Un racconto tratto da testimonianze vere
di Marco Chiavistrelli
Nacqui dalla parte sbagliata del fiume, o del mare o della vallata, dove gli alberi erano secchi e il respiro lento, soffiato sulle sponde di un torrente morto, ricoperto di spine di amianto e di ferraglie ottuse, rivolte sotto un cielo di piombo ammorbato da scarichi e veleni. La mia casa erano dieci case scolpite una sull’altra rivolte al cielo ma prive dei benefici del paradiso, affogate in un silenzio di pietra e condotte dentro un intricato labirinto di scale campanelli dismessi antri sporchi, balconi scrostati, muretti franati. Sotto correvano strade oscene con pochi lampioni, già ridotte a nastri opachi percorsi da auto vecchie e motorini rombanti. I miei erano già morti da vivi, senza lavoro e senza protezione, mio padre faceva qualche lavoretto saltuario, poi si smarriva in un destino così disperato ed entrava ed usciva di galera, l’unico posto dove calmava la sua eterna sete di futuro. Mia madre ogni tanto faceva le pulizie e badava a me e ai miei due fratelli più una sorella, tutti nati in questa incombente e straripante miseria. Neanche gli autobus arrivavano in questa lugubre periferia, affogata nel silenzio che come una lebbra sottile si insinuava in ogni casa, rendeva triste ogni pranzo, mortale ogni notte dove gli incubi della povertà si riaffacciavano a dire che nessuno si era occupato e si sarebbe occupato mai di noi.
Alla scuola materna andai poco o perché non mi accompagnavano o perché a nessuno pareva fosse importante andarci, poi alle elementari vissi subito nel ruolo pesante dell’asino, del mai alfabetizzato prima di arrivare, del cervello già morto prima di respirare, mai attivato, stimolato, educato dalla pazienza e dalla intelligenza dei genitori. Gli anni iniziarono a protrarsi impercettibilmente uguali, e si allungarono nella mia mente come pesanti sogni di conferma e di fallimento, persi diversi anni anche per le assenze. Finite a malapena le medie con ogni tipo di spinta e sopportazione, iniziai a frequentare il bar dove come a un’università del crimine i ragazzi più grandi ti insegnavano come rubare per strada o come aiutare gli spacciatori a veder un po’ di roba. Ma già da piccolo mia madre mi portava a rubare negli alimentari, lei distraeva i venditori e io dovevo infilarmi qualcosa nel grembo, sennò eran botte. Tutto il quartiere dove abitavamo respirava questa malsana aria di abbandono e arrangiamento, a cui ognuno reagiva come poteva, percorso dalla stessa corrente di fame e di miseria che ti rende simile a un animale. Provammo con gli amici una rapina in una farmacia del centro ma imbranati come eravamo ci beccarono ed iniziò per me un carcere minorile, dove trovai tutti ragazzi della mia risma ed estrazione.
Finii la pena e tornai fuori dove ripresi a frequentare lo stesso posto nello stesso modo ottuso e senza gloria. Quando dopo vari furtarelli e tentativo di spaccio mi beccarono con una modica quantità di marijuana comunque vietato dalla legge, mi si aprirono le porte del carcere vero, un incubo senza fine e pace, un delirio della ragione, un mostro nell’Italia del 2000. Eravamo strippati nelle celle come formiche in un formicaio. Addossati l’uno all’altro a darci noia a sudare insieme a soffrire insieme a morire insieme in una promiscuità assoluta caotica corrosiva, priva di qualsiasi spazio individuale. Scendevamo a turno dalle brande, di più non si poteva, per concederci qualche passo nel nulla, nessuno ci cercava durante il giorno, non c’erano lavori o rieducazioni, ma solo punizioni dell’anima della mente e del cuore. Il cesso era prospiciente e ognuno defecava i suoi suoni alle orecchie di tutti, il rancio faceva schifo vomitevole mezzo scaduto, si era obbligati a integrare con acquisti a prezzi folli tanto per rubare anche la fame ai più poveri. In carcere c’erano solo persone come me o chi stava peggio di me, stranieri ridotti al lumicino dalle leggi del rifiuto quando arrivavano dai barconi della morte e non venivano accolti o inseriti, ma gettati in pasto alle stazioni e alla strada, detenuti non perché stranieri, ma perché poverissimi, come lo erano gli italiani in carcere, tutti poveri. In galera c’erano moltissimi meridionali in proporzione maggiore al loro numero effettivo come abitanti, ma si spiegava bene, altro che razzismo, erano solo più poveri. E poi analfabeti o semianalfabeti, nessun laureato, c’era la barzelletta che nelle carceri non c’è neanche uno che abbia fatto il liceo classico, ma altro che sfottò, era vero terribilmente vero. Non parliamo poi dei ricchi o anche degli occupati, semplicemente non conoscevano il carcere, i loro delitti ben peggiori dei nostri erano al coperto di uffici, industrie, banche, centri di commercialisti astuti o di avocati superpagati, le loro truffe, ruberie, corruzioni, evasioni, atti contro i lavoratori o contro l’ambiente, le disonestà più triviali erano impunite.
