La militarizzazione della polizia francese e le violenze nelle banlieue
Perché la polizia in Francia è diventata la più violenta dell’Unione Europea
di Giovanna Castiello da Monitor
Il 13 marzo scorso Wanys Rahou, diciotto anni, perde la vita a Aubervilliers, nel dipartimento di Seine-Saint-Denis, in seguito a uno scontro tra il suo scooter e un’auto della polizia. Wanys non si era fermato a un controllo degli agenti; ne era scaturito un inseguimento, terminato con la collisione tra il suo mezzo e un’auto della BAC (Brigata anti-criminale), chiamata in rinforzo dai colleghi.
Per la polizia si è trattato di un incidente, ma la famiglia del giovane accusa gli agenti di aver tamponato volontariamente lo scooter. La procura di Bobigny ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Nei giorni successivi il commissariato di La Courneuve, banlieue nord di Parigi, è stato messo sotto attacco dalla popolazione.
Il caso di Wanys Rahou ricorda quello di Nahel M., un diciassettenne di Nanterre che nel luglio del 2023 è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da un poliziotto. Anche in questo caso la motivazione è la stessa: refus d’obtempérer durante un fermo della polizia, ovvero il rifiuto di obbedire a un ordine dato da un funzionario o un agente. Pochi mesi prima, nel quartiere parigino di Barbès, la stessa sorte era toccata a Rayana, ventun’anni.
Dall’inizio del 2022 più di diciotto persone sono state uccise dalla polizia in Francia durante dei controlli. Un numero che è triplicato in tre anni, e che era già in forte crescita dal 2017, anno della promulgazione della legge n. 2017-258. Questa legge estende la libertà di utilizzo delle armi da fuoco da parte dei poliziotti, che possono essere usate “in caso di assoluta necessità e in maniera strettamente proporzionale”, ammorbidendo con questa dicitura la regolamentazione precedente, e allineandola a quella già in vigore per i militari.
L’adozione della legge ha avuto conseguenze drammatiche. Da quel momento i morti per casi di refus d’obtempérer sono stati almeno ventisei, e va specificato “almeno” dal momento che il dato non è aggregato in via ufficiale. Negli ultimi sette anni sono aumentati in maniera sostanziale anche gli spari contro veicoli in movimento.
Un lavoro di denuncia e memoria rispetto alla brutalità delle forze dell’ordine viene portato avanti dal 2010 dal collettivo Désarmons-les!, che monitora le azioni della polizia, lavorando fianco a fianco con associazioni che riuniscono i familiari delle vittime e che portano avanti la stessa lotta, come il collettivo Urgence Notre Police Assasine.
Sul sito di Désarmons-les! è possibile trovare la lista di tutte le persone mutilate in Francia dalla polizia dal 1971 al 2020 e di quelle uccise dal 1961 al 2024; un lavoro di ricerca e organizzazione dei dati portato avanti anche grazie al giornale on-line Basta! e ai collettivi Cases Rebelles e La Gendarmerit.
Tra le ragioni dell’aumento delle pratiche violente da parte della polizia c’è di certo il progressivo processo di militarizzazione, iniziato fin dagli anni Settanta, che ha esacerbato il livello di conflittualità tra una buona parte della cittadinanza e lo Stato, aumentando la percezione della distanza e della divisione tra le due entità. Una situazione che si è fatta insostenibile nelle cité, come vengono chiamati i quartieri popolari, dove il conflitto sociale diventa anche razziale.
POLIZIA, ADOLESCENTI E CITÉ
È proprio nelle cité che vengono perpetuate la maggior parte delle violenze da parte della polizia. I presidi e i controlli per le strade sono continui, asfissianti, e gli abusi di potere anche. Tra questi solo alcuni arrivano alle cronache, come quello di Théo Luhaka, che nel 2017 è stato brutalizzato da tre agenti in Seine-Saint-Denis. Molti altri fermi ingiustificati, provocazioni, “piccole” violenze ordinarie, fisiche e psicologiche, avvengono nel silenzio generale.
