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Estremismo della “sicurezza” e progetto autoritario

Commento al recente “pacchetto sicurezza” a cura degli “Studi sulla questione criminale”

A cura della Direzione di SSQC

Se una cosa ha caratterizzato fin dall’inizio questo governo, esponendolo alla nostra attenzione critica, è stato il dare risposta a ogni fenomeno, individuato come declinabile nei termini della trasgressione e della minaccia alla sicurezza, col diritto penale. Così è stato per il decreto anti-rave, con sanzioni estese all’assembramento di qualche decina di persone; per l’imbrattamento (peraltro lavabile) di opere d’arte – misura destinata agli attivisti di Ultima Generazione –, per la criminalizzazione della genitorialità surrogata, per le restrizioni contro i migranti introdotte dal “decreto Cutro”, per l’inasprimento delle misure repressive contro il piccolo spaccio e il consumo di sostanze. Il picco di questa tendenza era stato recentemente raggiunto dal cosiddetto “decreto Caivano”: una serie di provvedimenti punitivi, limitativi ed espulsivi destinati ai minori, con il risultato di tornare a spalancare per gli stessi le porte del carcere, di sottoporre all’attenzione della repressione istituzionale anche i minori di 14 anni, anticamera della più volte preconizzata imputabilità, fino a prescrivere il carcere per i genitori in caso di elusione dell’obbligo scolastico, con immaginabili fulgidi effetti sul futuro dei minori stessi. Si è entrati già così, a gamba tesa, in uno dei territori – il minorile – da decenni più aperto alla decarcerizzazione e allo sviluppo di politiche alternative, anche come sperimentazione di interventi riformatori destinati agli adulti, ispirati da una cultura più sensibile alle problematiche sociali e alla tutela dei diritti. Ma tutti questi provvedimenti erano, almeno in apparenza, occasionali, in quanto motivati da specifici eventi di cronaca, che si prestavano a far vibrare le corde del populismo penale, approfittando di ogni occasione per riaffermare i luoghi comuni più retrivi e conservatori. Ma con quest’ultimo “pacchetto sicurezza” (per ora tre D.D.L. approvati dal C.d.M. 16/11/23) si è saltato il fosso.

Non il nemico di turno, come di solito, ma mettendo insieme di punto in bianco, senza alcuna urgenza o emergenza particolare, una variegata compagine di figure negative, facilmente rappresentabili come “pubblici nemici”, con l’unico comun denominatore di essere evocabili per sollecitare le reazioni più istintive e irrazionali del sentire diffuso. Borseggiatrici (ovviamente donne rom), accattoni, occupanti di case, truffatori, graffitari, migranti, manifestanti con ostruzione stradale, usurai, e, a mo’ di inevitabile suggello simbolico, mafiosi e terroristi. Non ce n’era alcun bisogno. I dati descrivono l’Italia come il paese più sicuro d’Europa. Gli omicidi, se escludiamo i femminicidi, sostanzialmente stabili, e le morti sul lavoro, in crescita, sono in costante decrescita, così come i reati predatori non segnano certo un trend ascendente. La risposta a questo assemblaggio di urgenze sollecitate va da sé, come prevedibile: più carcere, pene più severe, più limitazioni e allontanamenti, ma soprattutto più poteri alle FF.OO. Con riferimento a queste ultime, si prevedono pene più severe per resistenza, anche passiva, violenza, minaccia a pubblico ufficiale; aumento di organico, consolidamento di ruolo con facili avanzamenti in carriera, miglioramenti retributivi e assistenziali; maggiori poteri di intervento, coordinamento accentrato; il tutto in accordo con le pressanti richieste dei più influenti sindacati di categoria, detentori di un filo diretto con il governo, e sullo sfondo della già proposta revoca, o svuotamento, del reato di tortura.

Si direbbe che la tutela delle FF.OO. risulti il fulcro di questo insieme normativo, assurgendo, come mai prima, a valore prioritario, per non dire assoluto, con il suggello del dichiarato orgoglio, in merito, della premier. A conferma di ciò, particolare rilievo assume l’autorizzazione, senza specifico porto d’armi, a tenere con sé un’ulteriore arma (però più “leggera”) fuori servizio. Anche se non ci è dato saperne di più, vari possono essere gli ipotizzabili motivi di questa disposizione: mobilitazione costante per l’ordine pubblico, rafforzamento di status e di identità di ruolo, conseguimento di un’indennità aggiuntiva, estensione del controllo armato del territorio, rassicurazione simbolica, maggiore deterrenza verso la criminalità, e altro ancora. Altrettanto rilevante è l’accentramento governativo della regolamentazione delle polizie locali, per prevenire, come già accaduto, distonie rispetto alle indicazioni centrali e temute aperture riformatrici. Due disposizioni appaiono particolarmente significative dell’orientamento reazionario del “pacchetto”.

