In carcere ogni oggetto è uno strumento ed ogni strumento è un rifugio.
di Luigi Travaglia* da il manifesto
In carcere ogni oggetto è uno strumento ed ogni strumento è un rifugio. Le cassette della frutta impilate diventano comodini, le scatolette del tonno coltelli, i cartoni delle banane scaffali per l’armadietto, gli elastici delle mutande lacci per tenere insieme i pezzi di uno sgabello rotto.
La creatività dei detenuti, di chi non può avere ciò di cui ha bisogno, lavora per trasformare oggetti inutili in oggetti utili.
La sfida quotidiana contro tutte le oppressioni che siamo costretti ad abitare ha i suoi strumenti proprio in quegli oggetti attraverso i quali si incarna un’idea di normalità. In cella ogni oggetto ha tante vite, ognuna delle quali esplica una funzione fondamentale per evadere il tempo. Tutto ciò che di materiale ci passa per le mani può contribuire a riscrivere l’ordine delle giornate.
Solo chi è passato per il carcere può capire quanto può essere avvilente non avere un asciugamano ed essere costretti ad asciugarsi la faccia con una maglietta sporca di due giorni, o avere la stessa biancheria intima addosso per una settimana. Sono situazioni drammatiche che aumentano l’intensità del tempo passato in reclusione. L’impossibilità di potersi prendere cura di sé agisce con un’immediatezza ed una forza disarmante sia sul corpo che sull’anima, scavando lentamente e costantemente sempre più a fondo nello sconforto.
Le immagini che stanno facendo il giro dei programmi televisivi di Ilaria Salis in catene davanti al giudice, mani e piedi incatenati, con la polizia con i passamontagna a scortarla, sono terribili. Ma nel trattamento ungherese di inumano c’è tutto quello che non vediamo e che facciamo fatica ad immaginare. Come ci si sente ad andare in bagno senza porta, con un lavabo di trenta centimetri in alluminio, con altre quattro persone in sei metri per due di cella? L’equilibrio che bisogna adottare per non lacerare completamente il sistema nervoso in carcere è assai precario già di per sé, nelle condizioni ungheresi richiede uno sforzo sovrumano. Il comportamento delle autorità magiare trascende la reclusione per come deve essere, è lesivo nel profondo della dignità della persona, minando violentemente e volontariamente la sanità mentale e fisica. Non avere la possibilità di lavarsi i denti per una settimana, o non avere carta igienica per cinque giorni consecutivi, sono gravi mancanze con un riverbero enorme.
In Italia per i detenuti non è una mania compulsiva, come molti credono, tenere la cella pulita e passare lo straccio ogni giorno, è un’azione attraverso la quale passa la possibilità di affermare concretamente che la dignità oltre ad essere un ideale è anche una condizione. Laddove possono, i detenuti agiscono nel loro piccolo per riprendersi un po’ di normalità: una tovaglia, una tavola apparecchiata, uno straccio pulito, sono tutte cose che la stragrande maggioranza di noi ritiene fondamentali per autodeterminarsi in una condizione di privazione della libertà. Circondarsi di strumenti utili al proprio vivere è ribadire una volta ancora la parità di cittadinanza dei reclusi rispetto ai civili.
Gli oggetti svolgono anche una funzione centrale per la socialità. Un esempio banale è la macchinetta del caffè, cuore pulsante di ogni cella, primo indizio per capire se una cella è abitata o meno: basta vedere se c’è o non c’è. La moka è il requisito fondamentale per invitare qualcuno in cella, per accogliere gli ospiti, o siglare la conclusione di un dissidio risolto, “ti faccio un caffè”, è solidarietà, accoglienza e comprensione. Il valore simbolico degli oggetti in carcere è fortissimo, sono le cose concrete che ti aiutano ogni giorno ad andare avanti senza la paura di ricadere indietro. A volte cambiare carcere o cambiare reparto equivale a perdere tutto ciò che sul tempo si era costruito. Nessuno può immaginare lo sforzo che Ilaria Salis sta facendo per rimanere integra in questa tempesta che la sta travolgendo, sradicata completamente dalla cultura e dal diritto, privata degli oggetti necessari alla cura personale, abbandonata in un contesto disumano troppo vicino e troppo reale per essere tollerato. Contesto al quale nessuno di noi è abituato, né si vuole abituare a tollerare.
*Luigi Travaglia è un nome di fantasia dietro il quale si nasconde uno dei 60.166 detenuti nelle carceri italiane.
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