Salpati dalla Libia in 85, alla deriva per 7 giorni, raggiunti finalmente dalla Ocean Viking che ne salva 25. Gli altri tutti morti. È la stessa nave sotto processo a Brindisi e sequestrata da Piantedosi. Ora ha a bordo oltre 200 naufraghi. Superstiti attaccati ai respiratori ma il governo costringe a navigare fino ad Ancona. E grazie a un trucco Frontex è al di sopra della legge
Poche ore dopo che la Ocean Viking di Sos Mediterranée aveva ripreso per i capelli la vita di 25 persone abbandonate in mezzo al mare su un gommone sgonfio, ma altre 60 erano già morte, e proprio mentre la guardia costiera italiana le chiedeva di soccorrere 200 migranti, ieri in un’aula del tribunale di Brindisi la stessa Ong ha dovuto difendere il suo operato. L’accusa? Aver salvato altri naufraghi senza obbedire ai libici. Che sia necessaria un’autorizzazione a evitare una strage non è scritto da nessuna parte, che Tripoli non sia un porto sicuro e la sua cosiddetta «guardia costiera» sia collusa con i trafficanti, invece, lo stabiliscono rispettivamente una recente sentenza della Cassazione e diversi rapporti Onu.
L GOVERNO ITALIANO, però, continua a bloccare le navi dei soccorritori con i tecnicismi più assurdi e a tenerle fuori gioco con le strategie più crudeli. Mentre le 85 persone partite poco più di una settimana fa dalle coste di Zawyia vagavano alla deriva nel Mediterraneo, morivano di fame e di sete, si lasciavano inghiottire dall’acqua salata ben tre navi umanitarie – Sea-Eye 4, Sea-Watch 5 e Humanity 1 – erano costrette in porto da qualche cavillo burocratico. E quando la finestra di beltempo ha fatto riprendere le partenze, circa 300 gli arrivi autonomi ieri a Lampedusa, nella rotta centrale non è rimasto nessuno: il Viminale ha spedito la Ocean Viking a 1.400 chilometri di distanza, nel porto di Ancona, con i superstiti ancora attaccati ai respiratori.
Prima o poi quello che da alcuni anni succede nel Mediterraneo sarà messo in ordine e le cose appariranno nelle giuste proporzioni. Fino a quel momento bisognerà assistere a udienze come quella di ieri a Brindisi dove l’avvocatura dello Stato per accusare la Ong ha detto testualmente: «La Ocean Viking ha ostacolato l’autorità libica che ha dovuto fermarsi per evitare perdite di vite dei migranti che si buttavano in mare». Un mondo alla rovescia a cui si può credere solo mettendo da parte i video che ritraggono le motovedette di Tripoli sparare verso i barconi o le navi umanitarie, i rapporti delle Nazioni unite sulle collusioni tra autorità libiche e trafficanti, la recente sentenza del massimo tribunale italiano che dice: consegnare i naufraghi ai libici è un crimine perché quel paese non è un porto sicuro.
IL PROCESSO APERTO nella città pugliese si basa su un paradosso: se anche la Ocean Viking avesse sottratto i migranti alla motovedetta di Tripoli e disobbedito ai suoi ordini si sarebbe comunque comportata in modo legittimo. «Se così non fosse – ha argomentato l’avvocata Francesca Cancellaro che insieme al collega Dario Belluccio difende la Ong – il sistema giurisdizionale sarebbe strabico: sanzioni penali per chi consegna le persone e sanzioni amministrative per chi non lo fa».
Quella brindisina è la prima occasione che ha la magistratura per analizzare un fermo disposto in base al decreto Piantedosi di gennaio 2023. Dopo ventuno detenzioni in vari porti dell’Adriatico e del Tirreno e venti ricorsi delle organizzazioni non governative finalmente un giudice, anzi una giudice, ha fissato l’udienza. E prima ancora ha sospeso il fermo scrivendo un’ordinanza che inizia a rimettere le cose nella giusta prospettiva: a proposito delle attività delle navi umanitarie dice che «implicano il perseguimento di obiettivi di indubbio valore ex se, in ossequio al sistema di valori costituzionali e del diritto internazionale consuetudinario cui l’Italia aderisce».
IERI LA GIUDICE Roberta Marra ha annunciato alle parti l’intenzione di chiedere loro delle memorie su un aspetto procedurale del decreto, ovvero l’automatismo della sanzione accessoria che in questo caso è il fermo amministrativo. Si tratta di una questione tecnica, radicata in una giurisprudenza consolidata secondo la quale bisogna garantire alla pubblica amministrazione la possibilità di proporzionare la punizione ai fatti. La norma anti-Ong non lo fa, per questo la giudice potrebbe sollevare quell’aspetto davanti alla Corte costituzionale.