Il reato di “rivolta nelle carceri,” che prevede “atti di resistenza, anche passiva (quindi anche uno sciopero della fame?) all’esecuzione degli ordini impartiti dalle autorità; la pena prevista è la reclusione fino a 8 anni per gli organizzatori e fino a 5 per i partecipanti). C’è qui tutto il sapore di una misura preventiva, ma al contempo esasperatamente repressiva, rispetto alle temute conseguenze di un più che prevedibile e consapevolmente ammesso incremento del sovraffollamento, inevitabile conseguenza della raffica di aumenti di pena e di nuovi reati introdotti. Ma anche del previsto peggioramento delle condizioni detentive, a causa delle restrizioni recentemente applicate, in primis con la quasi totale revoca della sorveglianza dinamica e la conseguente chiusura anche diurna delle celle. Ma a ciò si aggiunge una disposizione particolarmente inquietante: l’introduzione del reato di “istigazione alla rivolta nelle carceri” anche con scritti diretti ai detenuti. Questa fattispecie potrebbe arrivare a perseguire semplici manifestazioni di opinione e di critica, per arrivare a limitare la libertà di pensiero, di comunicazione, di stampa, tanto più se interpretata estensivamente o strumentalmente, a fronte di particolari situazioni critiche (es. il caso Cospito) o di possibili mobilitazioni.

Il quadro legislativo negli ultimi decenni, in materia penale e penitenziaria, si è caratterizzato per un continuo alternarsi di tendenze riformatrici e contro riformatrici, all’insegna di un sostanziale immobilismo, pur rappresentando, a tratti, specie dopo la nota sentenza Torreggiani del 2013 con cui la CEDU ha condannato l’Italia per le condizioni inumane delle sue carceri, orientamenti riformatori, anche con finalità deflattive, peraltro di fatto inefficaci. La retorica di questi decreti sicurezza affossa apertamente questo approccio, con un salto di qualità che lo addita di fatto come irresponsabile e pericoloso, con buona pace per minimalismo e neogarantismo in campo penale, per non dire della prospettiva abolizionista.

In questo senso è significativo che lo stesso reato sia previsto per le rivolte nei CPR, dove le persone sono detenute senza aver commesso alcun reato e subito alcuna condanna; a conferma di un unico modello disciplinare di gestione delle istituzioni totali, a prescindere dal titolo di detenzione, e dell’assimilazione dei migranti irregolari reclusi tout court al ruolo di delinquenti. In secondo luogo consideriamo la reintroduzione del carcere (se pure in ICAM), su decisione del giudice, per le donne incinte o con prole fino ad un anno, con abolizione del previsto differimento obbligatorio di pena, così da impedire, come ebbe testualmente a dire un noto ministro, che le “ladre incinte” restino impunite e in libertà. Non è solo il posporre il senso di umanità alle istanze punitive e propagandistiche, è stigmatizzare lo stesso come segno di lassismo “buonista” verso i “nemici” di turno, in piena sintonia con la cultura della criminalizzazione delle ONG nella gestione dei flussi migratori.

Se Massimo Pavarini parlava in un suo noto scritto di “Grottesco della penologia contemporanea”, non riusciamo ad immaginare quale altro termine più appropriato avrebbe ora escogitato. E se abbiamo a lungo indagato le “frontiere mobili” della penalità, oggi siamo di fronte a un loro plateale avanzamento. Vengono così ignorati deliberatamente noti studi e ricerche, anche istituzionali. Basti pensare a quanto risulti confermato come l’incremento della severità delle pene non valga a influenzare i trend della criminalità. O a quanto problematico e complesso sia il rapporto tra sicurezza e libertà. Per non dire della totale rimozione delle problematiche sociali che stanno alla base del disagio, in primis giovanile, così come della costruzione sociale delle devianze, tali da imporre la necessità di adeguate politiche di welfare.

