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Gaza e il giornalismo che non c’è

Gaza muore sotto i bombardamenti e per mancanza di acqua, cibo, medicinali. In un audio messaggio una operatrice denuncia: «Qui di giornalisti non ce ne sono. Nessuno chiede di entrare nella striscia di Gaza. C’è chi è sempre stato molto attento ai bombardamenti russi sugli ucraini, farebbe tanto piacere vederlo qui, dove, nel silenzio del mondo, si sta consumando una catastrofe». La guerra si fa in molti modi: anche con assenze, silenzi e omissioni.

di Livio Pepino

Ci è arrivato sabato in redazione un breve audio messaggio dalla striscia di Gaza. È di Giuditta Brattini, volontaria di Gazzella Onlus. Parla, con un collegamento di fortuna, da Rafah, e fornisce alcuni dati sulla situazione drammatica che la circonda: 4.137 morti, il 70% dei quali donne, bambini e anziani, bombardamenti continui, sette ospedale colpiti da bombe, 46 medici o sanitari uccisi, ordini di evacuazione (impossibile) degli ospedali residui, bombardamento di una chiesa ortodossa… E, poi, conclude: «Devo denunciare il fatto che di giornalisti non ce ne sono. Ho sentito qualche giornalista italiano dagli insediamenti […] o da Tel Aviv che raccontano di questo lancio di missili e di questa popolazione israeliana molto impaurita dal suono delle sirene ma […] nessuno di questi giornalisti chiede di poter entrare nella striscia di Gaza. Come […] Stefania Battistini che è volata dall’Ucraina in Israele: è sempre stata molto attenta ai bombardamenti russi sugli ucraini, farebbe tanto piacere vederla nella striscia di Gaza a documentare anche dell’altro. Lo dico perché l’informazione […] la vediamo sempre molto moderata noi che siamo presenti qui e non c’è da parte degli organi della stampa un’informazione che rappresenti un attimo quella che è la realtà. Si sta consumando una catastrofe, mi par di capire nel silenzio assoluto dell’Europa e del mondo compresi i paesi arabi».

Immaginiamo che il messaggio sia arrivato alle redazioni di tutti i giornali ma, mentre ne controlliamo l’autenticità interpellando l’Onlus Gazzella, non ne troviamo traccia nei quotidiani e nei siti più importanti, pur pieni di notizie di guerra. Fa eccezione – salvo nostro errore – solo il sito de il Fatto Quotidiano che lo pubblica tagliando, peraltro, gran parte del passaggio sopra riportato relativo all’assenza di giornalisti a Gaza. Omissione che, insieme al silenzio dei più, ci porta al cuore di un problema decisivo: l’informazione al tempo della guerra.

Le guerre – tutte le guerre – sono delle carneficine prive di giustificazioni. Per renderle in qualche modo accette all’opinione pubblica, chi le promuove e le combatte (e con lui i suoi alleati e gli schieramenti politici omogenei) ne amplifica (o ne inventa) le ragioni, teorizza l’esistenza di guerre giuste, occulta o nega le alternative possibili, demonizza i nemici (paragonati ai peggiori criminali della storia), eccita il nazionalismo e il patriottismo, nega le proprie sconfitte e sovradimensiona quelle degli avversari, glorifica i propri morti e dimentica quelli altrui, definisce traditori e disfattisti coloro che avanzano dubbi sulle ricostruzioni ufficiali o, semplicemente, manifestano per la pace e via seguitando. Lo fa reclutando filosofi, moralisti e politologi ma, soprattutto, usando a proprio vantaggio l’informazione (talora finanche istituendo o potenziando appositi ministeri o think thank). È così da sempre – come ha ricordato nei giorni scorsi Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera – ma lo è oggi in modo particolare, data la crescente pervasività dei media e dei social e la potenza delle immagini da essi trasmesse.

