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Ci sparano addosso…e cercano di passare per vittime.

Lettera aperta a quanti nella mia città e non solo combattono gli abusi di polizia

 

La notte del 28 aprile 2009 a Reggio Emilia succede un fatto estremamente grave che vede come protagonista me assieme ad altri due giovani compagni.
Io e i miei amici siamo antifascisti e quella notte siamo impegnati a rivendicare ciò che molta politica purtroppo permette in spregio a una Costituzione scritta con il sangue dei partigiani. Nella nostra città è stata infatti aperta una sede di Casa Pound e noi pensiamo sia giusto chiederne la chiusura anche attraverso una scritta muraria.
Succede tutto in pochissimi istanti! Siamo intenti nella scritta quando nel buio spuntano improvvisamente due individui travisati, colletto della giacca alzato e berretto abbassato sul viso, ma soprattutto pistole alla mano!
Chi sono questi individui che brandiscono le pistole puntandole contro di noi? Non abbiamo tempo di pensarci nè tantomeno l’intenzione di scoprirlo a nostre spese.
Saliamo all’interno della mia macchina. Mi metto al volante, tento di mettere in moto e di inserire la marcia, ma questa non si innesta. A quel punto sentiamo un colpo e vediamo un lampo. È’ uno sparo! E’ una pallottola diretta a noi che fortunatamente va a colpire la ruota anteriore.
I due ci raggiungono: aprono le portiere della vettura ci puntano le pistole addosso, sulla faccia. In quel momento sento un rumore metallico simile ad un “CLICK”, non riesco a riconoscere se è l’immissione di una sicura oppure il primo scatto del grilletto. Nel frattempo uno dei miei compagni riconosce uno dei nostri aggressori, è un agente della DIGOS di Reggio Emilia.
Cerchiamo di mantenere la calma e usciamo a mani alzate, e solo ora anch’io riesco a riconoscere in volto uno degli agenti. L’ho già visto a qualche manifestazione.
A questo punto sappiamo chi sono, ma non perché siano stati loro a identificarsi! Non lo faranno mai nel corso di quella lunga notte!
Non passa un secondo che ci fanno sdraiare faccia a terra e mani incrociate dietro la schiena, ci caricano su una volante, mani appoggiate al vetro.
Ci portano in Questura. Non ci informano né di cosa siamo accusati né che abbiamo il diritto a fare una telefonata! Anzi ci intimano di tacere!
Mi sembra di vivere sulla mia pelle ciò che ho sentito raccontare tante volte in TV dalle vittime arrestate nel 2001 a seguito della manifestazione contro il G8 e seviziate nella caserma di Bolzaneto di Genova. Sono confuso. Non ho mai avuto esperienze di questo tipo. Da una parte mi dico che la polizia di Reggio non si comporterà certo come gli agenti criminali e gli aguzzini di Genova. Dall’altra però sento riecheggiare ancora forte il boato della pistola che poco prima ha sparato contro di me. Mi sento isolato dal mondo esterno. Non posso informare nessuno. Spero solo che la cosa finisca presto. Ma mi trattengono tutta la notte in stato di fermo!
Mi fanno “accomodare” in una stanza dove due agenti semplici mi costringono a denudarmi completamente e senza troppi complimenti mi fanno piegare per vedere se nascondo qualcosa nei miei più remoti anfratti.
Mi chiedo che razza di trattamento sia questo e cosa potrei mai nascondere?

Vengo trasferito in una sala al primo piano sostanzialmente vuota, c’è solo qualche sedia, qui posso parlare con i miei compagni e dal colloquio evinco che abbiamo ricevuto tutti lo stesso “trattamento”.
Durante la notte non c’è possibilità di fare chiamate per informare amici o genitori su cosa ci è accaduto e su dove ci troviamo. Ci vengono requisiti tutti gli oggetti personali. Ci viene concesso di andare al bagno ma dobbiamo tenere la porta aperta.
Solo al mattino vengo caricato su una macchina assieme a tre agenti della DIGOS locale e portato a casa dei miei genitori perché debbono effettuare una perquisizione nella mia stanza. Cosa cerchino non è dato sapere!
Conclusa la perquisizione vengo riportato in Questura per l’identificazione e la schedatura. E finalmente sono rilasciato.
Oggi a distanza di quattro anni da quella notte in cui siamo stati “sequestrati” in una questura, privati dei diritti che spettano anche a chi abbia commesso un reato e sottoposti a un “trattamento” palesemente ingiustificato e degradante mi vedo denunciato per lesioni dall’agente della DIGOS Fabio Corradi, proprio quello che sparò verso di noi, colpendo per fortuna solo la mia macchina!
Oltre al danno la beffa! Il 19 febbraio 2013 dovrò infatti presentarmi in tribunale perché questo agente che per poco non mi ammazzava si è tirato sulla gamba la portiera della mia auto. È proprio il caso di dirlo non solo ci sparano addosso…ma vogliono passare anche per vittime!

A distanza di quattro anni, forse a causa di un impegno sociale da cui provare a dissuadermi, riemerge in maniera del tutto distorta una storia che soltanto il caso a fatto sì che non finisse in maniera drammatica, alla pari di altre storie note o meno note in cui chi indossava la divisa ha abusato del proprio ruolo e del potere a lui conferito.
In Italia sono innumerevoli gli abusi più o meno gravi compiuti dalle forze dell’ordine che finiscono nel nulla per la paura di denunciarli, per le coperture di cui le forze dell’ordine godono, per gli immancabili depistaggi, per la difficoltà a procedere ai riconoscimenti in mancanza di un codice identificativo e per la prescrizione che in assenza del reato di tortura interviene puntualmente a garantire l’impunità ai responsabili.
La macelleria messicana di Genova, l’omicidio di Stefano Cucchi, quello di Federico Aldrovandi, la tragedia di Gabriele Sandri, di Giuseppe Uva, di Aldo Bianzino, di Paolo Scaroni (sopravvissuto a grave prezzo alla furia omicida di un’intera squadretta) stanno lì a dimostrarlo.

Per questo ritengo importante che anche la mia vicenda non passi inosservata. Vorrei che anche “il mio piccolo caso” contribuisca a far sì che chi è vittima di un abuso di polizia non si senta solo, trovi il coraggio di denunciarlo e di lottare per la verità e la giustizia. Vorrei che anch’esso contribuisse a formare la coscienza che è possibile mobilitarsi affinché questi episodi non debbano più accadere.

Ritengo che il mio invito a dare la giusta dimensione e nome a quel che è accaduto la notte del 28 aprile 2009 a Reggio Emilia non sia disgiunto dalle grandi tematiche che stanno attraversando il nostro paese oggi, come quella per l’introduzione del codice identificativo per le forze dell’ordine e del reato di tortura.
La lotta esemplare condotta in questo senso da molti familiari e vittime di abusi di polizia, coloro che danno voce ai loro figli, ai loro fratelli e amici e che lottano anch’essi per la verità e per la giustizia, ha infuso in me speranza, fiducia e coraggio. Spero con la mia piccola lotta di contribuire almeno un poco a ingrossare anch’io l’alvo che produrrà quel cambiamento di cui c’è urgente necessità.

Chiedo a chiunque di diffondere la mia lettera e di sostenere la lotta per la verità e la giustizia che intendo portare avanti.
Chi mi ha sparato non è la vittima, ma l’autore di un abuso di polizia.
Che i fatti assumano il loro vero nome!
Mattia Cavatorti