Per la Corte di Giustizia l’accusa di genocidio di Israele è plausibile
L’Aja accoglie la richiesta sudafricana di imporre a Israele misure per fermare il massacro a Gaza, ma non fa menzione sul cessate il fuoco e la guerra non si ferma. 183 morti e «19 massacri» nella giornata del 26 gennaio
di Laura Burocco da il manifesto
La Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha accolto le richieste avanzate dal Sudafrica affinché vengano applicate misure immediate in prevenzione di un genocidio a Gaza. Malgrado la sentenza non abbia menzionato la richiesta di un cessate il fuoco da tutti auspicato, il contenuto delle disposizioni è tale da sottintenderlo. Particolarmente significativo, l’obbligo a cui viene richiamato Israele di impedire omicidi, gravi danni fisici o mentali, distruzione fisica totale o parziale deliberata del popolo palestinese e l’imposizione di misure che possano impedire le nascite.
LA CORTE RISPONDE alle richieste fatte dal team legale e politico sudafricano lo scorso 12 gennaio. Tra queste, appunto, quelle dell’avvocato Adila Hassim riguardanti l’aumento dei tassi di mortalità materna e neonatale, che potrebbe configurare un deliberato tentativo di eliminazione del popolo palestinese e la violazione dell’Articolo II(b) riguardante i gravi danni mentali e fisici ai palestinesi di Gaza.
La corte ha inoltre imposto a Israele, con effetto immediato, la garanzia che le sue forze militari non commettano nessuno degli atti criminali elencati dai legali sudafricani – come gli attacchi al sistema sanitario palestinese, l’incitamento alla violenza, gli abusi sulle donne, l’umiliazione di uomini, bambini. Egualmente vengono confermate le allegazioni presentate dall’avvocato Tembeka Ngcukaitobi riguardo l’utilizzo di discorsi genocidiari da parte di leader politici con responsabilità di governo e ufficiali militari.
Secondo la ministra delle Relazioni internazionali sudafricana Naledi Pandor «il salvataggio di vite umane non riguarda solo il cessate il fuoco. Si tratta di garantire che gli aiuti umanitari siano forniti a coloro che hanno bisogno di sostegno, così come di garantire che lo Stato di Israele, che è attualmente uno stato occupante che amministra la Palestina, fornisca i servizi di base necessari di cui hanno bisogno i residenti di Gaza e della Cisgiordania». In questo la corte è stata esplicita, imponendo l’obbligo a Israele di «adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari».
LA RAPPRESENTANZA sudafricana si dice soddisfatta della richiesta avanzata a Tel Aviv di presentare un report tra un mese ritenendo comunque cruciale nel frattempo il monitoraggio della situazione. Secondo Pandor «ciò che vogliamo è che gli Stati membri delle Nazioni unite supervisionino il processo e garantiscano di creare le basi per una comunità globale in cui non sia più così facile ricorrere alle armi, in cui gli abusi non vengano così spesso tollerati, e che maggiori sforzi siano diretti alla negoziazione e alla ricerca di mezzi pacifici per porre fine al conflitto». Inclusa la creazione di due stati.
Mentre Israele continua ad affermare che si tratta di una questione politica tra Israele e Sudafrica, Pretoria, in virtù della sentenza della corte, continua a sottolineare il regime di occupazione illegale e violenta della Palestina da parte di Israele e l’inammissibilità della linea che insiste sulla “legittima difesa” dopo il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre. Non si tratta di un caso tra Israele e Sudafrica ma di una azione giudiziaria il cui intento è quello di mettere alla prova la legittimità degli organismi internazionali «nell’esercitare la loro responsabilità nel proteggere tutti noi come cittadini globali».
E questo – oltre all’aspetto umanitario di una fratellanza che unisce il popolo sudafricano a quello palestinese – è probabilmente il maggiore significato di quest’azione legale: smascherare l’assenza di contenuto concreto di una serie di norme internazionali; interrogare l’applicazione di standard differenti quando si tratta di proteggere cittadini di differenti aree geopolitiche – osservazioni che la guerra in Ucraina aveva già sollevato; denunciare l’impunità garantita, colpevolmente, ad Israele dalla comunità internazionale.
LA CORTE HA RIBADITO che non si tratta di una decisione sull’accusa di «genocidio», ma è evidente che – nel caso il giudizio di merito lo confermi – tutti gli stati che hanno appoggiato Israele saranno ritenuti complici della violazione della Convenzione. Questo sottintende che Germania, Regno Unito e Stati Uniti debbano assumersi le proprie responsabilità. Ma anche tutti gli stati che non hanno dichiarato il proprio appoggio all’azione legale contro Israele. Nel suo comunicato stampa il Dipartimento per le Relazioni internazionali e la cooperazione (Dirco) del Sudafrica dichiara: «Gli Stati terzi sono ora consapevoli dell’esistenza di un grave rischio di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza. Quindi devono anche agire in modo indipendente e immediato per prevenire questo genocidio e per garantire di non violare essi stessi la Convenzione. Ciò impone necessariamente l’obbligo per tutti gli Stati di cessare di finanziare e facilitare le azioni militari di Israele, che sono plausibilmente genocide».