Ci sono due modalità dell’informazione deformata nel tempo della guerra che meritano una segnalazione.
La prima è quella dell’informazione esplicitamente “di parte”. Il modello è il giornalista embedded, “arruolato”, istruito e aggregato alle truppe di riferimento allo scopo di dare le notizie “utili alla causa” e in modo tale da renderle credibili anche quando non lo sono. Il caso più eclatante, per quanto riguarda l’Occidente, è quello dell’esercito degli Stati Uniti che – come scrive l’Enciclopedia Treccani – «a partire dall’invasione dell’Iraq del 2003 ha previsto un ricorso sistematico all’embedded journalism: i corrispondenti, infatti, hanno avuto l’opportunità di seguire le truppe da vicino, dopo aver anche ricevuto un addestramento specifico, ma è stato loro chiesto di sottoscrivere accordi specifici con l’impegno di non rivelare informazioni suscettibili di danneggiare la condotta della guerra, pena l’allontanamento dal teatro delle operazioni» (). «Questo modo di procedere in accordo con i comandi militari – aggiunge la Treccani – è stato considerato da alcuni come inevitabilmente dannoso per l’indipendenza d’opinione dei giornalisti». Difficile ritenere che si tratti solo dell’opinione di alcuni… Ma per chi avesse dei dubbi, soccorre il sito del nostro Ministero della Difesa che definisce l’embedded «un giornalista al seguito o incorporato, ovvero presente in un teatro operativo aggregato a reparti militari [che] ha la possibilità di raccontare più da vicino le dinamiche operative e di narrare quindi la realtà anche dal punto di vista del militare in azione». Naturalmente il sito del ministero non si limita a descrivere il giornalista embedded, ma ne tesse anche l’elogio, richiamandone, con sfoggio di cultura degno di miglior causa, il prototipo: «lo storico greco e militare ateniese Tucidide», autore de La guerra del Peloponneso (431-404 avanti Cristo). Tucidide, in verità, fu non solo embedded ma combattente, in quanto comandante militare della flotta ateniese nel mare Egeo settentrionale, ma per il sito del Ministero non ci sono dubbi: «Correttezza e obiettività della prospettiva storica e della cronologia contraddistinguono la sua opera, caratterizzata da un’alternanza di cronaca politica e militare e di riflessioni di “natura umana”». Merita aggiungere che, non essendo la correttezza e l’obiettività delle doti naturali, lo stesso Ministero organizza, in collaborazione con la Federazione nazionale della stampa, dei «corsi teorici e pratici per giornalisti destinati ad operare in aree di crisi». Come sempre, questi giri di parole non piacciono ai più spicci ufficiali dei marines, come il tenente colonnello Rick Long, che va subito al sodo: «Il nostro compito è vincere la guerra. Parte di ciò è la guerra dell’informazione. Quindi tenteremo di dominare l’ambiente dell’informazione». Superfluo aggiungere che i giornalisti embedded si suddividono equamente tra tutte le parti in causa, che sono migliaia e che, essendo in genere i primi a intervenire, finiscono per influenzare anche la (scarsa) informazione non pregiudizialmente allineata.

La seconda modalità dell’informazione di guerra, altrettanto – e a volte ancor più – insidiosa è quella dei media mainstream e dei giornalisti embedded “di complemento”, immersi nel ruolo di narratori della vulgata desiderata dal fronte di appartenenza al punto da diventare spesso “più realisti del re”. Le manifestazioni di questo atteggiamento sono quotidiane, anche nel nostro Paese, soprattutto in quest’epoca in cui si moltiplicano le guerre che coinvolgono alleanze di cui facciamo parte o paesi tradizionalmente e acriticamente considerati “amici”. Bastino alcuni flash: giornalisti e giornaliste in elmo e giubbotto antiproiettile che, lontanissimi dalle operazioni di guerra, leggono e rileggono improbabili veline, sostengono banalità agghiaccianti e chiedono a dei poveri disgraziati come si sta sotto le bombe; titoli a caratteri cubitali che dicono verità smentite il giorno successivo (come l’avanzata di questo o quell’esercito e la conquista di questa o quella città) o definiscono la responsabilità di un bombardamento sulla sola base della convenienza; interventi sdegnati di conduttori e conduttrici che interrompono personaggi imprudentemente invitati nei loro talk show che non seguono il copione prestabilito; avallo, senza controlli e senza prese di distanza, di affermazioni mirabolanti che stanno alla base delle guerre (immemori dello scandalo dell’attribuzione a Saddam Hussein di inesistenti armi di distruzione a sostegno della guerra all’Iraq); disinvolta qualificazione come “operazioni di pace” di conflitti che cessano, per questo, di essere guerre. Non solo. Si spreca il ricorso ai metodi della pubblicità che influenzano la psicologia collettiva, a cominciare dal terrore per un nemico “disumano”. In questa prospettiva una delle pratiche più diffuse e suggestive è la sistematica disparità di trattamento: quella, appunto, denunciata dall’operatrice di Gaza. I morti nelle guerre sono, astrattamente, tutti uguali, ma cessano di esserlo quando per quelli di una parte si intervistano i parenti (giustamente) straziati mentre scorrono le immagini dei loro cari in pose serene e sorridenti e, per gli altri, ci si limita – nella migliore delle ipotesi – a snocciolare numeri senza commento. Ovviamente la scelta determina la direzione dell’empatia di chi guarda e ascolta. E lo stesso accade quando si mostrano, da una parte, case ed edifici sventrati e, dall’altra, carte geografiche o immagini di repertorio.

La guerra si fa in molti modi. Anche con la manipolazione, il silenzio, i giornali e i computer…

da Volere la Luna

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