di Luigi Manconi e Chiara Tamburello da La Repubblica
Giuseppe Uva è morto il 14 giugno del 2008 nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, a Varese, dopo aver passato la notte in una caserma dei carabinieri. Aveva 43 anni e, solo qualche ora prima che incontrasse la morte, stava trascorrendo una serata con gli amici in un bar, a bere e a guardare l’Italia giocare contro la Romania (in occasione dei Campionati europei di calcio). Dopodiché, Uva e l’amico Alberto Biggiogero, tornano verso casa a piedi ed è a quel punto che si accorgono di alcune transenne accatastate all’angolo di una strada.
I due, euforici a causa dell’alcol, spostano le transenne in mezzo alla via bloccando il traffico. Vengono avvistati da una pattuglia di carabinieri e prende avvio quella vicenda tragica che riportiamo, seguendo il racconto che ne farà il testimone oculare Biggiogero nella denuncia presentata il giorno dopo la morte di Uva. Dopo un breve inseguimento e una colluttazione, ai militari si aggiungerà l’equipaggio di un’auto della polizia. Uva e Biggiogero vengono portati alla caserma di via Saffi, dove convergeranno altre due pattuglie. In conclusione quattro vetture, ovvero due carabinieri e sei poliziotti, per due persone in evidente stato di ebbrezza.
Giunti in caserma, Uva e Biggiogero vengono separati. Il secondo, in sala d’aspetto, ascolterà nitidamente le urla di Uva, le sue richieste di aiuto e i rumori e i tonfi delle violenze cui sarebbe stato sottoposto. Chiama un’ambulanza, che non arriva. In compenso, dopo alcune ore, si presenta un medico che dispone per Uva un Trattamento sanitario obbligatorio (Tso): e, così, l’uomo viene ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale Circolo, dove morirà la mattina successiva. La sorella Lucia potrà vedere il cadavere sul tavolo dell’obitorio e riuscirà a fotografare lesioni, tumefazioni, lividi e perdite di sangue.
Da qui parte la sua battaglia, che durerà oltre tre lustri e che dovrà affrontare frustrazioni e offese, sconfitte e umiliazioni. E un percorso giudiziario segnato profondamente dall’attività (e dalla non attività) del procuratore Agostino Abbate. Infine, dopo rinvii e differimenti, depistaggi e omissioni, il processo si conclude nel luglio del 2019, quando la Corte di Cassazione conferma le assoluzioni di primo e secondo grado dei sei poliziotti e dei due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale.
Tutto sembrava essersi concluso, e definitivamente, con il corpo di Uva e le sofferenze sue e dei suoi familiari consegnati all’oblio. Ma poi, ecco il provvedimento della Corte europea dei diritti umani (Cedu) del 26 marzo 2024. La Corte dispone la trasmissione del ricorso al governo italiano e l’apertura di un procedimento che si articola in due tempi. La prima è una fase non contenziosa in cui i ricorrenti (i familiari di Uva) e il governo italiano sono invitati a cercare una composizione amichevole della vertenza.
Qualora non si arrivasse a un accordo entro il prossimo 28 giugno si aprirà la fase del contenzioso. Essa prevede che il governo italiano risponda a una serie di specifiche domande, e cioè che dica alla Corte:
1) Giuseppe Uva è stato o meno sottoposto a trattamenti inumani e degradanti da parte delle forze di polizia in violazione dell’art. 3 della Cedu?
2) Le indagini sui fatti che hanno portato alla morte di Giuseppe Uva sono state adeguate e tempestive? In particolare, lo Stato italiano dovrà dire alla Corte quali siano state le circostanze in cui Uva è stato portato presso la caserma, così come i fatti che vi sono avvenuti mentre era privato della libertà. Inoltre, dovrà precisare su quale base giuridica Giuseppe Uva è stato fermato e trattenuto in custodia.
Si apre, in tal modo, un importante spiraglio per il raggiungimento della verità su quella morte tanto atroce, fatta oggetto di mille manipolazioni e di altrettanti travisamenti. Resta la limpidissima figura di Lucia Uva che, assistita solo dai suoi legali e da “A buon diritto onlus”, ha saputo credere – nonostante tutto – nella giustizia degli uomini.