbia deve soffrire, perché voglio vendicarmi di quello che ha fatto. Solo che però, salvo che per reati gravissimi, ad un certo punto esce, ed esce più rancoroso di quando ci è entrato (e più preparato “professionalmente”).
Sembra che ci sia un po’ una morale religiosa in questa logica punitiva. Pensa che sia anche la matrice cattolica ad alimentare questa cultura?
Spesso le religioni raffigurano Dio come colui che punisce, magari applicando la regola “occhio per occhio, dente per dente”. Nel cristianesimo c’era la cosiddetta santa Inquisizione che bruciava vivi gli eretici sulle pubbliche piazze, e chi assisteva ai roghi era generalmente contento.
Bisogna lavorare perché le persone non vengano degradate a cose, scrive nel suo libro, e questo pensiero mi sembra esprima bene l’essenza del garantismo. Può dirci di più?
Le garanzie sono la forma attraverso la quale si tutela la sostanza. La sostanza è il rispetto della persona, che deve valere sia prima che dopo la condanna. Il garantismo spesso non viene capito, viene associato al buonismo. Perché? La “cattiveria” ora va molto di moda, una volta a scuola ci insegnavano ad essere buoni. La parola cattiveria, “disposizione a far male al prossimo”, ovvero “atto provocato da malvagità o malanimo” (cito dal dizionario Devoto-Oli online) è apprezzata al punto da sostituire altre parole: i commentatori sportivi usano “cattivo” al posto di “determinato”, per esempio. Ed allora, per dispregio, bontà diventa buonismo. Le parole sono importanti, contribuiscono a creare la cultura, ad influenzare i comportamenti. Se ci si abitua a pensare che la “cattiveria” è giusta, può essere esercitata senza limiti.
La situazione nelle carceri appare in netto contrasto con quanto disposto dalla Costituzione. Oggi si parla molto di ergastolo e di 41-bis. Cosa pensa di questi istituti e della vicenda Cospito?
Credo che tenere in prigione una persona per tutta la vita, a prescindere dalla verifica della sua attuale pericolosità, sia inumano e contrasti con l’articolo 27 della Costituzione. Credo anche che per poter parlare dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario si dovrebbe sapere in che cosa consiste, bisognerebbe almeno leggerlo. È lo stesso problema che riguarda la Costituzione: se ne parla, ma si conosce poco o per nulla. Per sintetizzare: l’articolo stabilisce che le garanzie dell’ordinamento penitenziario possono essere disapplicate per gravi motivi di ordine e sicurezza, o per impedire i collegamenti con l’associazione criminosa di cui si fa parte. Ora, credo sia giusto impedire i contatti con l’esterno quando questi potrebbero essere indirizzati a far male a qualcuno. Il boss della mafia non deve poter dare ordini ai suoi accoliti.
Però mi sembrano in contrasto con la Costituzione tutte le misure che l’articolo dispone – o non impedisce che siano adottate – rendendo più afflittivo il carcere senza che esista un nesso tra tali misure e l’esigenza di impedire i contatti. Non capisco cosa c’entri con i contatti esterni il divieto di tenere più di quattro libri in cella, di appendere alle pareti più di una fotografia, per esempio. Mi pare che siano previsioni dirette soltanto a far soffrire
La riflessione, peraltro, deve riguardare il carcere nel suo complesso. A me pare che sia dimostrato scientificamente che non si educa – se non, eventualmente, a obbedire – attraverso la minaccia di una pena o la sua applicazione: quasi il 70% delle persone che escono dal carcere ci ritornano per aver commesso nuovi reati. Ho smesso di fare il magistrato anche per questo motivo. Penso che si debba fare in modo che le persone osservino le regole perché le condividono, non perché hanno paura, e la strada è quella dell’educazione, dell’agire sulla cultura.