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In morte delle prigioniere politiche Viktoria Roshchyna e Elena Chesakova

Si può stare “dalla parte delle vittime” sempre e comunque? E soprattutto: si può farlo senza cadere nel patetico (nel “buonismo” qualunquista)?

di Gianni Sartori

Quien sabe, hermanos… Comunque ci provo.

Due notizie, due tragedie. La morte in carcere di due donne coraggiose.

Schierate su fronti opposti, ma ugualmente integre, degne, in piedi. Tragicamente unite nel medesimo destino:

Viktoria Roshchyna e Elena Chesakova.

Della prima in questi giorni la stampa mainstream ne ha parlato abbastanza (doverosamente e giustamente, sia chiaro). Della seconda molto meno, quasi niente.

Giornalista freelance, già collaboratrice della web-tv ucraina Hromadske, si trovava a Shchastya e Lugansk all’inizio della guerra, poi a Huliaipole (Guljajpole, Makhnograd) e a Zaporizhzhia. Da 14 mesi Viktoria Roshchyna (27 anni) era incarcerata in Russia (nell’ultimo periodo – pare -nel carcere di Lefortovo a Mosca). Non si conosce con precisione la data dell’arresto (presumibilmente il 3 agosto, giorno dell’ultima telefonata alla famiglia) e il suo nome era in una lista di persone che stavano per essere liberate in uno scambio di prigionieri. Precedentemente,16 marzo 2022, era già stata arrestata nei pressi di Mariupol, ma liberata dopo pochi giorni. Su tale esperienza aveva realizzato una serie di articoli conquistando il premio “Coraggio nel giornalismo”:

Non si conosce la causa della sua morte (ripeto, in stato di detenzione) avvenuta, stando al comunicato inviato alla famiglia, il 19 settembre. Ma , sapendo che era sta segregata anche a Taganrog (carcere su cui aleggia il fondato sospetto della tortura) è lecito sospettare che sia una conseguenza dei maltrattamenti subiti.

Così per Elena Chesakova, deceduta secondo le autorità ucraine, per infarto. Per gli agenti che l’avevano in custodia “il suo cuore non ha retto”. Non ha retto a che cosa, vien da chiedersi.

L’8 ottobre Elena era salita sul piedistallo di un monumento a Odessa esponendo la bandiera russa. Per poi dichiarare che “ucraini e russi fanno parte dello stesso popolo”. Aggiungendo, tra gli insulti e il lancio di oggetti di una folla di probabili banderisti (neofascisti ucraini) che “la guerra è stata voluto dagli USA e dalla Nato e non è nell’interesse di nessun slavo combatterla”.

Bloccata dai militanti di destra, veniva consegnata alla polizia. Inutili i tentativi per convincerla a “scusarsi” pubblicamente in un video. Invece anche davanti alle telecamere aveva ribadito che non poteva “perdonare coloro che avevano attaccato il Donbass e Odessa nel 2014”, riferendosi ovviamente all’esercito ucraino.

Convinta che “gli USA e la Nato stiano facendo tutto questo per distruggere gli slavi”.

Per il suo gesto rischiava circa tre anni di carcere, ma come sostengono le autorità ucraine “il suo cuore non ha retto”.

Se la morte di Viktoria Roshchyna (deceduta alla vigilia di uno scambio di prigionieri) evoca fatalmente quella di Navalny, la vicenda di Elena Chesakova rimanda per analogia al giornalista e dissidente politico Gonzalo Lira.

Arrestato qualche mese prima dal servizio di sicurezza ucraino (SBU) con l’accusa di aver “screditato le autorità e le forze armate ucraine”, era deceduto nel gennaio 2024 ancora in detenzione preventiva. Stando alle informazioni raccolte dal padre da tre mesi soffriva per “una polmonite doppia e di una grave forma di edema” Ma era stato lasciato senza cure.

 

 

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