365 uccisi e oltre 1.200 feriti. Tattiche identiche a quelle usate a Gaza: ordini di evacuazione ai civili, bombardamenti a tappeto e la retorica degli «scudi umani».
di Pasquale Porciello da il manifesto
«La mia famiglia vive a Ghobeiry, poco distante dai bombardamenti di venerdì a Haret Hreik e quelli di ieri a Bir el Abid. Venerdì mia sorella aveva portato i bambini a giocare da alcuni amici, proprio nella palazzina che è saltata in aria. Erano usciti mezz’ora prima. È da venerdì che non dormo», racconta con la voce tremula Farah, che dice di non rendersi ancora bene conto di quello che sta succedendo. «(Gli israeliani) volevano la guerra e la stanno avendo. Non sono andato in America dai miei fratelli perché sono vecchio e non voglio morire all’estero. Ma non voglio morire nemmeno così», dice in un misto di rabbia e paura Ahmad subito dopo l’esplosione a Dahieh. Spegne con frustrazione la radio della macchina che passa la notizia.
IL LIBANO È ORMAI entrato in una guerra che ricorda i peggiori conflitti della sua storia. Si contavano ancora gli uccisi e i feriti dei raid israeliani a tappeto della giornata, nel sud e l’est del paese, quando verso le 7 di sera è arrivata la notizia del lancio di tre missili su una palazzina a Bir el Abid, a Beirut, nella quale, dichiara Israele, si trovava Ali Karaki, comandante del fronte sud. Ucciso, dice Tel Aviv; vivo e in un posto sicuro, ribatte Hezbollah.
Se la notizia fosse confermata, si tratterebbe di un altro omicidio eccellente, che farebbe saltare un altro anello importante della catena di comando di Hezbollah, dopo l’uccisione di Fuad Shukri, secondo del partito-milizia il 30 luglio, e di Ibrahim Aqil, comandante dell’ala militare di Hezbollah, le Forze al Redwane, venerdì scorso. Un colpo dietro l’altro, se si tiene anche conto degli attacchi cibernetici di martedì e mercoledì.
L’esercito israeliano ha annunciato ieri di aver colpito 800 obiettivi militari o sensibili di Hezbollah. Il sud è praticamente sotto assedio dal confine a Ghaziyeh, a Sidone, a Jezzine (40 km da Beirut).
IL BILANCIO di ieri è di 1.246 feriti e 356 uccisi. Tra loro almeno 24 bambini, una quarantina di donne e due medici. Il ministro della sanità Abiad ha reso pubblico il bollettino in una conferenza stampa alle 17.30 locali (poi aggiornato in serata), dopo una mattinata di intensissimi bombardamenti su tutto il Libano del sud e sulla valle della Beka’a, a est. Ma è un bilancio destinato a salire. A Bir el Abid in serata si scavava ancora tra le macerie. Siamo nella periferia sud di Beirut, ad altissima concentrazione sciita, la stessa dove venerdì sono state uccise un centinaio di persone e, con Aqil, eliminati quadri importanti di Hezbollah.
Nella tarda mattinata l’esercito israeliano aveva mandato sms ai libanesi della Beka’a affinché evacuassero, mentre a Beirut e nel sud le chiamate con un messaggio registrato giungevano ai telefoni fissi: «Hezbollah obbliga l’esercito israeliano ad agire contro le sue infrastrutture nei vostri villaggi. Se vi trovate in o in prossimità di una casa contenente armi di Hezbollah, la dovete lasciare e allontanarvi, entro due ore, almeno di un chilometro e recarvi nella scuola più vicina. Tutti coloro che si trovano in prossimità di membri, installazioni o armi di Hezbollah mettono in pericolo la loro vita e quella della loro famiglia».
ED È INIZIATA la fuga: nelle pochissime arterie che vengono da sud e da est le file delle auto sono infinite. La gente, terrorizzata, prova a scappare dai bombardamenti e a trovare rifugio nelle zone per il momento più sicure. Il Libano è un paese piccolo, appena 10mila km quadrati, le distanze sono molto ravvicinate. La stazione degli autobus di Cola – uno degli snodi più trafficati di Beirut – è stata invasa dalle prime ore della mattina da auto provenienti da sud. Code anche ai distributori di benzina: si teme finiscano le scorte. Il ministro della salute ha chiesto agli ospedali di rimandare le operazioni non urgenti, quello dell’istruzione ha chiuso le scuole. Il ministero dell’informazione a Beirut è stato fatto sgomberare per la notizia di un attacco che si è dimostrata falsa.
PER LA PRIMA VOLTA dall’inizio del conflitto sono suonate le sirene a Tel Aviv per razzi provenienti dal Libano. Hezbollah ha intensificato gli attacchi e colpito con forza la periferia e la provincia di Haifa. La milizia ha anche bombardato il quartier generale e i depositi di armi della caserma Yoav e quelli della base di Nimra nel nord di Israele con dozzine di missili.
«Tutte le escalation supplementari di questa situazione pericolosa potrebbero avere conseguenze profonde e devastanti, non solo per le persone che vivono da una parte e dall’altra della linea blu, ma anche per la regione intera», ha dichiarato l’Unifil, la missione Onu di interposizione che presidia la linea di demarcazione tra Libano e Israele, da un anno – e già in altre occasioni – ampiamente bypassata. La diplomazia internazionale è però paralizzata mentre il premier israeliano Netanyahu promette di cambiare «l’equilibrio della sicurezza, il rapporto di forza nel nord (di Israele), ed è quello che stiamo facendo».
INTANTO A BEIRUT alcune scuole diventano centri di accoglienza per gli sfollati, che si aggiungono ai circa 100mila che l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni conta dal 7 ottobre, tanti quanti sono gli sfollati israeliani dall’altro lato del confine. Sono ore, giorni, settimane di panico.
A ruota le compagnie aeree annullano i voli per a da Beirut e il mantra che risuona nell’aria è «questa volta è diverso».
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