A poche centinaia di metri dall’«Ibn Sina», ragazzi e bambini usciti da scuola attraversano la campagna con il «cimitero dei martiri». Decine di tombe con lapidi semplici, con accanto la bandiera di qualche formazione politica. Un giovane seduto su di uno sgabello, a capo chino recita preghiere accanto a una tomba. Poco più avanti, c’è il memoriale di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa nel 2022 in quel punto da spari di soldati israeliani. I militari lo hanno distrutto durante un’incursione.
Esercito contro civili. La città palestinese di Jenin assediata dai soldati israeliani. Unrwa: «La Striscia non sa più immaginare il proprio futuro»
di Michele Giorgio da il manifesto
I sette fratelli Darwish li conoscono tutti a Muthalath al Shuhada, un sobborgo di Jenin. Assieme alle due sorelle sono cresciuti in Giordania. Poi, anni fa, con la mamma Ibtisan sono tornati nella loro città palestinese di origine sperando in migliori fortune economiche. Speranze svanite di fronte alla realtà di Jenin, una provincia con scarse opportunità di lavoro fuori dall’agricoltura. «Alcuni dei miei figli mi aiutava in campagna, altri lavoravano in Israele, poi (dopo il 7 ottobre) hanno revocato tutti i permessi e per sopravvivere i miei ragazzi si sono adattati a svolgere piccole attività» ci dice Ibtisan seduta accanto alla porta di casa su di un vecchio divano di pelle sistemato sotto una tenda. La donna racconta con un filo di voce quel 7 gennaio quando un missile sganciato da un drone israeliano gli ha portato via in un attimo quattro dei sette figli. «Hazzà quel giorno mi ha chiesto dei soldi per andare all’ospedale, per la terapia renale di cui aveva bisogno. Poi è uscito con tre dei suoi fratelli. Era molto presto e sono rimasta a letto. Un po’ dopo, ho cominciato a ricevere notifiche su Telegram che riferivano di sette palestinesi uccisi qui all’incrocio di Muthalath al Shuhada. Mi sono allarmata, perché i ragazzi non rispondevano al telefono. È stato Qassam, un altro dei miei figli, a dirmi che quattro dei suoi fratelli erano stati uccisi da un aereo israeliano assieme altri tre giovani. Sono rimasta senza voce».
Hazzà, 27 anni, Rami, 22, Ahmed, 24, e Alaa, 29, assieme a Razqallah Sleiman, 18, Mohammad Asous e Wadee Asous sono stati colpiti al termine di un raid israeliano cominciato nella notte nella zona di Jabriyaat, alla periferia del campo profughi di Jenin. Per ore erano andati avanti gli scontri a fuoco tra combattenti palestinesi e militari israeliani. Ad un certo punto un ordigno è esploso sotto una jeep uccidendo una agente della polizia di frontiera e ferendone altri tre. A cinque chilometri di distanza, alle prime luci del giorno, Hazzà, Rami, Ahmed e Alaa si stavano preparando per uscire. Hanno sorseggiato il tè per alleviare il freddo della notte, hanno mangiato qualcosa e si sono avviati all’incrocio che da Jenin porta ai villaggi di Burqin e Qabatiya. «Hanno acceso un fuoco per riscaldarsi – prosegue il racconto Mohammad, 27 anni, uno dei sette fratelli – nell’attesa di persone in cerca di manovali a giornata. Hazzà aspettava che si facesse l’ora per andare all’ospedale. Con loro c’erano altri ragazzi. All’improvviso c’è stata un’esplosione. Sono morti in sette, tra cui i miei fratelli». Mohammad parla con la voce rotta dall’emozione e dal dolore ancora fresco. Il suo ricordo va soprattutto al fratello Ahmed. «Siamo cresciuti insieme – ci dice – eravamo amici oltre che fratelli, facevamo tutti insieme. Abbiamo una casa piccola e per scherzare gli dicevo: sposati, così vado nella tua stanza e non dormirò più nella tenda fuori casa. Adesso soffro ripensando a quelle parole». Sul luogo dove i sette giovani sono stati uccisi alcuni hanno poggiato un fiore e fogli di carta con versetti del Corano.