Nel ricorso le difese chiedono che alla Consulta finiscano altri due punti del decreto. Primo: davvero Roma ha giurisdizione su una nave straniera in acque internazionali? La convenzione di Amburgo dice il contrario, sebbene l’Italia provi ad attribuirsi questo potere subordinandogli la concessione del porto sicuro di sbarco. E dunque il secondo punto: il governo Meloni sta provando a reinterpretare surrettiziamente le convenzioni internazionali attraverso la normativa interna? «Questo non è possibile. Le regole di interpretazione dei trattati, e la Costituzione, dicono il contrario: sono le norme interne che devono adeguarsi a quelle internazionali», afferma Belluccio.
NEI PROSSIMI GIORNI la giudice dovrà sciogliere alcune questioni preliminari, sulla competenza del tribunale e la legittimità del ricorso contro il solo fermo, e decidere se confermare o meno l’ordinanza di sospensione della detenzione, sebbene questa non sia più effettiva. Poi nella prossima udienza si capirà meglio quello che accadrà sulle questioni di legittimità costituzionale. Una cosa è certa: il destino del decreto Piantedosi passa da Brindisi.
«Superstiti attaccati ai respiratori ma ci mandano ad Ancona»
Valeria Taurino è direttrice generale di Sos Mediterranée, che gestisce la Ocean Viking. Ieri l’Ong era contemporaneamente in mare a salvare vite umane, dopo il drammatico soccorso di mercoledì con 25 superstiti e 60 dispersi prima dell’arrivo della nave, e in tribunale a Brindisi per opporsi a un precedente fermo amministrativo disposto sulla base del decreto Piantedosi con l’accusa di non aver obbedito ai libici.
Siete stati testimoni di una tragedia enorme. Cos’è successo?
Mentre stavamo andando verso la zona di ricerca e soccorso, mercoledì abbiamo avvistato col binocolo un gommone quasi sgonfio. Abbiamo fatto partire immediatamente l’operazione di soccorso. C’erano 25 persone: due prive di sensi, le altre in condizioni critiche. Le abbiamo portate a bordo e intanto abbiamo attivato il piano di gestione infortuni di massa. La nave diventa una specie di sala di ospedale. I due naufraghi incoscienti sono stati evacuati d’urgenza a Lampedusa con l’elisoccorso della guardia costiera. Per molti altri abbiamo usato respiratori e flebo. Ancora adesso alcune persone sono attaccate ai respiratori.
E in queste condizioni andate al porto di Ancona che dista 1.400 chilometri?
È grave che ci diano un porto così lontano. Abbiamo chiesto una riassegnazione più vicina ma al momento non ci sono riscontri. È grave perché è una scelta politica che da un anno a questa parte, sistematicamente, punta a tenere le navi Ong lontane dall’area delle operazioni. Ci considerano testimoni scomodi, peccato che quando questi testimoni scomodi non ci sono avvengono i naufragi.
I sopravvissuti cosa vi hanno raccontato?
Che erano partiti da Zawyia almeno sette giorni prima. In 85. Quindi mancano all’appello 60 persone. Le vittime sono morte di sete, disidratazione, ustioni.
Siete nel Mediterraneo centrale da tanti anni. Ritenete possibile che nessuno abbia visto quel gommone alla deriva per giorni?
Abbiamo ricostruito che il caso era stato segnalato alle autorità il 9 marzo da Alarm Phone. Il punto è che nessuno lo ha preso in carico e questo implica una responsabilità. Succede anche perché i mezzi di soccorso civili vengono messi in fuorigioco, con i fermi amministrativi o i porti lontani.
C’è il mistero di un messaggio Inmarsat lanciato dalle autorità italiane «per conto» di quelle libiche. Parla di 75 persone alla deriva da una settimana. Sembrano informazioni coincidenti con il caso, ma è partito dopo il vostro soccorso. Che idea vi siete fatti?
Non lo sappiamo. Anche perché i naufraghi prima ci hanno parlato di un centinaio di persone sul gommone, poi 75, poi 85. Sono ricostruzioni complicate. È difficile capire come sono andate precisamente le cose e se si tratti dello stesso caso, probabilmente non lo è. Quello che sicuramente possiamo dire noi è che al momento ci sono almeno 60 persone disperse.
I soccorsi che avete fatto dopo sono stati coordinati?
Sì, ne abbiamo fatti due: da 113 e 88 persone. Entrambi coordinati dalla guardia costiera italiana.
Temete un nuovo fermo amministrativo?
In teoria no, ma nelle ultime tre missioni ci hanno fermato ogni volta. Anche se noi agiamo in maniera molto attenta rispetto al coordinamento con le autorità competenti, comprese quelle libiche con cui è estremamente difficile.
A proposito dell’ultimo fermo, mentre ieri eravate operativi in mare vi trovavate anche nel tribunale di Brindisi per difendervi. Un giorno la guardia costiera vi coordina, un altro vi blocca la nave. Come è possibile?
