Il carcere scoppia, le condizioni di vita sono insostenibili, i suicidi si moltiplicano. Ma il Governo assume provvedimenti di pura facciata, progetta nuovi istituti di pena e insegue l’illusione punitiva, incurante del fatto che in questo modo – come dimostra l’esperienza degli Stati Uniti – non solo si violano i più elementari principi di umanità ma, in modo solo all’apparenza paradossale, aumentano i reati e l’insicurezza.
di Glauco Giostra da Il Domani
Una sola cosa riesce a generare sconforto e indignazione quanto la disumana situazione carceraria: la cinica pervicacia con cui taluni si ingegnano ad ignorarla, a giustificarla o a minimizzarla. Se questi atteggiamenti siano dovuti a mala fede o a ignoranza è dubbio che schiude ad una risposta comunque sconcertante.
L’attuale Governo, pur riconoscendo la gravità della situazione, ha temporeggiato a lungo ricordando che si trattava di situazione ereditata. Poi, dovette prendere atto che non basta l’abusato alibi, peraltro solo in parte fondato, per giustificare l’inerzia: «Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate – ammoniva Martin Luther King – ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla». Venne allora concepito un decreto legge; si sperò che il ricorso alla decretazione d’urgenza esprimesse di per sé una rassicurante consapevolezza dell’indifferibile necessità di intervenire immediatamente. Attese tradite. Quasi si avesse a che fare con un incendio al di là del fiume, vi erano contenuti interventi destinati ad operare, taluni peraltro con assai opinabile efficacia, in un futuro non prossimo. Insomma, è come se a seguito di un drammatico incidente stradale ci fossero persone gravemente ferite, alcune agonizzanti, e, invece di soccorrerle, si sia intervenuti programmando la predisposizione di un robusto guard rail, una più visibile segnaletica stradale e l’assunzione di altri agenti della polizia stradale. È allora difficile non pensarlo: l’unica vera urgenza che ha motivato il decreto di recente convertito in legge è stata quella di ostentarsi non inattivi davanti ad una tragedia non più ignorabile.
Sta di fatto che la torrida bolgia carceraria continua a vivere da mesi il suo tempo più drammatico. Soltanto una cecità etica e costituzionale può consentire di non vedere la disumanità del dramma che si consuma tra quelle mura fatiscenti e incapienti. Bisogna però riconoscere che nell’agire del Governo c’è un’indiscutibile coerenza. Se procedessimo anche a un sommario text mining di tutte le iniziative di riforma ancora giacenti e di quelle portate a termine in materia di punizione penale, non potremmo non cogliere una inossidabile costante, unica e assorbente preoccupazione: sicurezza.
Basterebbe scrutinarne alcune. La Costituzione vuole che le pene tendano alla rieducazione del condannato? Meglio aggiungere che l’obbiettivo deve essere perseguito salvaguardando le esigenze di difesa sociale e la certezza della pena. C’è il rischio che gli agenti penitenziari possano sentirsi frenati dal reato di tortura nello slancio operativo necessario per garantire la sicurezza? Si propone l’abolizione del reato. C’è il pericolo che i detenuti, esasperati, pongano in essere proteste, anche di resistenza passiva? Si introduce il reato di rivolta carceraria. I penitenziari scoppiano? Il primo intervento è quello di aumentare di 1.000 unità la polizia penitenziaria. Insomma: il carcere concepito e demagogicamente rappresentato come luogo di irreversibile neutralizzazione sociale di chi è o può essere socialmente pericoloso. Una strada a tratti percorsa anche dai governi precedenti, ma che l’attuale ha intrapreso con irresponsabile determinazione.
Qualcosa di simile, ovviamente in diversa scala, è già accaduto negli Usa a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso quando prevalse un’ideologia della risposta penale ciecamente e severamente retributiva: in trent’anni la popolazione penitenziaria passò da circa 400.000 a due milioni e mezzo di detenuti! Ne 2011, con il caso Brown v. Plata, la Corte Suprema degli Stati Uniti impose allo Stato della California un ridimensionamento della popolazione carceraria, con la liberazione di quasi 40.000 detenuti. Un intervento indifferibile, secondo la Suprema Corte, perché il sovraffollamento che si registrava in quello Stato violava l’ottavo emendamento della Costituzione americana, che vieta pene crudeli e inusitate; un macroscopico esempio di debolezza dello Stato, avrebbero detto i nostri attuali governanti. La Corte Suprema federale non si limitò a ordinare la decarcerazione di decine di migliaia di detenuti, ma precisò che questa era soluzione urgentissima e necessaria, ma non sufficiente. Che il problema non si sarebbe risolto costruendo nuove carceri. Che occorreva un’inversione di rotta, per abbandonare quella logica neutralizzante della politica criminale che stava alla base del sovraffollamento e della disumanità del carcere. Che bisognava perseguire la tutela della sicurezza collettiva, tra l’altro, con un maggior ricorso alle sanzioni alternative alla detenzione e il recupero dei condannati alla società attraverso programmi di reinserimento. Mai, comunque, imponendo trattamenti che offendono la dignità dell’uomo.
Essendo rimasta la Suprema Corte largamente inascoltata in ordine alla necessità di cambiare radicalmente la politica criminale, gli USA hanno, percentualmente, la popolazione penitenziaria più numerosa del mondo occidentale, una endemica insicurezza sociale e uno dei più elevati indici di criminalità: hanno ad esempio, fatte le debite proporzioni, quasi dieci volte il numero degli omicidi che si verificano in Italia.
Res ipsa loquitur: il cieco punitivismo, là spinto sino alla pena di morte, può forse procurare voti, non certo sicurezza sociale. Ma è stagione, la presente, in cui persino le evidenze oggettive sono eclissate da demagogici slogan sedativi delle ansie sociali. L’informazione responsabile, però, dovrebbe mettere in guardia la disorientata collettività: il pifferaio magico del carcere sicuro ci sospingerà sempre più verso la disumanità per la popolazione intramuraria e l’insicurezza per la popolazione extramuraria.
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