“Non lottano solo per Gaza: gli studenti ci indicano un marcio sistema di oppressione”
- maggio 08, 2024
- in Dal mondo, interviste
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Intervista alla ricercatrice Mjriam Abu Samra che studia da anni il movimento studentesco palestinese e che ora sta raccogliendo dati sul campo, attraversando le università americane che si sono sollevate (oltre 120, più di 2.200 gli arresti). Dalla prospettiva anticoloniale alle analogie con il Vietnam: “C’è la diffusa consapevolezza che l’attuale sistema sta fallendo”
di Anna Maria Selini da altreconomia
Mjriam Abu Samra si è trovata al posto giusto nel momento giusto. Italo-palestinese, laurea in Scienze politiche, dottorato a Oxford, è ricercatrice con una borsa di studio europea all’Università Ca’ Foscari di Venezia e all’Università di Davis, California. Da anni studia il movimento studentesco palestinese e ora sta letteralmente raccogliendo dati sul campo, nelle università americane che si sono sollevate -oltre 120 per più di 2.200 arresti- contro la guerra nella Striscia di Gaza. Ma dietro, dice Abu Samra, c’è molto di più: “Questo è un movimento che sta diventando il simbolo della consapevolezza di massa che l’attuale sistema sta fallendo”.
Abu Samra, come è cambiato dagli inizi a oggi il movimento studentesco palestinese?
Il mio lavoro si focalizza sul ruolo del movimento studentesco palestinese transnazionale, quindi fuori dalla Palestina, e su come abbia contribuito al movimento di liberazione nazionale palestinese. Se guardiamo a grandi linee la traiettoria della questione palestinese, vediamo che in diverse fasi politiche il movimento studentesco ha contribuito a quello nazionale. Furono gli studenti a creare già nel 1959 la prima organizzazione transnazionale palestinese, ancora prima dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Insomma, gli studenti e i giovani palestinesi nel post Nakba (l’esodo forzato dei palestinesi dopo la nascita dello Stato di Israele) hanno avuto un ruolo centrale, che io chiamo di avanguardia organica anticoloniale, sperimentando la contraddizione di un sistema ingiusto: nell’illusione di una pace globale, alla fine della Seconda guerra mondiale e con il processo di decolonizzazione, la loro terra viene invece spartita e sono costretti all’esilio. Vivono sulla loro pelle la contraddizione di un sistema che da un lato riconosce l’indipendenza di popoli che combattevano guerre di liberazione nazionali anticoloniali, e dall’altro impone loro e legittima un progetto coloniale. Il sionismo viene così compreso come ideologia coloniale, con radici profonde nella cultura europea, e la questione palestinese viene concepita nel quadro di una critica radicale del sistema internazionale capitalistico e imperialista.
E oggi invece per che cosa si caratterizza il movimento studentesco palestinese?
L’approccio appena citato si perse negli anni 90, con il processo di pace e gli Accordi di Oslo: venne abbandonato il linguaggio legato a principi anticoloniali, per uno più di stampo neoliberale e la questione palestinese fu presentata come un progetto di State building, più economico e di sviluppo. Oggi, invece, assistiamo a un recupero di quel quadro di comprensione che si rifà a concetti come la decolonizzazione, ma quella vera, non formale. Si è tornati all’idea dello smantellamento di un sistema di oppressione e sfruttamento, all’interno di una critica più vasta del sistema internazionale. Da ottobre, in particolare, gli studenti stanno collegando quello che succede a Gaza e in Palestina, con la complicità e diciamo pure la collusione totale di interessi delle potenze internazionali. È da lì che viene la chiamata al disinvestimento, per esempio, delle università nel settore militare, che va a finanziare appunto il progetto coloniale di Israele.
Quando si è tornati a questo e linguaggio? C’è stato un evento scatenante?
Sì, nel 2006, quando ci sono state le elezioni palestinesi, che hanno portato alla vittoria di Hamas, non riconosciuta da Israele e dalla comunità internazionale. Da lì sono iniziate le divisioni all’interno del movimento palestinese ed è stata la prima crisi vera dal 1948. È allora che le nuove generazioni cominciano a chiedersi come si può superare: non si sentono più rappresentate da certe dinamiche e nascono così varie iniziative, tra cui il Palestinian youth movement (di cui Abu Sarma è tra le fondatrici). È il movimento nato da varie associazioni di palestinesi in diaspora, che di fatto sta giocando un ruolo fondamentale in questo momento negli Stati Uniti e nella mobilitazione studentesca. Questa nuova generazione si è resa conto che l’idea di Stato e pace, articolata a Oslo, era un’illusione e si è invece assistito a un incremento del progetto coloniale, un’oppressione maggiore e più complessa. Da lì c’è stato un recupero e una critica a quello che è stato per l’appunto Oslo, e oggi sembra quasi scontato parlare di colonialismo di insediamento, di oppressione, liberazione e autodeterminazione.
Non in Italia…
Io non sono in Italia e quindi non ho una visione chiarissima di quello che succede. Mi rendo conto che esiste ancora una propaganda e politici che strumentalizzano la questione palestinese, presentandola con connotati decontestualizzati e a-storici.
E invece negli Stati Uniti?
