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Tutte le anomalie dello stato di emergenza per i migranti

Come funziona l’accoglienza degli immigrati in Italia e cosa cambierà con lo stato di emergenza e la nuova riforma voluta dal governo Meloni

di Annalisa Camilli

Il sole si riflette sulle coperte termiche color oro che avvolgono le spalle dei migranti appena attraccati con una motovedetta della guardia costiera italiana al molo Favarolo di Lampedusa. Gli ultimi trentaquattro sono arrivati nel pomeriggio del 24 aprile e sono stati messi in fila sulla banchina, che è di nuovo affollata. I soccorsi però non si sono fermati a causa di tre nuovi naufragi al largo dell’isola siciliana: i dispersi sono almeno venti, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Il giorno prima erano arrivate sull’isola 819 persone a bordo di ventuno imbarcazioni.

“Sappiamo che con il prossimo sbarco della guardia costiera arriverà anche un cadavere, quello di una donna annegata durante i soccorsi”, afferma Giovanni D’Ambrosio, operatore di Mediterranean Hope, sempre presente al molo. Dopo Pasqua, con la prima finestra di bel tempo, sono ricominciati gli arrivi: “Scappano dalla Tunisia: due ragazzi subsahariani ci hanno raccontato di essere stati picchiati dalla polizia tunisina, senza motivo. Solo perché erano neri. E questi racconti sono sempre più frequenti”.

L’11 aprile il governo italiano ha annunciato lo “stato di emergenza su tutto il territorio nazionale per fronteggiare l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti”. Ma sulla piccola isola siciliana – più vicina alla Tunisia che all’Italia – le procedure allo sbarco non sembrano essere cambiate. “Come operatori all’accoglienza ci siamo solo noi di Mediterranean Hope e i volontari del Forum Lampedusa solidale”, afferma D’Ambrosio. “Le persone non sono trattate come dei sopravvissuti, ma come dei criminali. Il tutto è gestito come un’operazione di polizia”, racconta. Le forze dell’ordine coordinano le procedure di sbarco, poi ci sono otto agenti di Frontex e gli operatori dell’Unhcr. “Ma a volte le persone sono trasferite dal molo all’hotspot dopo molte ore e spesso non gli viene data nemmeno una bottiglietta d’acqua”, racconta D’Ambrosio.

L’emendamento al cosiddetto decreto Cutro, presentato dalla maggioranza dopo il naufragio sulla spiaggia di Steccato di Cutro e approvato dal senato il 20 aprile, prevede che l’hotspot di Lampedusa sia gestito dalla Croce rossa e che sia aggiunto un traghetto per trasferire i profughi dall’isola alla terraferma. Ma gli operatori continuano a denunciare i trasferimenti fatti con il contagocce e le condizioni inumane dell’hotspot di Contrada Imbriacola, un centro di identificazione in cui i migranti sono rinchiusi e da cui non possono uscire.

“Ci sono più di 1.200 persone in una struttura che potrebbe contenerne al massimo 350. I minori non accompagnati sono 280 e i bambini sono una trentina”, racconta Giovanna Di Benedetto, portavoce di Save the children. I bagni sono inservibili, c’è promiscuità, mancano i servizi igienico-sanitari di base. È un centro che dovrebbe ospitare i richiedenti asilo per pochi giorni e invece finisce per ospitarli per diverse settimane, anche mesi.

Niente posti per i minori

Dal 2018 – in seguito all’approvazione dei cosiddetti decreti Salvini – nel sistema di accoglienza italiano si sono ridotti drasticamente i posti per i minori e così, ora che sono aumentati di nuovo gli arrivi, i minorenni aspettano per giorni in strutture fatiscenti e inadeguate come l’hotspot di Lampedusa oppure come la tensostruttura che è stata costruita sul molo di Roccella Ionica, in Calabria.

“Così si è creata una situazione paradossale: i più vulnerabili rimangono nelle strutture, dove non sono garantiti i loro diritti fondamentali, perché non si trovano i posti per loro nella prima accoglienza. Alcuni minori sono stati trattenuti nell’hotspot per più di un mese”, continua l’operatrice che ha un’esperienza decennale negli sbarchi sulle coste italiane.

Nel suo rapporto Nascosti in piena vista – Frontiera sud, pubblicato nel febbraio del 2023, Save the children denuncia proprio la mancanza strutturale di posti per i minorenni, nonostante gli arrivi siano stabili da tempo. “Negli ultimi dieci anni sono arrivati in Italia via mare da soli 103.842 minori stranieri non accompagnati – prevalentemente adolescenti e preadolescenti, ma non di rado anche bambini – con una media di 15mila presenze annue”, specifica il rapporto.