Negli anni che ho trascorso in Hauts-de-Seine, il dipartimento che ha come capoluogo Nanterre, la maggior parte dei ragazzi con cui lavoravo proveniva dalle cité. In certi quartieri, persino ragazzini di prima media sono in grado di spiegare nei dettagli le strategie di comportamento più adatte per affrontare un controllo della polizia ed evitare che gli agenti diventino violenti.
A., quattordici anni, di origini algerine, una volta si è assentato per due giorni, ed è tornato a scuola dicendo di aver avuto una gastro, un’influenza intestinale. Aveva le mani fasciate. Poche ore dopo la madre mi spiegò che aveva vomitato per un giorno intero per il nervosismo e la paura: le dita gli erano state torte da alcuni agenti durante un fermo. Aveva passato quattro ore in caserma per presunto spaccio, solo perché era in strada all’inpiedi, mentre teneva d’occhio i fratelli più piccoli.
R. l’ho conosciuto un annetto dopo il suo arrivo dal Madagascar. Aveva quindici anni ed era uno sportivo, giocava a basket e anche molto bene. Soffriva molto durante il lockdown dovuto al Covid-19 a rimanere chiuso in casa, ma lo faceva nonostante tutti avessimo il diritto di scendere in strada un’ora al giorno per fare sport. Alle mie insistenze, un giorno rispose: «Sono nero, meglio di no. Non voglio problemi con la polizia».
E poi c’era L., sedici anni, maghrebino, intelligentissimo e arrabbiatissimo. Ogni volta che gli si chiedeva di fare un cartellone o un lavoro sui diritti umani per un laboratorio che stavamo facendo con Amnesty International, il suo striscione recitava: “Stop aux bavures policières”, stop agli abusi della polizia.
I ragazzi e le ragazze sentono il tema della violenza poliziesca in maniera forte e diretta, tanto più se vivono nei quartieri popolari. Ne parlano spesso, con rabbia ma anche con lucidità e cognizione di causa. Non sono certo attenti lettori di notizie di attualità, semplicemente vivono sulla propria pelle ogni giorno, in strada, questa realtà. Anche per questa ragione il corpo insegnante di La Courneuve ha scritto un comunicato dopo la morte di Wanys e dopo gli attacchi al commissariato. Un testo in solidarietà con la lotta della famiglia del giovane che chiede verità e giustizia, e che al tempo stesso spiega lucidamente come questa morte si inscriva “in una continuità di violenze e discriminazioni razziste che vivono i nostri studenti e i bambini più piccoli, a partire dall’orientamento scolastico fino ai controlli abusivi da parte della polizia, contro la quale noi insorgiamo e che denunciamo da ormai molto tempo. […] Un ulteriore aumento della violenza non attenuerà mai la rabbia legittima dei bambini e degli adolescenti di La Courneuve”.
La denuncia degli insegnanti pone una questione complessa che andrebbe inserita nel più ampio dibattito internazionale sul depotenziamento e il definanziamento delle forze di polizia, che ha acquisito maggiore forza dopo l’omicidio di George Floyd nel maggio del 2020 e che proprio in queste settimane sta imponendo, in particolar modo negli Stati Uniti, delle riflessioni sulle possibilità di eliminazione della polizia e sulle potenzialità di finanziamenti a educazione e servizi di base nel combattere la piccola criminalità. Assai arretrata, da questo punto di vista, appare la situazione in Francia, dove alle modifiche delle regole sull’utilizzo delle armi delle forze dell’ordine si aggiunge una recente campagna di taglio dei fondi previsti per l’istruzione e la sanità pubblica.
A differenza di altri paesi, l’attenzione su questi temi resta però purtroppo confinata a gruppi di volenterosi e determinati attivisti, che provano a costruire fronti comuni e alleanze con tutta quella parte di popolazione che più subisce le condizioni di impunità di militari e polizia. Notizia di questi giorni è che proprio su pressione dei movimenti di lotta, l’Onu ha aperto un’indagine sulle violenze delle squadre speciali di polizia ai danni di attivisti ambientalisti che protestavano contro la costruzione dell’autostrada A69, nel sud della Francia.
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