Anche qui, però sto verificando che esiste una forte visione tra i giovani, che invece riescono a comprendere le radici politiche della questione palestinese e a recuperare questo linguaggio, rispetto alla propaganda mediatica mainstream. E mi pare che questa cosa stia succedendo anche in Italia. Almeno a guardare da lontano, anche da noi c’è questa dicotomia tra l’opinione pubblica di massa e una nuova generazione, che sta spingendo per questa visione.
Si dice che queste proteste siano simili a quelle contro la guerra in Vietnam. È d’accordo?
Questi paralleli sono stati tracciati dagli stessi protagonisti delle manifestazioni e del movimento degli anni 70: tantissimi professori, nelle università che ora sono coinvolte nelle proteste, si mobilitano a sostegno degli studenti e vedono nella mobilitazione attuale una linea di continuità nel ruolo che gli studenti hanno sempre avuto. La Palestina in qualche modo ha riaperto o rivelato per l’ennesima volta il marcio del sistema e quindi la necessità di mobilitarsi non solo per fermare un genocidio di dimensioni sproporzionate, ma anche per individuare proprio nelle relazioni delle superpotenze collusioni e interessi, che agiscono e condizionano diverse questioni, come quella ambientale. La mobilitazione qui, per esempio, è anche contro un sistema d’istruzione diventato manageriale, piuttosto che indirizzato alla produzione libera del sapere.
Da quello che ha visto, quanto stanno partecipando gli studenti ebrei alle proteste e quanto si sentono esclusi o discriminati?
Esistono gruppi di studenti ebrei, come Jewish voice for peace o Jews against white supremacy che sono in prima linea nei campus, insieme ovviamente ad altre formazioni studentesche. C’è una partecipazione totale e c’è anche uno sforzo, devo dire, da parte di questi studenti di andare proprio a contestare la strumentalizzazione dell’accusa di antisemitismo, portata avanti dai media mainstream e anche dalle istituzioni. Questa è una questione politica, che è vissuta con la consapevolezza che tutti i riferimenti alla fede o all’appartenenza religiosa sono una strumentalizzazione.
Lei sta girando le università, cosa fa esattamente?
Proprio per il tipo di ricerca che faccio e anche per il ruolo che ho avuto nel movimento, mi sono ritrovata in questi contesti spesso e volentieri. Vengo invitata a fare dei teaching, lezioni all’interno dell’autogestione e dei programmi che gli studenti organizzano quotidianamente.
Dove è stata?
Alla New York University, alla The New School, sempre a New York, e dovevo andare alla Columbia, ma non ci hanno fatto entrare. Poi a Berkley, a Santa Cruz e andrò a Stanford e alla San Francisco State University.
Che cosa le chiedono gli studenti, la stupisce qualcosa in particolare?
Mi stupisce la grandissima curiosità che hanno per la storia del movimento palestinese, fanno tantissime domande sulla storia, ma anche su quello che può essere il loro ruolo. Chiedono quali siano le forme organizzative, le strategie utilizzate storicamente e come possano elaborarne anche loro di successo.
Ma sono solo studenti palestinesi?
No, sono misti. Il movimento studentesco è fatto da studenti di qualsiasi provenienza e tantissimi non sono palestinesi, questa è un’altra cosa che mi colpisce molto. Fanno tante domande sul concetto di joint struggle, cioè, di lotta condivisa con altre cause internazionali, quindi proprio sulla connessione tra il progetto coloniale e un sistema di oppressione di tipo capitalistico. Sono tutti molto interessati a questo, perché è lì che trovano il senso e il valore della mobilitazione: perché è ovviamente un obiettivo centrale fermare il genocidio e affermare il diritto alla liberazione della Palestina, ma anche rigettare qualsiasi tipo di forma coloniale. E soprattutto in America -con una storia di colonialismo d’insediamento, schiavitù, forte discriminazione e razzismo- diventa fondamentale andare a ricercare questo tipo di legami, ritrovare un continuum storico e quindi rendersi conto che determinate vittorie non sono mai state piene. Che non si è mai arrivati a superare effettivamente uno sbilanciamento di poteri di un sistema fondamentalmente costruito per garantire il monopolio di pochi in una serie di interessi e come tutto questo si ripercuota poi sulla società in generale. È proprio questo che interessa agli studenti: non vogliono solo fermare la guerra di Gaza, ma dare un vero stop a qualsiasi tipo di complicità in queste forme di oppressione e a questa forma di organizzazione della società. C’è un’altra cosa fondamentale: gli studenti collegano la violenza e la brutalità della polizia israeliana a quella della polizia americana e al fatto che vengano formate insieme. Qui la gente sta veramente soffocando ed è ormai evidente questa somiglianza.
C’è chi ha scritto che gli studenti e i giovani libereranno la Palestina. È d’accordo?
Non saranno certo la Corte penale internazionale, la comunità internazionale, l’Onu o i potenti del mondo a liberare la Palestina, ma la mobilitazione popolare. Il movimento studentesco sta diventando il simbolo di una consapevolezza di massa e della critica di un sistema che non è più sostenibile. Non solo sono d’accordo, ma credo che, in un certo senso, sia la Palestina che sta liberando il mondo, mostrandone il marcio.
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