Domenica 20 ottobre, a colpi di pistola, è stato ammazzato Padre Marcelo Pérez Pérez «sacerdote ribelle, un uomo giusto, uno di quelli che ha sempre voluto costruire il “paradiso” in terra. Il suo sogno è la nostra Rivoluzione, la costruzione di un mondo migliore»
di Andrea Cegna da il manifesto
Le grida «El pueblo unido jamas serà vencidos» e «Marcelo vive, la lucha sigue» hanno riempito prima la chiesa di Guadalupe, e poi le strade di San Cristobal de Las Casas. Domenica 20 ottobre, a colpi di pistola, è stato ammazzato Padre Marcelo Pérez Pérez «sacerdote ribelle, un uomo giusto, uno di quelli che ha sempre voluto costruire il “paradiso” in terra. Il suo sogno è la nostra Rivoluzione, la costruzione di un mondo migliore», come ha ricordato il Nodo Solidale su Facebook.
A PIANGERLO e ad accompagnare la bara fino a San Andres Larrainzar, la comunità dove nel 1974 era nato, famosa per gli «Accordi di San Andres» tra governo e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln), non c’era solo la comunità cattolica. Davanti e dentro la chiesa c’erano attiviste e attivisti sociali, rappresentanti di comunità indigene organizzate, c’erano giornaliste e giornalisti che piangevano, c’erano parrocchiani, c’era rabbia, emozione, ricordo, e voglia di non smettere di lottare. C’era l’unione tra cattolicesimo e lotta sociale, c’erano canti religiosi e storici cori di movimenti rivoluzionari. C’era la parte progressista e movimentista della città e c’erano le comunità dove Marcelo aveva lasciato un segno. Il mix politico/culturale/sociale che è stato parte dell’humus che ha permesso all’Ezln di crescere e alzarsi in armi nel 1994.
LA VOCAZIONE DI MARCELO nacque nel 1997, dopo il massacro di Acteal. A quel tempo entrò in seminario e nel 2002 è diventato sacerdote. Prima parroco di Chenalhò, poi di Simojovel, quindi della chiesa di Guadalupe a San Cristobal. Le varie aree della Chiesa messicana, in primis la Compagnia di Gesù, hanno denunciato l’accaduto e la Conferenza Episcopale del Messico ha chiesto ufficialmente una riunione con la presidenta Claudia Sheinbaum. Di fatto l’omicidio di Padre Marcelo ha riunito le gerarchie cattoliche storicamente frammentate del paese e rotto la narrativa del governo basata sulla negazione della violenza in Chiapas, come già denunciato da decine di ong e centri in difesa dei diritti umani.
L’unità della chiesa attorno a un personaggio così non era scontata, la Diocesi di San Cristobal così come la Chiesa Messicana sono tradizionalmente luoghi conservatori, e Marcelo era tutt’altro che in sintonia con i “suoi” vertici. È stato invece parte attiva in tante lotte delle comunità Tsotsitles e Tseltales che chiedevano migliori condizioni di vita alle autorità e si organizzavano per combattere il crescente impoverimento dello Stato del Chiapas. Era uno strenuo difensore dei diritti umani, e dal 2021 ha denunciato, attraverso marce e pellegrinaggi, l’aumento della violenza per mano della criminalità organizzata.
ERA UN COSTRUTTORE DI PACE, persona disponibile, presente, militante. Proprio per questo ha subito ritorsioni, è stato vittima di minacce, intimidazioni, attacchi fisici e criminalizzazione. La Commissione Interamericana per i Diritti Umani aveva disposto la sua protezione. La rete Tdt (Todos los derechos para todas y todos), che riunisce 87 organizzazioni suddivise in 23 stati del Messico, ha immediatamente condannato l’assassinio, che «mina i processi di costruzione di pace, di difesa dei beni comuni e di vita dignitosa».
«Sia il crimine organizzato che il governo del Chiapas, invece che ringraziare padre Marcelo per il suo lavoro di pacificazione delle nostre comunità, lo hanno ripagato con la prigione e la morte», accusano Las Abejas de Acteal, organizzazione pacifista e anti-capitalista che ha al suo interno i sopravvissuti del Massacro del 1997. La rete Tdt ricorda che «diverse organizzazioni civili per i diritti umani hanno lanciato precedenti appelli per denunciare la situazione di rischio in cui versava padre Marcelo, minacciato da gruppi criminali, alla stessa Procura generale dello Stato del Chiapas, che il 21 giugno 2022 ha richiesto un mandato di arresto al Tribunale» per il parrocco.
INVECE CHE DIFENDERE Marcelo le autorità locali lo hanno accusato di essere stato il promotore della nascita del gruppo di autodifesa «El Machete», incriminato per la sparizione di 21 indigeni nel comune di Pantelhó, il 26 luglio 2021. Uno dei tanti apparenti “cortocircuiti” istituzionali dove la violenza trova spazio e si fa sistema. Apparenze denunciate sia dai centri di diritti umani che dall’Ezln che hanno evidenziato come in Chiapas crimine organizzato e istituzioni convergono, con metodi e mezzi differenti, cercando di controllare il territorio cacciando chi difende beni comuni e diritti.