Nonostante i minori non accompagnati siano quindi una presenza regolare nel paese, non sono mai nati i centri governativi di prima accoglienza previsti dalla legge. “E anche i Centri di accoglienza straordinaria (Cas), che dovrebbero rappresentare la soluzione estrema, contavano al 31 dicembre 2021 soltanto 519 posti”. Infine, sempre secondo il rapporto, dal 2018 al 2021 i minorenni non sono stati distribuiti sull’intero territorio nazionale, ma sono rimasti concentrati nelle strutture del sud, in particolare in Sicilia e in Calabria.

Le cose non sono andate meglio per gli adulti. Il 30 marzo la Corte europea per i diritti umani ha condannato l’Italia per il trattamento riservato a quattro ragazzi tunisini nell’ottobre del 2017 proprio nell’hotspot di Lampedusa. I quattro, che erano sopravvissuti a un naufragio, erano stati trasferiti nel centro di prima accoglienza dell’isola e lì erano stati trattenuti per dieci giorni, senza ricevere informazioni sulla possibilità di chiedere asilo, in condizioni di estremo disagio, dormendo all’aperto, senza bagni funzionanti. Successivamente sono stati costretti a firmare la notifica di un provvedimento di respingimento di cui non hanno ricevuto copia, poi sono stati trasferiti all’aeroporto di Palermo, ammanettati con le fascette di velcro, e rimpatriati in Tunisia il giorno stesso.

La corte ha stabilito che i quattro tunisini sono stati sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, a detenzione arbitraria oltre il limite stabilito dalla legge e infine sono stati vittima di respingimento collettivo, vietato dalle norme internazionali, perché non sono stati valutati caso per caso. Per questo Roma li dovrà risarcire.

Per l’ex capo di gabinetto del ministero dell’interno ed ex capo dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione Mario Morcone, Lampedusa ha bisogno di un’attenzione speciale. In particolare ci dovrebbe sempre essere un delegato del ministero dell’interno a controllare che siano forniti i servizi primari ai migranti appena arrivati: “C’è sicuramente un capitolato di spesa che prevede che siano distribuiti beni di prima necessità come abiti puliti e scarpe, ma bisognerebbe che qualcuno controllasse. La prefettura di Agrigento, che è competente per l’hotspot, è lontana”.

“Oggi non sappiamo quali siano le condizioni nei centri di accoglienza, perché non ci sono ispezioni da parte delle autorità”, conferma Fabrizio Coresi, esperto di Action Aid, tra gli autori del rapporto Centri d’Italia, che offre un monitoraggio costante della situazione. “Dalle nostre rilevazioni, che risalgono però al 2019, ci risulta che tredici prefetture non hanno mai fatto ispezioni. Tra queste c’è la prefettura di Agrigento”.

Sappiamo però che per la struttura di Lampedusa la spesa pubblica pro capite al giorno è passata dai circa 36 euro del 2018 ai 17,91 del 2021, una diminuzione di quasi il cinquanta per cento. “Un taglio alla spesa importante in linea con quanto avvenuto a livello nazionale dopo i decreti sicurezza del 2018”, spiega Coresi.

Da allora c’è stata una riduzione generalizzata dei posti nell’accoglienza in Italia: nel sistema gestito direttamente dal ministero dell’interno si è passati dai 125mila posti a disposizione nel 2018 a cinquantamila posti nel 2021. Mentre sono quattromila i posti persi dal 2018 al 2020 nel sistema gestito dai comuni (l’ex Sprar, oggi Sai). Posti che sono stati poi lentamente recuperati a partire dal 2020 con il cosiddetto decreto Lamorgese, che ha modificato i decreti Salvini. “In particolare c’è stato un crollo importante dei posti disponibili nei centri di piccole dimensioni”, continua Coresi.

“Con la diminuzione degli arrivi si sarebbe dovuto andare a potenziare i centri di accoglienza più piccoli, più a misura umana. Invece le cose sono andate esattamente in direzione opposta”, conclude il ricercatore, secondo cui l’approccio nella gestione dell’accoglienza è ideologico e per questo inefficace: la situazione precipita quando gli arrivi aumentano. “Inoltre c’è un’assoluta mancanza di trasparenza rispetto a come sono gestiti i centri”, continua il ricercatore.

Secondo una relazione al parlamento dell’agosto del 2018, quando era ministro dell’interno Matteo Salvini, era preferibile incentivare la micro-accoglienza diffusa. “Ma invece, tre mesi dopo, è stata varata una riforma (il primo decreto sicurezza) che premiava i grandi centri gestiti dai prefetti, i Cas”.

Con il decreto del 2018 inoltre sono stati tagliati i fondi destinati all’accoglienza: “I centri sono diventati dei semplici alloggi e hanno smesso di offrire corsi d’italiano o di formazione, un’assistenza più completa oltre al vitto e all’alloggio”. La conseguenza è che molte piccole associazioni non profit si sono tirate fuori dal mercato, mentre sono rimaste le grandi aziende a scopo di lucro, che hanno abbassato la qualità e la quantità dei servizi offerti.

