Migranti, accoglienza e reclusione. Breve storia della detenzione amministrativa
Controllo, espulsione, contenimento, sorveglianza, sicurezza: queste parole si affacciano nel linguaggio della politica italiana nella seconda metà degli anni Novanta in modo sempre più ricorrente.
di Michele Colucci
Non si tratta di una novità. Sono parole che iniziano a essere utilizzate sistematicamente già alla fine degli anni Ottanta, quando l’immigrazione straniera si accingeva a diventare una grande questione nazionale. La presenza di movimenti antirazzisti organizzati, l’esposizione in senso politico dell’associazionismo sociale e sindacale, la sopravvivenza di culture universaliste e internazionaliste avevano garantito tuttavia nella prima metà degli anni Novanta la tenuta complessiva del discorso pubblico, ancora non sbilanciato del tutto verso un approccio e un linguaggio apertamente ostili all’immigrazione.
A segnare la svolta non è solo il passaggio linguistico: dalle parole si passa rapidamente ai fatti. Nel 1998, l’introduzione all’interno della legge Turco-Napolitano dei centri di permanenza temporanea rappresenta il compimento di questa transizione. I primi undici articoli della legge trattano i principi generali, i diritti e i doveri dello straniero, le politiche migratorie, l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento, il permesso e la carta di soggiorno, il controllo delle frontiere, le disposizioni contro l’immigrazione clandestina e l’espulsione amministrativa. Giunto all’articolo 12, il testo si concentra sull’esecuzione dell’espulsione. Il comma 1 dell’articolo presenta la circostanza che introduce il trattenimento nei centri: “Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento […], il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell’Interno”.
L’iniziativa del trattenimento viene quindi presa dal questore, ma la sua convalida deve essere disposta dal pretore, come specificato al comma 4. Quanto dura il periodo di permanenza nei centri? Trenta giorni a partire dalla convalida, la risposta è contenuta nel comma 5: “La convalida comporta la permanenza nel centro per un periodo di complessivi venti giorni. Su richiesta del questore, il pretore può prorogare il termine sino a un massimo di ulteriori dieci giorni, qualora sia imminente l’eliminazione dell’impedimento all’espulsione o al respingimento. Anche prima di tale termine, il questore esegue l’espulsione o il respingimento non appena è possibile”.
Ma i centri di permanenza temporanea sono luoghi aperti, dai quali è possibile entrare o uscire liberamente? Assolutamente no, sono centri di detenzione, come viene esplicitato al comma 7: “Il questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura nel caso questa venga violata”.
Con pochi tratti di penna, la legge del 1998 spalanca le porte in Italia all’introduzione della detenzione per irregolarità di tipo amministrativo, costruita nello specifico solo per una parte della popolazione: gli stranieri. Da quel momento in poi, sarà impossibile tornare indietro, anzi le forme di internamento, detenzione e trattenimento per la popolazione straniera aumenteranno nel corso del tempo. D’altronde è proprio la detenzione amministrativa che viene riconosciuta e in qualche modo rivendicata dagli stessi estensori della legge, anche molto tempo dopo la sua introduzione. Intervistata nel 2004 da Medici Senza Frontiere all’interno di un Rapporto sui centri di permanenza, Livia Turco affermerà: “Invito ad avere un atteggiamento pragmatico ed evitare qualsiasi presa di posizione pregiudizialmente contraria all’ipotesi della ‘detenzione amministrativa’. A mio avviso infatti, attualmente, la strada dell’abolizione dei centri, soprattutto in ragione dell’impostazione della normativa europea, è assolutamente non percorribile”.
La scelta del 1998 rappresenta l’evoluzione e il compimento di un provvedimento adottato già nel 1995, che prevedeva per la sola regione Puglia l’apertura di tre centri pensati per “gruppi di stranieri privi di qualsiasi mezzo di sostentamento e in attesa di identificazione o espulsione”, secondo la legge 563 del 1995. Fin da quell’anno la strategia messa in campo con l’apertura dei centri è strettamente legata alle due principali preoccupazioni che agitano le classi dirigenti e monopolizzano il dibattito sull’immigrazione: il controllo delle frontiere in ingresso, da un lato, e l’allontanamento delle persone prive di documenti regolari, dall’altro. A seconda delle esigenze e delle stagioni, l’organizzazione dei centri dipende strettamente da queste due funzioni. La dislocazione sul territorio nazionale dei centri di permanenza rivela questa duplice vocazione. I centri sorgono infatti o nelle zone dell’Italia dove sono più frequenti gli arrivi e i transiti di cittadini stranieri (Agrigento, Caltanissetta, Trapani, Lecce, Lamezia Terme, Brindisi, Gorizia) o nelle zone urbane dove è più presente e radicata l’immigrazione straniera (Torino, Milano, Modena, Roma, Bologna).
In due casi i centri di permanenza temporanea vengono costruiti a ridosso di importanti alloggiamenti della polizia e delle forze armate: il Cpt di Ponte Galeria a Roma convive fianco a fianco con il Primo reparto mobile della polizia e il Cpt di Restinco a Brindisi dista un paio di chilometri dalla caserma dove ha sede il Battaglione San Marco.
Inaugurati nel corso del 1998, i centri di permanenza temporanea svelano immediatamente il loro vero volto. Sono numerosi e documentati gli abusi e le violazioni dei diritti fondamentali, dentro una forma di detenzione in cui i margini di discrezionalità tendono a essere dilaganti, per cui accade di frequente che molti reclusi che hanno già attraversato l’esperienza del carcere dichiarano che i centri di permanenza temporanea sono addirittura peggiori delle prigioni.