L’azione giudiziaria sembra aver istituito una corte internazionale pubblica, in cui la società civile globale è chiamata a far pressione perché i governi occidentali rispettino i diritti umani e internazionali di cui ipocritamente si dichiarano difensori.
I SUDAFRICANI stanno invece vivendo un momento di grande orgoglio nazionale. Al South Africa Boycott, Divestment and Sanctions (SA-BDS) si dicono «orgogliosi che il governo sudafricano abbia portato il paese dell’apartheid davanti alla Corte internazionale di giustizia». Terri Maggott, membro della Palestinian Solidarity Campaign, ha aggiunto: «Il nostro appello per un “cessate il fuoco adesso” deve risuonare più forte che mai. Spetta a noi – persone di coscienza di tutto il mondo – sollevarci in un numero senza precedenti e chiedere la fine immediata del genocidio»
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Dopo l’Aja gli alibi e le conseguenze
La sentenza di ieri dichiara plausibile la violazione della Convenzione sul genocidio da parte dello Stato d’Israele, non ordina il cessate il fuoco
di Tommaso Di Francesco da il manifesto
Dalle macerie del diritto internazionale, dopo tante guerre che l’hanno devastato, e dell’Onu le cui sedi il governo israeliano ha bombardato, fa capolino la voce di una sentenza insieme storica e sibilante, quasi di svolta, ma che allo stesso tempo, per gli attuali rapporti di forza nel mondo peggiori della Guerra fredda, rischia di apparire come alta posizione di principio ma lontana dalla necessità di fermare subito la mattanza in corso a Gaza. Perché la guerra continuerà.
La Corte internazionale di giustizia dell’Aja, i principale organo giudiziario dell’Onu nelle controversie tra Stati, era chiamato ieri in questa prima sentenza non a decidere se quel che commette Israele è genocidio o meno. Ma «solamente» se aveva giurisdizione sul caso e se era accettabile l’imputazione per genocidio richiesta dal Sudafrica; se insomma in quello che è accaduto in questi tre mesi e mezzo nella Striscia di Gaza, dopo l’attacco criminale di Hamas del 7 ottobre, si può raffigurare una violazione della Convenzione contro il genocidio della quale è firmataria Israele stessa. Bene, la Corte, respingendo la richiesta di Israele di archiviare l’accusa sudafricana, dichiara che atti riguardanti l’offensiva militare israeliana «plausibilmente» raffigurano il genocidio, quindi accetta – e ci vorranno anni per sentenziarlo però – che lo Stato d’Israele sia imputato di genocidio all’Aja.
Non era scontato. Del resto era assai difficile nascondere i più di 25mila morti (finora) per gran parte civili, le migliaia di bambini uccisi, le decine di migliaia di feriti e mutilati, il 70% delle abitazioni rase al suolo, il sistema umanitario della Striscia fatto a pezzi, gli aiuti alimentari e sanitari negati per un milione e 700mila persone in fuga sotto le bombe e alla fame, mentre il personale sanitario e i giornalisti finisce nelle fosse comuni.
Il fatto non è da poco. Basta vedere la reazione del premier Netanyahu che accusa la Corte di «oltraggio» e di molti ministri israeliani, quello della sicurezza, il fascista Ben Gvir, che bolla la Corte dell’Aja come «antisemita», e quello della Difesa Yoav Gallant per il quale «la Corte è andata oltre accogliendo la richiesta antisemita del Sudafrica». E sì che a decidere per la risoluzione votata dai 17 giudici – con maggioranze da 15 a 2, o da 16 a 1 – ci sono ostati membri “indipendenti” ma di Paesi dichiaratamente filoisraeliani come Usa, Gran Bretagna Germania, Australia.
E basta ascoltare le reazioni, quelle palestinesi: l’esponente di Hamas Sami Abu Zuhri dichiara che la decisione della Corte «isola Israele»; l’Anp con il ministro degli esteri Riyad al Maliki «plaude alla sentenza a favore dell’umanità e alle misure provvisorie necesse arie, e vincolanti, ordinate dalla Corte contro Israele per evitare il genocidio»; e quelle della Commisione europea, Josep Borrell, Alto rappresentante per gli esteri, insiste quasi sullo stesso tema: «Le ordinanze della Corte di giustizia sono vincolanti per le parti e queste devono rispettarle: l’Ue si aspetta la loro piena, immediata ed effettiva attuazione».
