Racconti dal carcere di Cesare Battisti. 1° episodio
La storia ha conosciuto tanti periodi bui, in cui lo svuotamento della parola, la stessa esistenza umana assalita dal “chiacchiericcio” non sono una novità dei nostri tempi. “Lo spazio pubblico ha perso il potere d’illuminare, tipico in origine della sua stessa essenza.” Lo scriveva Hanna Arendt nel 1959, ce lo ha provato, con la sua distanza dal reale, un’alta carica dello Stato in un talk show serale al dire che il carcere serve a punire, che è il luogo, insomma, dove il condannato non deve fare altro che impegnarsi a lavare il malfatto. Se questo addetto alla politica avesse ragione, il percorso trattamentale, la rieducazione, la lotta all’ozio, lo stesso art. 27 della Costituzione non sarebbero altro che una distrazione rispetto allo scopo ultimo della condanna: lavare, pulire, lucidare le parti recondite del corpo penale.
Che ne pensano le persone detenute di queste radiose esortazioni non è facile da sapere. Anche perché in carcere i chiacchiericci stanno a zero, qui si passa all’azione. Da noi i problemi di purificazione non esistono, anzi è l’attività la più diffusa, la sola che l’Amministrazione può permettersi di offrire a tutti i suoi i suoi penitenti. A Parma non si fa altro che pulire la cella tutto il giorno. Si fa la gara a chi consuma più detergenti. Tanti sono i prodotti di igiene che ci vorrebbe una rastrelliera per cella. Non a caso, sulla lista della spesa questa è la voce con più varietà. Non avrei mai pensato prima che ci fossero tanti detergenti e per ognuno dei quali un uso preciso e ben distinto.
E i detenuti, pochi lo sanno, sono scrupolosi ed eseguono le istruzioni per l’uso con la precisione di un fisico nucleare.
In carcere si strofina senza sosta ma non basta mai, perciò almeno due volte la settimana c’è anche la “generale”. Una faticaccia simile a quella che una volta si usava dire delle “grandi pulizie di primavera”. Da noi si comincia al mattino presto, ben prima dell’apertura delle celle. Strepitano allora gli sgabelli sul pavimento, cigolano gli stipetti, cade una pentola, fa eco qualche bestemmia. Sto pulendo, non rompete! Più forti sono i rumori e più laboriosa e accanita sarà la purificazione. Bisogna fare di più e meglio, senza pietà, raspare il fondo all’anima peccatrice. Solo i migliori si salveranno. Quelli del piano di sopra al nostro si scatenano: ma è una generale, che nessuno pretenda dormire. C’è anche chi intona una canzone strappa cuori, e intanto strofina. Alle 8,30 in punto, con i blindi aperti, tutto ciò che c’è di removibile nella cella va ad accatastarsi a una velocità supersonica nel corridoio. E i secchi d’acqua cominciano allora a scrosciare.
Le celle sono uno specchio, lo sono sempre, potrebbe esserci una perquisizione a qualunque ora che non troverebbero un capello a terra. Se a qualsiasi ora del giorno uno percorresse il corridoio lasciando occhiate discrete all’interno delle celle vedrebbe sempre qualcuno con spugna e straccio a pulire.
Ma che cosa avranno da pulire?
Me lo sono chiesto tante volte, mentre a mia volta mi davo da fare per far sparire qualche traccia di polvere perché gli altri ti guardano male. Qui non sfugge nulla, il tale della 20 non si fa il bagno, quell’altro non ha mai comprato un detersivo e così via.
I pulisce e si discorre: “ Ah, oggi ho messo la cella sottosopra e ho trovato una ragnatela dietro al termosifone, ti rendi conto?” Oppure quell’altro: “Vado a fare un’altra doccia, quel bagnoschiuma non vale niente”. Insomma, gli argomenti per conversare in galera non mancano. Sono parole sante, quasi quanto un chiacchiericcio alla televisione.
Non crediate ci si batta tanto solo per far passare il tempo. Oltre ai passeggi, dove quasi nessuno va, qui le celle sono aperte, non si sta 24 ore l chiuso. E comunque ho conosciuto gente là fuori che non usciva quasi mai di casa e non per questo passava il giorno a far brillare mobili e vetri. Qui invece sì, e se non lo fai sei sospetto. Sei un aggravante alla pena, alla reputazione: detenuto d’accordo, delinquente è discutibile, ma nessuno potrà permettersi di dire che sei anche uno sporcaccione. Da chiedersi quanti di noi, a piede libero, si ricorderebbero di avere una scopa in casa. Qui di scope, spazzoloni e attrezzi simili ce n’è uno per ogni impurità invisibile a occhio nudo. La macchia, l’imperfezione, la onta bisogna cercarla, scovarla mettendosi in controluce, per esempio appostato sul corridoio: è da lì che ti sbirciano in cella quelli che passano per poi sparlare: “Quello lì lo vedo male, la condizionale se la sogna.” E giù colpi di straccio, spugne, retine saponate e perfino flaconi di profumo diluito nel secchio del lisoform.
Una tortura per i poverini tossicodipendenti. Loro che cogli occhi ancora incollati dal sonno e la chimica a rodergli dentro devono stare lì a far brillare i muri e le Nike, quelle che metteranno solo per andare fino all’infermeria. Perché bisogna andarci puliti e abbattuti, guadagnarsi la fiala, riprendere forze pur di tornare a pulire, o almeno a farsi vedere farlo, mentre “Pomeriggio alla 5” imperversa su una trentina di schermi ad alto volume.
Chissà, forse tra un chiacchiericcio e l’altro, basterebbe fermarsi un istante, darsi un tempo, un respiro profondo e uno sguardo sincero al compagno di cella, dello scranno vicino, per mutare la forma di agire, pensare che non è con spugna e e sapone che ci togliamo le pene dal cuore. Bensì occupandoci un po’ più di noi stessi e degli altri che soffrono con i quali condividiamo lo stesso disagio sociale. Chiedersi seriamente dov’è l’errore e mettersi insieme a capire che forse non era proprio questa la luminosità che avrebbero voluto per noi i nostri Padri Costituenti.
E poi, cavolo, basta pulire, che tanto qui gli ospiti non sono graditi!
da Carmilla
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