Oltre alle polemiche sulle condizioni in cui vengono tenute le persone detenute, scoppiano proteste sulle opacità nella gestione dei centri, che vengono generosamente finanziati dal governo. Il caso più conosciuto, grazie alle denunce sui maltrattamenti e sulle clientele nella gestione dei servizi, è quello di San Foca, nel Leccese.
La resistenza e l’opposizione ai Cpt rappresentano una delle battaglie più sentite dai movimenti sociali tra il 1998 e il 1999. Il movimento antirazzista sviluppa per l’occasione una profonda spaccatura tra favorevoli e contrari alla legge: il tema dei centri è uno dei più dibattuti, insieme al diritto di voto amministrativo alle elezioni locali per i cittadini stranieri residenti, inizialmente comparso nelle discussioni parlamentari ma poi espulso dal testo legislativo. La mobilitazione è intensa nei primi mesi del ’98 e non accenna a diminuire dopo il 12 marzo, data in cui la Turco-Napolitano viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Il momento più intenso è in autunno, in particolare il 24 ottobre, quando vengono organizzate proteste di fronte ai centri di Trieste, Milano, Torino e Ponte Galeria.
Nel corso del 1999 tuttavia il quadro inizia a cambiare. La mobilitazione assume un carattere meno organico a livello nazionale: la pressione sociale e politica diminuisce. L’apertura dei centri poteva sembrare inizialmente come un’eccezione destinata a rientrare: la stessa legittimità a livello giuridico aveva vacillato ben prima della loro apertura, ma nel giro di pochi mesi i rapporti di forza cambiano. Con il calare della tensione, i centri mettono radici più solide, si irrigidiscono i dispositivi di controllo delle forze dell’ordine, diminuiscono le possibilità per gli osservatori esterni di monitorare le condizioni di vita dei reclusi. I centri rapidamente assumono un ruolo centrale nella gestione delle politiche migratorie, non solo in merito all’espletamento delle procedure preliminari all’espulsione. Perché avviene tutto ciò? Cosa è successo nel frattempo?
Possiamo individuare tre risposte. La prima: il variegato mondo dell’associazionismo proprio in quegli anni matura in modo sempre più diffuso il passaggio dall’impegno politico antirazzista alla co-gestione delle politiche migratorie, soprattutto in tema di assistenza. Le prime forme organiche di delega al terzo settore delle politiche sociali si sviluppano nello stesso periodo. Inizialmente la parte maggioritaria del mondo del volontariato rifiuta di prendere in carico i Cpt, in gran parte affidati alla Croce Rossa. Ma accettando di occuparsi di altre strutture legate all’accoglienza il mondo dell’associazionismo produce una progressiva smobilitazione della conflittualità politica sull’immigrazione in chiave antirazzista.
Seconda risposta: i movimenti sociali nel corso del 1999 intrecciano i rispettivi percorsi con i cicli di campagna internazionale sulla globalizzazione, che trovano un primo grande momento di visibilità nella protesta di Seattle del novembre ’99. Le vertenze di politica interna e sui territori, comprese quelle sull’immigrazione, non sono più in testa alle preoccupazioni dei settori più militanti dei movimenti sociali, che fino a quel momento avevano seguito direttamente le proteste contro i Cpt. Le mobilitazioni continuano, ma più frammentate e meno incisive. Soprattutto, prevale la critica contro la dimensione simbolica dei centri, nella difficoltà di intercettare i soggetti che vengono reclusi, i loro bisogni, le loro reti sociali.
La terza risposta è stata già accennata e si può individuare nella ricerca politicamente trasversale di inseguire il tema della sicurezza: il dibattito sulle politiche migratorie viene dominato dal tema degli ingressi irregolari e delle espulsioni e così la centralità dei luoghi di trattenimento aumenta in modo esponenziale. Nei Cpt si susseguono intanto incidenti, violazioni, soprusi e tragedie. Il 29 dicembre ’99 al Serraino Vulpitta di Trapani un gruppo di dodici immigrati mette in atto una protesta incendiando alcuni oggetti in una stanza: le forze dell’ordine decidono di serrare il locale con una sbarra di ferro. Muoiono asfissiate tre persone, altre tre moriranno in ospedale nelle settimane seguenti.
I Cpt nel giro di pochi anni occupano un ruolo sempre più importante. Si tratta di luoghi che risultano rapidamente inseriti nell’economia, nella gestione dell’ordine pubblico, nella strutturazione delle politiche migratorie. Le ripetute grida sullo stato di eccezione hanno sempre meno senso.
I provvedimenti legislativi successivi alla legge del 1998 ne rafforzano il ruolo, come risulta evidente innanzitutto con la legge Bossi-Fini nel 2002, che aumenta fino a sessanta giorni i tempi di trattenimento, con il Pacchetto sicurezza del 2008, che istituisce i Centri di identificazione ed espulsione sostituendo i Cpt e poi con il decreto Minniti-Orlando del 2017 che li trasforma in Cpr, Centri di permanenza per i rimpatri. Parallelamente, l’espansione incontrollata dei centri di accoglienza nelle loro varie modalità e l’introduzione di nuovi luoghi finalizzati al trattenimento quali gli hot-spot proseguono sulla strada inaugurata negli anni Novanta dai Cpt. La limitazione della libertà di movimento per i cittadini di origine straniera insieme all’estensione di variegate forme di trattenimento e controllo costituiscono ormai la normalità sia nell’evoluzione dell’ordinamento legislativo pensato per l’immigrazione sia nella prassi degli operatori che hanno il compito di metterlo in funzione. Accoglienza, detenzione e carcerazione per la popolazione straniera si affiancano e si sovrappongono ormai in modo diffuso, proprio secondo la formula immaginata nel 1998.
dal numero 10 (aprile 2023) de Lo stato delle città – NapoliMonitor
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