L’attivista curda, in sciopero della fame, ha mostrato in aula le foto che la scagionano dall’accusa di essere una scafista. Per la giudice deve restare in cella. Anche se pesa solo 35 chili
di Silvio Messinetti, Claudio Dionesalvi da il manifesto
Il sole a picco. Trentaquattro gradi già alle 9 del mattino. Il palazzo di Giustizia di Crotone ribolle. Nella facciata all’entrata principale spicca il murale dedicato ai giudici Falcone e Borsellino. Martedì uno spiraglio di giustizia si era aperto proprio in quegli uffici. I giudici inquirenti di Crotone hanno messo nero su bianco una verità che era nota a tutti: la strage dei migranti di Steccato di Cutro del 26 febbraio 2023 poteva essere evitata. Ma, come spesso accade, la giustizia può entrare in cortocircuito. Perché ieri, dopo l’avviso di conclusione indagini sui fatti di Steccato, in quello stesso tribunale di Crotone si celebra la prima udienza del giudizio immediato nei confronti di Maysoon Majidi. Una coincidenza stridente, in un processo kafkiano. Perché Majidi è in carcere anche per effetto del cosiddetto decreto Cutro.
FUORI, NELLO SPIAZZO di corso Mazzini, si sono dati appuntamento gli attivisti dei movimenti. Nei mesi scorsi un comitato spontaneo e numerosi giornalisti d’inchiesta in tutta Europa, hanno preso posizione in suo sostegno. Ne invocano l’immediata liberazione. Molti i parlamentari e i consiglieri regionali recatisi in carcere. Per tre volte, la prigioniera è entrata in sciopero della fame. Le reiterate richieste di attenuazione del regime detentivo sono state rigettate. Da sette mesi la regista curda, attivista per i diritti umani in Iran, è in cella. L’accusano di essere una scafista del natante sbarcato in riva allo Jonio il 31 dicembre. A Crotone non c’è un reparto femminile nella casa circondariale. Come un pacco, prima l’hanno rinchiusa a Castrovillari poi l’hanno sbattuta a Reggio.
LA PROCURA è così convinta di trovarsi di fronte una criminale che ha chiesto e ottenuto il giudizio immediato, ovvero quel rito che salta il filtro dell’udienza preliminare, dato il «quadro di evidenza probatoria». Così Maysoon, che ha rischiato di finire nella malfamata prigione iraniana di Evin, rischia adesso di marcire in un carcere di Calabria. La possibilità c’è tutta. Quando la vedi in gabbia, così deperita che «sembra una stampella con addosso i vestiti» (parole del consigliere regionale Ferdinando Laghi, primario a Castrovillari, unico politico presente in aula), i grandi occhi a coprirne i 35 chili di magrezza, il dubbio ti prende. Maysoon sorride agli antirazzisti entrati in aula. Su richiesta del suo legale Francesco Liberati, che in apertura aveva ripresentato l’istanza di riqualificazione della misura, le viene concesso di uscire dalla cella.
PRENDE PAROLA e legge le sue dichiarazioni: «Quando sbarcai a Crotone pensai di esser salva, invece è iniziato il mio incubo: 150 euro e il telefonino usato solo per rassicurare la famiglia diventano armi per accuse assurde. Io e mio fratello abbiamo fatto questo viaggio per salvarci la vita ed essere liberi in Europa» esclama dopo aver raccontato le fasi della traversata. La richiesta dei domiciliari però viene di nuovo respinta. Rimangono il pericolo di fuga e le medesime condizioni che hanno determinato gli altri due provvedimenti di rigetto. Le motivazioni addotte dalla pm Rossella Multari e confermate del presidente del collegio Mario D’Ambrosio sono un altro duro colpo per la giovane curda. Che a quel punto riprende il microfono e piangendo implora di poter mostrare due foto che, a suo dire, la scagionerebbero.
IN UNA SI VEDONO lei e il fratello sottocoperta, nell’altra una donna vicino allo scafista: «Questa è quella che mi ha preso il cellulare». Un processo indiziario riporta, dunque, nelle carceri un’innocente. Bastò il mormorio delatorio di alcuni dei suoi compagni di viaggio per convincere gli agenti della Guardia di finanza ad accusarla di essere «il capitano» del battello. L’odissea giudiziaria di Maysoon iniziò nel momento dell’approdo. Rovistando nei suoi contatti telefonici, in applicazione del decreto Cutro, che criminalizza i conducenti di imbarcazioni dei disperati, le autorità italiane riscrissero in modo capzioso la storia del suo calvario personale.
NON MOLLANO gli antirazzisti che lanciano un appello alla mobilitazione nazionale: «Invitiamo coloro che credono nei diritti umani e nella giustizia giusta a unirsi a noi nel sostenere Maysoon e tutte le altre persone private della propria libertà, per esprimere la contrarietà a leggi sbagliate che puniscono la solidarietà» annuncia Filippo Sestito dell’Arci. Prossima udienza il 18 settembre.
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