È una scelta politica. C’è un accordo delle autorità italiane con quelle libiche. Guardia costiera e Viminale hanno deciso di dare credito al loro partner istituzionale, nonostante questo compia sistematicamente violazioni dei più basilari diritti umani sul proprio territorio. Che a livello internazionale è unanimemente riconosciuto come non sicuro. Infatti le motovedette libiche non fanno soccorsi, ma intercettazioni. Che sono illegali secondo il diritto internazionale. Lo sa l’Italia, lo sa l’Ue, eppure continua a succedere alla luce del sole.
Frontex è al di sopra della legge. Grazie a un trucco
Negli ultimi mesi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha scagionato in due casi l’agenzia europea Frontex per le violazioni a danno di persone migranti. In un caso la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso di un cittadino siriano posto su una zattera con altre ventuno persone dalle autorità greche e mandato illegalmente verso la Turchia mentre i velivoli di Frontex assistevano all’operazione lasciando che si svolgesse indisturbata.
Nonostante il ricorso presentasse anche la documentazione fotografica del respingimento raccolta dal gruppo di giornalismo investigativo Bellingcat, la corte ha ritenuto di non dover procedere contro Frontex per insufficienza di prove, tralasciando di considerare che durante un respingimento in mare è impensabile che i migranti siano nelle condizioni mentali e fisiche di riprendere la scena per poi eventualmente provare le violazioni a cui sono stati sottoposti.
Nell’altro caso la corte di Lussemburgo ha sostenuto che Frontex non aveva colpe per il respingimento illegale dalla Grecia in Turchia di una famiglia siriana. Sebbene fosse stato proprio lo staff di Frontex a mettere su un aereo la famiglia siriana separando i bambini dai genitori e impedendo loro di presentare domanda d’asilo in Grecia, la Corte ha detto che nel farlo stava solo sostenendo le autorità greche che avevano preso la decisione riguardante il trasferimento, e che dunque l’agenzia non aveva alcuna responsabilità.
L’opinabile posizione della Corte in queste ultime pronunce non suscita purtroppo alcuna sorpresa, dal momento che nessuno dei ricorsi presentati contro Frontex dalla società civile negli ultimi anni è sfociato in un avanzamento dei diritti dei migranti contro le violazioni dell’agenzia. Per comprendere questo stallo nella tutela giudiziale, non si può di certo invocare un’impeccabile gestione dei flussi migratori da parte di Frontex: in contrasto coi suoi obblighi di rispetto dei diritti fondamentali, il coinvolgimento dell’agenzia nei respingimenti e nei rimpatri illegali è stato ampiamente documentato sia dal giornalismo investigativo sia dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode.
Le ragioni di questa persistente impunità si annidano invece nella stessa architettura giudiziaria dell’Ue che ha creato un vicolo cieco per i migranti che chiedano protezione dagli abusi delle agenzie.
Le agenzie europee operanti nell’immigrazione (Frontex, l’agenzia europea per l’asilo e Europol) sono state istituite con lo scopo di supportare le autorità nazionali in diverse fasi della gestione delle frontiere. Tale compito però non sempre si traduce nella pratica in attività svolte sotto la supervisione delle autorità nazionali.
Lo staff Ue è infatti sempre più presente nelle fasi cruciali delle procedure alle frontiere quali l’intercettazione in mare, la comunicazione di informazioni agli sbarchi, la conduzione dei colloqui coi richiedenti asilo, il rimpatrio verso paesi terzi. In tutte queste fasi di interazione diretta coi migranti vi è la possibilità concreta di incorrere in violazioni, ma portare le agenzie di fronte a una Corte che le giudichi è un’impresa quasi impossibile.
Le strade in teoria sono tre. La prima sarebbe appunto il ricorso alla Corte di Lussemburgo che però, secondo quanto sostengono i trattati Ue, può rivedere gli atti delle agenzie europee solo se questi atti sono «finali» e non di mero supporto a decisioni nazionali. Ufficialmente infatti gli atti di Frontex e delle altre agenzie sono atti preparatori di misure nazionali, nonostante la loro influenza sia sempre più pervasiva e distinguere chi stabilisca e chi faccia cosa è estremamente difficoltoso. Ne è stato esempio la tragedia di Cutro, in occasione della quale la cooperazione tra Frontex e la guardia costiera italiana ha consentito a entrambi di fare a scaricabarile.
La seconda strada sarebbe portare le agenzie di fronte alle corti nazionali. Neppure questo rimedio è però praticabile, dato che, secondo l’orientamento consolidato della Corte di giustizia le corti nazionali non possono annullare gli atti dell’Ue e dei suoi organismi, al fine di salvaguardare l’omogeneità dell’ordinamento europeo. Anche le porte di Strasburgo rimangono chiuse: l’Unione Europea non è parte della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) e dunque le sue agenzie sono sottratte alla giurisdizione della Corte Europea dei diritti umani, nonostante tutti gli stati membri individualmente vi siano soggetti.
(articoli di Giansandro Merli e Agostina Pirrello da il manifesto)
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