Per l’esercito israeliano il drone quella mattina avrebbe preso di mira «un gruppo di uomini armati che lanciavano esplosivi contro le truppe». Per la gente del posto invece è stata una «vendetta» per l’ordigno che aveva ucciso l’agente della polizia di frontiera nel campo profughi. Il drone peraltro ha colpito a distanza di chilometri dal luogo degli scontri a fuoco con i combattenti palestinesi. «Vengono presi di mira i civili perché le truppe israeliane hanno grossi problemi con la resistenza. Si sfogano contro i civili» dice un palestinese. Solo a Jenin e nei villaggi vicini dal 7 ottobre sono stati uccisi oltre 50 combattenti e civili sui 360 palestinesi che, secondo calcoli del ministero della Sanità, sono morti sotto il fuoco di soldati e coloni israeliani. Tra le vittime ci sono almeno 95 minori, uno dei quali era un bambino di 9 anni. Dall’inizio di quest’anno sono già stati uccisi 41 palestinesi in Cisgiordania. Gli ultimi nove ieri in attacchi con droni e durante un raid dell’esercito nei campi profughi di Balata (Nablus) e di Tulkarem dove i soldati sono rimasti per sette ore effettuando irruzioni ed arresti in una decina di abitazioni. Raid notturni anche ad al-Eizariya (Gerusalemme), a Beitin, nel campo profughi di Jazalone (Ramallah), con numerosi arresti. Jenin per una notte è stata risparmiata ma nel suo campo profughi la tensione è sempre alta. I combattenti armati non girano più per le strade ancora devastate dal raid israeliano dello scorso luglio in cui furono uccisi 12 palestinesi, tra cui alcuni civili. L’utilizzo sempre più massiccio dei droni li rende bersagli facili di quella che si sta dimostrando anche in Cisgiordania e non solo a Gaza una delle armi più letali in possesso di Israele.
Nella strada principale del campo profughi continuano i lavori di riparazione avviati dalla municipalità dopo l’incursione del 3 luglio 2023, denominata dal governo Netanyahu «Operazione Casa e Giardino», il dispiegamento militare più ampio contro una città palestinese in Cisgiordania negli ultimi 20 anni. Oltre ai morti ci furono oltre 100 feriti e circa 500 famiglie furono costrette a lasciare le loro abitazioni. Alcune non vi hanno fatto mai più ritorno. Percorrendo la strada non asfaltata e allagata in più punti si passa accanto ad edifici danneggiati e anneriti dal fuoco delle esplosioni: una è stata colpita poche settimane fa da un drone.
L’ospedale «Ibn Sina» è alla periferia del campo profughi. Nuovo e ben tenuto, spesso negli ultimi mesi si è trovato, in particolare dopo il 7 ottobre, coinvolto nei raid dell’esercito israeliano. «I blindati giungono fin qui, proprio davanti al nostro ospedale», ci riferisce il dottor Tawfiq Al-Shobaki, capo del dipartimento di chirurgia generale, «gli israeliani dicono di voler catturare i combattenti palestinesi feriti negli scontri che vengono portati all’ospedale. In realtà bloccano tutti coloro che hanno bisogno delle cure ospedaliere, dal cardiopatico alle donne incinte. Di recente una donna che doveva partorire è stata lasciata dai soldati per ore in una ambulanza per controlli di sicurezza. Quale pericolo può rappresentare una donna con le doglie che sta per partorire?». Al Shobaki teme l’uso sempre più frequente di «punizioni collettive» contro Jenin, che Israele considera sempre la roccaforte principale della militanza armata palestinese. «Non stiamo vivendo lo stesso orrore di Gaza ma la situazione si fa più grave con il passare dei giorni e delle settimane, anche qui in Cisgiordania. Per questo stiamo preparando il nostro ospedale al peggio, a scenari drammatici».
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Aiuti per ostaggi e palestinesi, ma Netanyahu spegne la speranza
Accordo per l’ingresso di medicinali. Il premier israeliano: «La guerra continua». A Gaza colpito l’ospedale da campo giordano. Unrwa: «La Striscia non sa più immaginare il proprio futuro»
di Chiara Cruciati da il manifesto
«Non riescono a immaginare come continueranno a crescere i propri figli in un ambiente simile. Hanno difficoltà a progettare il futuro». Della scomparsa della speranza per le strade di Gaza ha provato a dare un’idea ieri Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi.
