Con lo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas si è scatenata una fiera di maldicenze o di luoghi comuni non verificati: come, ad esempio, il fatto che i prigionieri palestinesi rilasciati, minorenni al momento dell’arresto, fossero tutti accusati o colpevoli di crimini gravi. Le persone arrestate per aver minacciato la sicurezza di Israele sono migliaia, e il loro numero è aumentato dopo l’attacco del 7 ottobre
di Paolo Mossetti da X
Alcuni degli intellettuali dalla mentalità poliziesca, poco curiosi di conoscere le cose come stanno, sono diventati gli stenografi della politica più conservatrice possibile. I fact-checker sempre ligi a colpire la parte più debole della conversazione? Spesso tacciono. E allora provo a fare un po’ di chiarezza. Innanzitutto le detenute e i detenuti rilasciati vivono tutti in Cisgiordania o a Gerusalemme Est. Le zone dove, ricordiamolo, non governa Hamas. O almeno non ancora. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani @btselem , prima del 7 ottobre c’erano quasi oltre 1.300 palestinesi imprigionati senza accusa o senza processo in questi territori, tra cui almeno 146 minorenni. Era già un record, ma circa altri 3.000 palestinesi sono stati arrestati in Cisgiordania e Gerusalemme Est nelle ultime otto settimane, quasi sempre perché reagivano alla violenza dei coloni israeliani: dei veri e propri pogrom, documentati, oltre che dal solito @haaretzcom , anche innumerevoli testate occidentali tutt’altro che filo palestinesi. Uno degli strumenti usati per la repressione israeliana si chiama detenzione amministrativa, che consente all’IDF di incarcerare i palestinesi senza processo, come si fa nei teatri di guerra.
Secondo @amnesty , l’uso della detenzione amministrativa è consentito dal diritto internazionale solo in circostanze eccezionali. Israele, dal canto suo, sostiene di avere il diritto di aggirare alcune obbligazioni in quanto la Cisgiordania non fa parte del suo territorio sovrano, e quindi è soggetta a leggi militari speciali. Secondo la Commissione per i diritti umani dell’Onu e innumerevoli ong, non è così: in quanto «potenza occupante», Israele userebbe questa pratica in modo illegittimo, come mezzo di persecuzione. Sono finiti in prigione in questo persino dei giornalisti a causa di post sui social interpretati come inviti alla rivolta. Va detto che oltre ai 1.300 palestinesi vittime della detenzione amministrativa prima del 7/10 ce n’erano altri 5.000 circa arrestati con processo ordinario. Tutto ok, per loro? Non proprio. Il sistema giudiziario israeliano infatti rende quasi impossibile un giusto processo per i palestinesi nei territori occupati, che vengono giudicati da tribunali militari in condizioni disastrose. Secondo dati israeliani, nel 2010, il 99,7% dei casi in questi tribunali si è concluso con una condanna.
Ai palestinesi viene sostanzialmente negata l’assistenza legale, e i detenuti si devono confrontare con barriere linguistiche, errori di traduzione e accuse spesso vaghe portate avanti da coloni o soldati avvelenati. È noto che anche il gesto di tirare un sasso viene giudicato violenza grave. In una scena ripresa da @Channel4 qualche settiamane fa, un disabile palestinesi che tirava dei sassi a una camionetta della polizia israeliana a grandissima distanza è stato freddato con un colpo al collo. Nel 2018, l’attivista palestinese Nariman Tamimi è stata incriminata dai pubblici ministeri militari per cercare di aver cercato di influenzare l’opinione pubblica e per un presunto «incitamento alla violenza» tramite una diretta su Facebook (circostanza poi smentita da @hrw ). Poi c’è il problema dei bambini giudicati dall’esercito come adulti: Israele, secondo l’Onu, è l’unico Paese che mette regolarmente bambini sotto processo in tribunali militari, ha addirittura istituito il «primo e unico tribunale militare per minori nel mondo».
Se i processi farsa sono una caratteristica fondante del sistema giudiziario militare israeliano, e non un effetto collaterale dell’occupazione, la repressione spesso non inizia neppure in tribunale. La tortura ai detenuti è stata vietata espressamente dall’esercito israeliano solo nel 1999, ma continua: il 12 ottobre, nel villaggio della Cisgiordania di Wadi al-Seeq, soldati e coloni israeliani hanno arrestati tre palestinesi, li hanno spogliati, hanno spento sigarette sui loro corpi e gli hanno urinato addosso. Haaretz ha parlato di una nuova «Abu Ghraib».
Il destino delle migliaia di prigionieri palestinesi illegalmente detenuti da Israele, fonte di indignazione globale, è stato chiaramente assente per anni da riviste, conversazioni pubbliche e piattaforme politiche che oggi chiedono insistentemente alle piazze pro-Palestina di condannare/inserire questo o quello nelle loro proteste. Un’omissione non casuale, perché questi prigionieri, che includono centinaia di bambini, sono fondamentali per almeno una potenziale risoluzione diplomatica: ciò che i segmenti conservatori di cui sopra non vogliono assolutamente.
Ma a 50 giorni dall’inizio della guerra, che ha ucciso oltre 15.000 palestinesi, tra cui più di 6.000 bambini, è chiaro che la detenzione illegale dei palestinesi da parte di Israele è diventata una questione più urgente che mai: agli occhi del mondo, e non solo di quello arabo, che guarda alle incoerenze occidentali e giudica. Gli intellettuali polizieschi molto attivi sui social possono scegliere se continuare ad ingobbirsi alla ricerca di argomenti disonesti e conformisti, oppure se fare, per una volta nella vita, gli adulti nella stanza.
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