Uno stato di emergenza anomalo

Per giustificare la dichiarazione di stato d’emergenza dell’11 aprile, l’esecutivo ha sostenuto che i centri di prima accoglienza, e in particolare l’hotspot di Lampedusa, si trovino in un gravissimo stato di sovraffollamento. Per questo ha annunciato di voler costruire nuove strutture sia di prima accoglienza sia di detenzione e rimpatrio.

Eppure, fa notare Openpolis, a dieci giorni di distanza da quell’annuncio non è stata attivata nessuna procedura ufficiale e nella Gazzetta ufficiale non è stato pubblicato alcun documento. “Quando fu dichiarato lo stato di emergenza in risposta alla crisi da covid-19, la delibera venne pubblicata in gazzetta ufficiale il giorno successivo alla sua adozione in consiglio dei ministri”, scrive Openpolis.

Il 16 aprile, inoltre, è stato nominato un commissario, Valerio Valenti, per gestire la supposta emergenza migranti: ma “anche dell’ordinanza con cui Valenti è stato nominato commissario, per giorni non c’è traccia nei documenti pubblici”. Solo il 19 aprile è stata pubblicata la notizia in Gazzetta ufficiale: “Da questo documento è possibile avere finalmente alcune informazioni ufficiali su come dovrebbero funzionare commissariamento e stato di emergenza. Altre informazioni però restano ancora non disponibili”.

C’è inoltre un’incongruenza sui limiti territoriali di applicazione dello stato di emergenza: nel titolo dell’ordinanza di nomina di Valenti si dice che lo stato di emergenza varrà solo per sedici regioni, perché Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Toscana, Puglia e Campania si sono rifiutate di collaborare attraverso i pareri espressi dai presidenti di queste regioni.

“Eppure tutte le fonti ufficiali disponibili confermano che il consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza sull’intero territorio nazionale. Sembra dunque che ci troviamo nella strana situazione in cui l’emergenza nazionale risulta attiva su tutto il territorio, ma il commissario opera solo in alcune regioni”, sottolinea Openpolis.

Lo stato di emergenza permetterà di snellire le procedure per gli appalti e di andare in deroga sulle norme. Ma in molti sostengono che la normativa già in vigore avrebbe comunque consentito procedure in ogni caso più veloci.

Verso un modello ungherese

Per lo storico Michele Colucci, autore del libro Storia dell’immigrazione straniera in Italia, lo stato di emergenza è stato una misura “permanente” degli ultimi venticinque anni nella gestione del fenomeno migratorio: “La prima volta fu adottato nel 1997 con gli sbarchi degli albanesi in Puglia, poi nuovamente nel 2002. Fu rinnovato nel 2007. Nel febbraio del 2008 fu limitato alla Puglia, Sicilia e Calabria. Quindi sempre nel 2008 l’ex ministro dell’interno Roberto Maroni lo estese di nuovo al territorio nazionale, intrecciandolo con il pacchetto sicurezza. Infine nel 2011, il governo Berlusconi lo usò per gestire gli arrivi straordinari dal Nordafrica, in seguito alle primavere arabe”.

È servito a mettere in mano alle prefetture la costruzione dei centri e la loro gestione, liberando tutte le gare di appalto dalle norme e dalle procedure: “Anche per questo a un certo punto ha generato diversi scandali. È stato il motivo per cui sono state aperte diverse inchieste. Le più famose sono Mafia capitale e quella sul Cara di Mineo, in Sicilia”. Per questo dal 2011 si è tentato di rafforzare la gestione ordinaria, con un ruolo centrale previsto per i comuni e le amministrazioni locali.

Per Filippo Coresi di Action aid tutta la materia dell’accoglienza è sempre stata gestita in Italia con procedure straordinarie: “Lo stato di emergenza serve ad andare in deroga a tutte le norme sugli appalti per costruire centri di accoglienza e centri di detenzione. Questo è molto pericoloso e in passato ha portato a degli abusi”.

Il ricercatore spiega che si sta andando verso un modello di detenzione diffusa di tutti i richiedenti asilo – in centri chiusi o hotspot – come avviene di fatto già in Grecia e in Ungheria. Secondo uno studio di Giuseppe Campesi dell’università di Bari, l’Italia potrebbe arrivare a sottoporre a un regime di detenzione amministrativa più di 72mila richiedenti asilo. “Un progetto allarmante, ma per certi versi molto difficile da attuare dal punto di vista concreto”, conclude Coresi.

“L’Italia sta andando verso il modello ungherese”, concorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste. Secondo Schiavone, con la nuova norma non solo si tornerà indietro al 2018, ma si andrà verso un drastico peggioramento. “Non si tornerà soltanto ai Centri straordinari, cioè dei grandi centri con pochi servizi. L’attuale governo vuole una progressiva apertura di centri chiusi per il confinamento e la segregazione dei richiedenti asilo negli hotspot e nei Centri di permanenza per i rimpatri. Si va verso la detenzione diffusa di tutti i richiedenti asilo”.

da L’Essenziale

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