Ecco il punto, la sentenza di ieri che dichiara plausibile la violazione della Convenzione sul genocidio da parte dello Stato d’Israele, non ordina il cessate il fuoco. La giudice americana Joan E. Donoghue, presidente della Cig ha altresì chiesto con chiarezza alle autorità israeliane di adottare «misure per prevenire atti di genocidio nella Striscia di Gaza», di «prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico a commettere un genocidio dei palestinesi», inoltra dà un mese di tempo a Tel Aviv per riferire alla Corte sulle misure prese, senza «alterare prove», e Israele deve consentire subito e in modo efficace l’ingresso degli aiuti umanitari. La Corte, che ha chiesto anche la liberazione degli ostaggi, obbliga dunque Israele ad adottare misure per proteggere i palestinesi. Ma, fatto dirimente, non gli ordina di porre fine alle operazioni militari nella Striscia di Gaza.
Chi può farlo allora? Né serve ricordare che la stessa Corte invece nel 2022 impose il cessate il fuoco alla Russia per la guerra all’Ucraina, perché l’imposizione fu tutt’altro che ascoltata. È abbastanza evidente che questa sentenza indirettamente, richiami il ruolo del Consiglio di sicurezza dell’Onu, già bloccato su questa crisi però dal veto Usa e ostaggio di Usa, Gran Bretagna, Russia e Cina.
Così accade che ieri sera l’Algeria, membro permanente dal 1 gennaio del Consiglio di sicurezza, ringraziando il Sudafrica, abbia chiesto la convocazione del massimo organismo Onu «per dare effetto vincolante alla decisione della Corte internazionale di giustizia sulle misure temporanee imposte all’occupazione israeliana».
Ecco che torna quel protagonismo e quella solidarietà post-coloniale di una parte del Sud del mondo che non dimentica i massacri coloniali nel nord-Africa, né Mandela che paragonava la liberazione dall’apartheid del Sudafrica a quella della Palestina, né il sostegno dei governi israeliani ai misfatti bianchi del regime razzista di Pretoria, né il genocidio tedesco degli Herero in Namibia; e che sa bene che la litania «due popoli e due stati» è una chiacchiera offensiva se non si riconosce che c’è un solo Stato, quello d’Israele, e che quello palestinese impedito con le guerre in questi decenni dai governi israeliani a cominciare dallo stesso Netanyahu – che ha sempre intrattenuto buoni rapporti con Hamas in chiave anti-Fatah -, ora è letteralmente cancellato dalla miriade di insediamenti coloniali che ne impediscono la continuità territoriale.
È un protagonismo che sfida sulla tragedia di Gaza apertamente gli Stati uniti – tra l’altro Biden, Blinken e Austin sono accusati da ieri in casa, da un tribunale della California, di concorso in genocidio con Israele . Perché da oggi in poi, se è «plausibile» che atti militari di Israele a Gaza siano genocidio, vuol dire che può altrettanto essere imputato di «plausibile genocidio». ogni nuovo veto, invio di armi e sostegno militare, ogni reticenza politica che riconosce la vita e i diritti dei palestinesi solo a belle parole.
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Per Gaza è stato un altro giorno di guerra e morte
La guerra non si ferma. 183 morti e «19 massacri» nella Striscia nel giorno in cui la Corte di Giustizia dell’Aja ha chiesto a Israele di proteggere i civili palestinesi. La tregua tra Israele e Hamas data per vicina invece è tutta da costruire
di Michele Giorgio da il manifesto
Una risposta, sul terreno, al diritto alla protezione dei civili di Gaza affermato dai giudici della Corte internazionale dell’Aja, l’hanno data ieri centinaia di israeliani che hanno bloccato per il terzo giorno consecutivo il valico di Kerem Shalom per impedire l’ingresso nella Striscia dei camion con gli aiuti umanitari per la popolazione palestinese in condizioni catastrofiche. Tra di essi diverse famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza – ieri Hamas ha diffuso un video con tre di loro, tutte giovani donne – ma anche semplici cittadini israeliani mobilitati dai movimenti «Tsav 9» e «Madri dei Combattenti» intenzionati a fermare il flusso di generi di prima necessità e medicine per Gaza finché tutti gli ostaggi non saranno rilasciati.
Mercoledì, il primo giorno delle proteste, solo nove camion erano riusciti ad attraversare a Kerem Shalom, mentre 114 sono stati dirottati al valico di Rafah tra l’Egitto e Gaza. Ieri decine di autocarri, alcuni dei quali con la bandiera egiziana, sono rimasti fermi in fila per ore. Una manifestante israeliana ha definito un «fallimento morale» la consegna degli aiuti ai civili palestinesi che, a suo dire, «coprono i crimini di Hamas». Lei e altri hanno invitato gli israeliani a «venire al valico di frontiera e fermare con i loro corpi questi aiuti umanitari per i palestinesi» ed esortato il premier Netanyahu a «mostrare più coraggio», ossia a respingere le pressioni Usa. L’Amministrazione Biden, infatti, aveva chiesto al governo israeliano di facilitare l’ingresso dei camion a Gaza e di impedire il blocco degli aiuti. Ma, rivelano i media israeliani, nella vicenda si è inserito a gamba tesa il ministro della Sicurezza, estremista di destra e visceralmente antipalestinese, Itamar Ben Gvir che ha ordinato alla polizia di lasciare ampia libertà a «Tsav 9» e «Madri dei Combattenti».