C’era come me una bella colonia di piccoli spacciatori da strada, i grandi lo facevano negli uffici ben protetti o in lussuose ville o in feste superpagate, unito a una colonia di tossici disperati e sempre alla ricerca della dose. La droga sia chimica che medicinale era ovunque distribuita spacciata venduta, se ne cibavano a fiotti gli agenti di sorveglianza, spesso cattivissimi, ma sballati come terrazzi, noi alternavamo prodotti da sballo anche artigianale a dosi massicce di psicofarmaci che ci somministravano a pioggiaper sedarci tenerci buoni; hai presente a parte le brevi ore d’aria, tenere per giorni quattro cinque sei sette esseri nel pieno degli anni stretti come spaghetti e chiusi nell’obbligo della noia della inattività più mortale in una antro claustrofobico e piccolissimo, pesantemente sovraffollato!
Altro che rieducazione in quel carcere non c’erano lavoro o attività di studio o lavoro, che per ora son poche e minoritarie, e neanche c’erano psichiatri o educatori o assistenti sociali, negli anni ne avrò visto uno. In carcere entravano al 90% disoccupati. Rinchiusi nei recinti come polli di allevamento, l’estate brandiva i suoi tentacoli su di noi quando il clima impazziva e la calura nelle bare di cemento e ferro spesso senza scurini ci arroventava ci distruggeva e faceva ansimare. Sputavamo sangue fatica a respirare a sentirsi vivi, col termometro che deflagrava e ci cuciva gli uni addosso a glia altri in un ammasso velenoso di sudori odori e carni umane, in un oleoso intreccio di corpi affogati nel bollore disumano. Naturalmente i ventilatori a mano teli dovevi comprare se avevi i soldi. D’inverno l’acqua calda veniva un giorno sì e dieci no, e si facevano docce gelate a ricordarci del freddo che ci aveva accolto da neonati ed accompagnato da adolescenti. C’era chi tentava di violentarti ma di questo non dirò è cosa troppo intima. Alle cinque del mattino spesso c’era una sveglia improvvisa e gli agenti ci portavano dove non funzionavano le telecamere e ci picchiavano senza pietà e senza ragione, in un tumulto di pedate offese pugni e bastonate. Dopo ci riportavano umiliati a ricaderci gli uni agli altri addosso, come larve bavose di nulla e di paura. Una volta risposi male a una guardia durante un pestaggio e finii un mese in isolamento, l’incubo degli incubi. Una bara di due metri e per tre dove i disgraziati del 41 bis muoiono da vivi, una claustrofobia terrificante disumana a giornate intere col cemento a venti cm da tutte le parti, un tentativo di farti impazzire e gridare di paura di te stesso di come reagirai ad essere murato vivo. Forse i racconti della letteratura sui sepolti vivi per sbaglio rendono l’idea. 23 ore al giorno nella bara. La cosa più incredibile era il numero di suicidi, ma spesso di gente entrata da pochi giorni o con pene irrisorie da scontare, che sarebbe uscita a poco, gente che non sopportava questo incubo, questa morte da vivi, che dava di matto si deprimeva, veniva non curata affatto e dopo poco, anche ragazzini giovanissimi, ingoiava il gas dei fornellini o si appiccicava con un lenzuolo alle sbarre. Questi erano omicidi del carcere ma il carcere era gestito dallo stato e dicono dalla democrazia, quindi erano omicidi di democrazia e le nostre sofferenze ingiustificate i nostri dolori inflittici con tortura dallo stato democratico.
Quando alla fine uscii odiavo il mondo che mi aveva partorito e giurai di vendicami della società che mi aveva regalato solo dolore disperazione miseria e violenza sconfinata e cattiva, tortura pervicace, reiterata multiforme annientante totale.
Qui proprio sentii cosa mi aspettava fuori, nessun passaggio o accoglienza o possibilità di lavoro, nessun’agenzia statale a far da tramite, quindi solo il ritorno agli stessi ambienti che mi avevano generato e che unici erano disposti a risocializzarmi. Da allora la mia vita è un incubo entro e esco di galera, io stesso sono galera, ho l’odore della galera, gli occhi del detenuto, sono stato coltivato e preso dalla minoranza povera del paese, pochi milioni di disgraziati che forniscono praticamente tutti i carcerati, altro che indole criminale, si va in galera per povertà per ignoranza per assenza di affetti, lavoro ed educazione, spinti da una società che ha bisogno del carcere perchè non riesce ad eliminare la miseria e l’emarginazione dal suo tessuto. Il carcere come soluzione al problema della miseria. Perché in carcere erano tutti così, poveracci, i veri criminali quelli cattivi saranno stati dieci su cento, quelli che uccidevano per gusto, che stupravano, che terrorizzavano donne o bambini, i pedofili, i pluriomicidi. Il resto paccotaglia da reati sociali o da droga minore o dall’essere straniero.
Ma una cosa ve la dico perbenisti pronti a puntare il dito e a buttare via la chiave, che lo giuro tre volte e ne son sicuro otto, che lo affermo con forza e lo ribadisco con orgoglio, che lo grido al vento e lo ripeto sotto la pioggia e la tempesta, che qualsiasi stronzo della vostra risma nella mia condizione avrebbe fatto la stessa fine, sarebbe scomparso nello stesso baratro, affogato nella stessa melma. Per cui quando mi guardo nello specchio lo dico con orgoglio, è stato il mio pane e la mia pelle, la mia dimensione e il mio coraggio, la mia tendenza povera folle e cieca, si posso dirlo con sfrenato orgoglio: io sono galera.
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