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Decesso di Ratan Tata: fu vera gloria?

La morte di Ratan Tata (un “capitalista dal volto umano”) porta a ripercorrere alcune vicende legate alla resistenza indigena in India

di Gianni Sartori

Se si dovesse dar credito soltanto al messaggio della Conferenza dei vescovi cattolici dell’India (CCBI), si potrebbe pensare che con la scomparsa a 86 anni del magnate dell’automobile Ratan Tata si sia spento “un faro di compassione e generosità”.

Un filantropo, un benefattore del genere umano che “non ha mai perso di vista gli ultimi”. Ecco, forse su questa affermazione i contadini del Bengala e gli adivasi dell’Orissa avrebbero qualche obiezione.

Tra i suoi principali meriti (sempre per la CCBI) i “Tata Trust” con cui avrebbe “trasformato la vita di milioni di persone, sostenendo la causa degli emarginati e svolgendo un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’India”.

Aggiungendo che il suo impegno incrollabile per la giustizia sociale, l’istruzione, la sanità e lo sviluppo rurale corrispondeva profondamente con i valori fondamentali della Chiesa cattolica, in particolare nella sua missione di servire i poveri e i vulnerabili”.

 Ma non è detto che per tutti in India le cose stiano proprio così.

Ricapitolando tra i dati biografici, determinante fu il suo insediamento alla presidenza del Tata Group. Nel 1991, in favorevole coincidenza temporale con una serie di profonde riforme economiche che portarono l’India nel mercato globale. In gran parte dovute al ministro delle Finanze (dal 1991 al 1996), l’economista sikh Manmohan Singh (in seguito primo ministro dal 2004 al 2014 quando lo sostituì Narendra Modi). Da quel momento il gruppo Tata (acciaierie, centrali elettriche, chimica, hi-tech, software, radio, hotel, alimenti, bevande, cosmetici…), uniformato con l’imposizione del marchioTata (Tata Motors, Tata Industries, Tata Coffee…), oltre a consolidarsi in patria, si mosse con aggressiva determinazione alla conquista dei mercati mondiali.

Dal 2000 in poi, con un crescendo senza paragoni di acquisizioni straniere: Daewoo Motors (veicoli, Corea del Sud), Jaguar e Land Rover (Gran Bretagna), Millenium Steel (acciaio, Thailandia), Piaggio Aero Industries (Italia),Tetley (tè, Gran Bretagna), China Enterprise Communications (telecomunicazioni). Per citarne soltanto alcune. Tanto che ormai il Tata Group è presente in circa ottanta nazioni.

E naturalmente imperversa in India. Nonostante il sostanziale fiasco di una sua creatura, la Tata Nano. Un’auto di piccole dimensioni a basso costo, ideata per il traffico caotico che contraddistingue molte grandi città indiane.

Progetto che incontrò da subito qualche imprevista difficoltà.Nei pressi di Singur (Bengala occidentale), grazie all’interessata mediazione del governo locale (comunista, almeno ufficialmente), veniva acquistata una vasta area (circa mille acri) di terreno agricolo. Allo scopo di insediarvi la prima fabbrica per la Nano. Ma la cosa non risultò gradita ai contadini locali che (non ritenendosi adeguatamente ricompensati) nel 2008 si ribellarono. Sia a Tata che al governo locale bloccando di fatto la produzione. Tra l’altro la rivolta determinò anche un radicale cambio dell’amministrazione locale con la vittoria elettorale dell’opposizione guidata da Mamata Banerjee (fondatrice di All India Trinamool Congress). Tanto che Tata si vide costretto a rinunciare al progetto per trasferirsi in Gujarat.

Quanto alla Tata Nano, a conti fatti le vendite risultarono molto inferiori alle aspettative.

Ma ancora prima della rivolta di Singur, era avvenuto un fatto ben più tragico a Kalinganagar (in Odisha-Orissa). Qui la polizia sparò contro una manifestazione di tribali (adivasi) che contestavano il progetto di un’acciaieria Tata. Uccidendo almeno una dozzina di indigeni.Un “contenzioso” che non era destinato a esaurirsi tanto presto. Nel marzo 2010 la polizia sparò contro il villaggio di Baligotha (Odisha- Orissa) ferendo una ventina di indigeni. A scopo intimidatorio, le abitazioni vennero distrutte e i pozzi avvelenati con il cherosene.

Così due mesi dopo, in maggio, quando la polizia apriva nuovamente il fuoco sui manifestanti causando almeno un morto (Laxman Jamuda, appartenente alla tribù dei Munda; quando venne colpito stava fuggendo con un bambino in braccio) e una decina di feriti. Picchiando selvaggiamente donne e bambini. Nuovamente nel corso di una protesta contro un progetto industriale Tata e la costruzione di alcune strade. Con il fondato timore che lo stesso potesse accadere per un’analoga protesta contro la compagnia britannica Vedanta Resources (sempre in Odisha- Orissa). Come nel Bengala occidentale, anche qui le amministrazioni locali collaboravano attivamente con le varie compagnie (Tata, Vedanta Resources e Posco) senza riguardo per le comunità locali.

Tra coloro che maggiormente si sono opposti al processo di industrializzazione forzata (portato avanti da Tata e dalle altre compagnie) vanno ricordate le tribù di Kalinganagar.

Senza dimenticare (sempre in Odisha- Orissa) la resistenza nel distretto di Jagatsingpur al progetto metallurgico della POSCO. Nel 2010 diverse manifestazioni vennero represse con manganelli e lacrimogeni.

Invece i Dongria Kondh di Niyamgiri si erano mobilitati contro l’apertura di una miniera di bauxite e di una raffineria della compagnia Vedanta Resources (società britannica quotata al London Stock Exchange di Londra). Sostenuta, la compagnia, dal governo dell’Odisha, mentre i manifestanti venivano sistematicamente minacciati e arrestati.

Tornado a Ratan Tata, va anche detto – a onor del vero – che proprio nel 2010 avrebbe (secondo Forbes) devoluto in beneficenza qualcosa come 62 milioni di euro. Inoltre il 66 per cento delle azioni Tata risulterebbero controllate da fondazioni caritatevoli. In soldoni: due terzi dei profitti di borsa vengono destinati a organizzazioni non governative e progetti attivi nel sociale, donazioni per la ricerca, ospedali.

E quindi? Diciamo pure “ai posteri l’ardua sentenza” (anche se quella degli adivasi temo sia già stata emessa).

 

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