Di tutto ciò che accade a Kerem Shalom, oltre due milioni di palestinesi non sanno nulla, presi come sono dal garantirsi ogni giorno la sopravvivenza tra bombe, cannonate e fame, senza contare la difficoltà a mantenere i contatti con il mondo esterno perché la rete funziona ormai a singhiozzo e le linee telefoniche spesso sono mute. Pochissimi hanno potuto seguire le notizie all’Aja. Per loro la giornata di ieri è stata uguale a giovedì e quella di oggi non sarà diversa da domani. L’offensiva militare israeliana continua e si allungherà la scia di morte e distruzioni. La Corte più importante al mondo non ha chiesto di fermare la guerra come speravano i palestinesi. Tra giovedì e venerdì cannonate e bombe hanno ucciso 183 persone secondo i dati del ministero della sanità, portando il bilancio totale dei morti palestinesi dal 7 ottobre a 26.083. L’offensiva israeliana solo ieri ha compiuto «19 massacri contro famiglie a Gaza», riferisce l’agenzia di stampa palestinese Wafa.
Gli aiuti scarseggiano ovunque a Gaza, però nel nord, martoriato e difficile da raggiungere per i divieti dell’esercito israeliano e i combattimenti, la fame perseguita migliaia di famiglie. Le rare consegne di generi di prima necessità sono prese d’assalto da disperati e affamati. I funzionari delle Nazioni unite che riescono occasionalmente ad andare a nord, raccontano di persone magre con gli occhi infossati. Si rischia la carestia. «La situazione alimentare nel nord è orribile. Non c’è quasi cibo e tutti quelli con cui parliamo chiedono qualcosa da mangiare», racconta Sean Casey, coordinatore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Gaza. I medici riferiscono di bambini nati malati da madri malnutrite, neonati che perdono peso, di donne che non possono allattare e di pazienti troppo deboli per combattere le infezioni. L’Unicef prevede che nelle prossime settimane più di 10.000 bambini a Gaza rischieranno il deperimento che può arrestare la crescita fisica e lo sviluppo del cervello.
Anche nel sud la gente non ha cibo a sufficienza e quando lo trova ha prezzi anche dieci volte più alti rispetto a quattro mesi fa. Le malattie sono in agguato. Circa il 66% dei palestinesi nella Striscia di Gaza soffre della diffusione di infezioni trasmesse dall’acqua come la diarrea e le malattie intestinali, denuncia l’Autorità palestinese per la qualità ambientale. La situazione è talmente tragica, che il capo dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, parlando delle condizioni «infernali» a Gaza, si è emozionato. «La guerra non porta soluzione – ha detto visibilmente scosso -, porta solo più guerra, più odio, più agonia, più distruzione. Quindi scegliamo la pace e risolviamo questo problema politicamente». Per la rappresentante di Israele all’Oms, i commenti di Tedros sarebbero un «completo fallimento della sua leadership». E ha accusato il capo dell’Oms di aver abbandonato gli ostaggi israeliani a Gaza. Parole che Tedros ha respinto con forza. Sotto pressione in queste ore è anche l’agenzia dell’Onu che assiste i rifugiati palestinesi, l’Unrwa, che ha aperto un’indagine, su sollecitazione di Israele, su alcuni suoi dipendenti sospettati di coinvolgimento nell’attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud dello Stato ebraico in cui sono rimasti uccisi circa 1200 israeliani. «Per proteggere la capacità dell’agenzia di fornire assistenza umanitaria, ho preso la decisione di annullare i contratti di lavoro di questi dipendenti e di avviare un’indagine per stabilire la verità», ha annunciato Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Unrwa.
Commentando le decisioni prese all’Aja, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant si è scagliato contro la Corte internazionale di Giustizia, affermando che Israele «non ha bisogno di lezioni di moralità». Più di ogni altra cosa, Gallant ha promesso che «le forze israeliane continueranno ad operare per smantellare Hamas e restituire gli ostaggi alle loro famiglie». La tregua di cui si parla – 35 giorni, forse due mesi in cambio della liberazione degli ostaggi – non appare affatto vicina nonostante il coinvolgimento nelle trattative tra Israele e Hamas del capo della Cia Williams Burns, del Mossad David Barnea, del premier e del premier e ministro degli esteri del Qatar.
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