Vale la pena, a questo punto, di mettere a fuoco alcuni aspetti che caratterizzano la sostanza della normativa in oggetto. Da molto tempo ci siamo abituati a interpretare il panico morale sollevato attorno all’enfatizzazione delle emergenze di turno come copertura di gravi problemi economico-sociali, dovuti alle incapacità e inadeguatezze del sistema politico, insieme al prevalere sistematico degli interessi dominanti. Queste misure ripropongono certo questo modello, in modo emblematico. Ma c’è di più: la potenza di fuoco espressa dall’insieme delle stesse ci impone un approfondimento analitico. Se la tensione tra insoddisfazione delle necessità materiali e bisogno di rassicurazione rispetto a più gravi pericoli per la “sicurezza”, che il potere dà mostra di garantire, costituisce il terreno su cui si gioca la partita della ricostruzione del consenso, siamo qui di fronte a una dinamica in buona misura inedita (almeno dagli anni di piombo a questa parte). Non basta infatti rilevare che questo “pacchetto” costituisce un’“arma di distrazione di massa” rispetto all’incapacità di questo governo di far fronte ai molti, drammatici, problemi sul campo, dalle emergenze belliche, alla crisi climatica e ambientale, all’ingovernabilità dei flussi migratori, fino alla pochezza delle politiche economiche.

Non bastano pochi dati sbandierati da esponenti governativi per coprire il deprimente quadro del paese documentato dai recenti rapporti CENSIS e SVIMEZ. Ma neppure possiamo limitarci a interpretare la normativa in oggetto come la nota e semplice copertura della crisi, all’insegna del populismo penale. La concentrazione a un tempo differenziata e totalizzante dei provvedimenti, senza alcun motivato fondamento, rappresenta qualcosa di più di un semplice squilibrio verso il polo sicuritario delle strategie di organizzazione del consenso. Siamo di fronte a un volume tale da far pensare alla costruzione di un senso comune assoluto e incontestabile, incentrato sulla ovvietà di ciò che non può essere che detestato e temuto. Un discorso univoco che non ammette perciò obiezioni e tentennamenti, né tantomeno possibili emendamenti. Questa rischia di essere l’anima più profonda di una politica che, pur blandendo l’inevitabile disagio creato dall’enfatizzazione di necessitanti negatività riferite a soggetti rappresentati come reietti ed esecrabili, gioca una strategia nella sostanza duramente autoritaria. C’è il sospetto che si intenda conseguire a priori un indefettibile credito di credibilità e di consenso, che garantisca stabilità a fronte di crisi incontrollabili più o meno imminenti: quasi un serbatoio di dispositivi di stabilizzazione. In sintesi la compattezza di questo intervento legislativo è tale da autogiustificarsi come assoluto e fuori discussione. Ma soprattutto, riteniamo che il senso più profondo e pericoloso di queste disposizioni stia nel fatto che esse si associano strategicamente non solo con gli evidenti contrasti con la Carta costituzionale (es. artt. 2, 3, 13, 27), ma ancor più con un complessivo disegno autoritario, come emerge dal progetto di premierato e di manipolazione della rappresentanza parlamentare, con conseguente ibernazione del Parlamento stesso. Il diritto penale storicamente è sempre stato uno strumento privilegiato per imporsi senza limiti. Un “diritto penale di lotta”, preventivamente rafforzato contro le prevedibili opposizioni sociali e politiche.

Siamo verosimilmente di fronte al tentativo di imporre una pedagogia e una cultura dell’assuefazione alla subordinazione, come terreno favorevole al rafforzarsi di un regime apertamente autoritario; una rivincita storica sulla Repubblica nata dalla Resistenza e sulle riforme degli anni Sessanta e Settanta, applicative della Carta costituzionale, che ne uscirebbe già qui destrutturata e stravolta, come anteprima di un intuibile disegno eversivo, di radicale sovvertimento. Infatti chi ha pensato queste novelle legislative non può non esser consapevole della loro sostanza anticostituzionale, tanto da far ritenere che abbia voluto, comunque, stringere i tempi del disegno autoritario. Temiamo sia questa la natura, neppure tanto implicita, dei provvedimenti in atto. Se ciò si traducesse in simbiosi tra una narrazione pubblica rituale e strumentale di problemi sociali drammatici e assuefazione demotivata e assenteista dell’opinione diffusa, il gioco sarebbe chiuso. Di contro, a tale prospettiva gli studi nazionali e internazionali sulla percezione dell’insicurezza e la reazione alla criminalità rivelano sistematicamente incertezze, ambivalenze e contraddizioni ben lontane dal preteso massivo consenso alle politiche securitarie. Si tratta di valorizzare e approfondire questi aspetti, con un cambio di rotta di cui anche le forze di opposizione sono chiamate ad assumersi la responsabilità.

Editoriale (2/2023) Estremismo della “sicurezza” e progetto autoritario: in margine al recente “pacchetto sicurezza”, in Studi sulla questione criminale

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