Lazzarini ha visitato per la quarta volta la Striscia in tre mesi e mezzo di conflitto mentre Gaza viveva il suo più lungo blackout di comunicazione: le linee telefoniche e internet sono ferme dal 12 gennaio, mai i precedenti erano stati così lunghi. I giornalisti palestinesi comunicano solo con i satellitari.
MENTRE Lazzarini proseguiva nella visita, dal valico di Rafah iniziavano ad entrare i pacchi di medicine frutto dell’accordo raggiunto martedì sera tra Hamas e Israele con la mediazione del Qatar e della Francia: medicinali diretti agli ostaggi israeliani, circa 130, ancora nella Striscia e alla popolazione gazawi.
Ieri due aerei qatarini sono arrivati in Sinai, il contenuto ha poi preso la strada di Rafah dove sono stati sottoposti ai controlli israeliani. Secondo Hamas, l’accordo prevedrebbe una scatola di medicine da consegnare agli ostaggi ogni mille scatole ai civili palestinesi. Della distribuzione si occuperà la Croce rossa.
Si spera così di alleviare, almeno in minima parte, la crisi umanitaria che vivono 2,3 milioni di persone. Ieri la Giordania ha fatto sapere che il proprio ospedale da campo a Khan Yunis, nel sud di Gaza, è stato danneggiato dall’esplosione di missili israeliani nelle sue prossimità, ma continuerà a lavorare. Un palestinesi in terapia intensiva sarebbe rimasto ferito.
È qua, a Khan Yunis, linea del fronte da settimane, che cresce la preoccupazione per le condizioni umanitarie: affollata di persone fuggite dal nord e dal centro, con pochissime strutture mediche funzionanti, rischia un destino simile a quello del nord, con devastazioni fisiche immani (ieri il Palestine Investment Fund parlava di 15 miliardi di dollari necessari a ricostruire solo le abitazioni private) e infrastrutture civili collassate.
Pure i cimiteri: ieri da Khan Yunis hanno denunciato con alcuni video il passaggio di bulldozer israeliani su un cimitero, come accaduto in precedenza. Testimoni parlano anche di corpi portati via, ma non è possibile verificare l’accusa. Proseguono gli scontri a terra: ieri altri tre soldati israeliani sono stati uccisi (193 dall’inizio dell’offensiva via terra, a fine ottobre).
SUL FRONTE israeliano la situazione politica resta incandescente. Ieri l’Association for Civil Rights in Israel, formata da gruppi ebrei e palestinesi, ha fatto un nuovo appello alla Corte suprema perché dia il via libera a una protesta contro la guerra ad Haifa.
L’Acri chiede il cessate il fuoco, il rilascio dei prigionieri e una soluzione politica, una richiesta di presidio che finora la polizia ha già vietato tre volte. È capitato a tante realtà e chi ha sfidato i divieti – l’ultima volta sabato scorso – è stato caricato dagli agenti e arrestato. Dopotutto, dice il governo, c’è la guerra. Lo ha ribadito ieri il premier Netanyahu: «La guerra continuerà fino alla fine e al raggiungimento dei nostri obiettivi. Che nessuno ci giudichi male. Continueremo a combattere fino alla vittoria totale».
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«Assalì un agente»: Cassif incriminato
Ofer Cassif, il deputato ebreo comunista del partito Hadash, ieri è stato incriminato per aggressione a pubblico ufficiale. Il caso risale al maggio 2022. Cassif partecipò a una protesta a Masafer Yatta, regione nel sud della Cisgiordania da anni minacciata di sgombero. Secondo l’accusa, Cassif avrebbe colpito, a bassissima velocità, con la sua auto un poliziotto che, con i colleghi, aveva chiuso la strada al traffico per impedire la protesta. Poi Cassif sarebbe sceso e lo avrebbe colpito al volto. Secondo Cassif, è stata la polizia a minacciarlo di violenza e a impedirgli il passaggio violando la sua immunità parlamentare.
Ieri il deputato ha parlato di «persecuzione politica e violenza di polizia». È già a rischio di espulsione dalla Knesset per aver firmato, con altri 200 israeliani, una lettera di sostegno alla causa sudafricana all’Aja.
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