Il clima ora in Chiapas è da guerra civile. Il nuovo governo dovrà decidere se perseguire la linea della continuità o cambiare rotta ed evitare, come chiedeva Marcelo, la guerra.
«La mia vita è a rischio, ma resto. La pace è più importante della morte»
Luglio 2022, San Cristóbal de las Casas. A colloquio con padre Marcelo: «Ho sostenuto migliaia di “desplazados” a causa delle violenze subite in questi territori e ho cercato sempre di fare da mediatore in molti conflitti»
«La mia vita è a rischio, ma resto qui. Per me la pace è più importante della morte. Per questo ho deciso di rimanere al mio posto». Era la fine di luglio del 2022 quando, in una saletta adiacente il Templo de Nuestra Señora de Guadalupe, a San Cristóbal de las Casas, abbiamo intervistato padre Marcelo Pérez Pérez, prete indigeno tzotziles e parroco della diocesi.
PER INCONTRARLO abbiamo dovuto attendere un po’, per due motivi. Il primo: erano giorni difficili per padre Marcelo e incontrare due sconosciuti poteva costituire un rischio, ma grazie alla presentazione di un giornalista locale alla fine ci ha aperto le porte. Il secondo: era a colloquio con un gruppo di parrocchiani del vicino municipio di Simojovel, della regione di Los Altos del Chiapas, allarmati dalla notizia del suo arresto, che in poco tempo si rivelò falsa e diramata ad arte per aumentare la pressione.
Nelle settimane precedenti, infatti, contro padre Marcelo era stato emesso un ordine di arresto con l’accusa di aver partecipato alla sparizione forzata di 21 persone. Un’accusa che veniva dai fatti accaduti nel luglio di un anno prima quando nella zona di Pantelhó, sempre nella regione di Los Altos del Chiapas, si verificò un sanguinoso scontro tra una rete criminale locale che aveva il controllo del territorio e un gruppo di autodifesa formato da civili armati, chiamato El Machete. In quei giorni, il 5 luglio 2021, proprio a Simojovel, era stato ucciso con un colpo alla testa Simón Pedro, presidente della storica comunità pacifista Las Abejas di Acteal.
SACCHEGGI E CASE BRUCIATE costrinsero oltre tremila persone a fuggire. In questo contesto, il 26 luglio, 21 uomini accusati di far parte della rete criminale sono stati radunati nella piazza centrale di Pantelhó da membri del gruppo di autodifesa e poi fatti sparire. Ed è qui che negli stessi giorni padre Marcelo si è recato per provare a riportare la pace.
«I familiari – ci spiegò – mi accusano di essere responsabile di quella sparizione, ma io sono arrivato a Pantelhó solo il giorno seguente. Ero stato chiamato per mediare e costruire un tavolo di dialogo con il governo statale e federale», che intanto aveva schierato l’esercito nella zona.
Anche il suo avvocato ci confermò la presenza di molti testimoni che avevano sostenuto che padre Marcelo non era a Pantelhó quel giorno: «Nonostante questo, lo si accusa senza prove di un fatto molto grave come la sparizione forzata, che oltre a essere un reato è definito dalle convenzioni internazionali come crimine contro l’umanità».
Fin dal 2014 padre Marcelo ha organizzato manifestazioni pubbliche contro alcolismo, prostituzione e traffico di droga, armi e persone da parte dei potentati locali. Nel 2015, a causa delle minacce ricevute, la Commissione interamericana dei diritti dell’uomo aveva chiesto allo stato messicano misure di protezione per lui e per altri membri del consiglio parrocchiale.
NEGLI ANNI, CI RACCONTÒ padre Marcelo, «ho sostenuto migliaia di desplazados (profughi, ndr) a causa delle violenze subite in questi territori e ho cercato sempre la pace facendo da mediatore in molti conflitti».
La sua storia, quindi, è intrecciata a quella degli ultimi anni del Chiapas, territorio in cui è in costante aumento la presenza di gruppi di civili armati che si contendono il controllo economico e politico del territorio. Le violenze sono da tempo all’ordine del giorno nei municipi intorno a San Cristóbal de Las Casas e, secondo il Frayba, «c’è continuità tra la nascita di questi gruppi, che ha portato a un incremento della violenza in Chiapas, e la strategia contro-insurrezionale legata all’Ezln operata dai gruppi paramilitari negli anni ‘90 e promossa dal governo messicano». Di fronte a questa violenza «le autorità sono assenti o partecipi e il sistema di giustizia che criminalizza i difensori dei diritti umani toglie degli ostacoli ai gruppi criminali».
PARLARE DI OMICIDIO annunciato, purtroppo, non è sbagliato: due anni fa diverse ong, dal Frayba fino ad Amnesty e Frontline Defenders, chiedevano non solo di archiviare processi giuridici «senza fondamento contro difensori dei diritti umani», ma soprattutto protezione per il «possibile arresto, sparizione o omicidio» di padre Marcelo. Un uomo di pace. Che ha scelto di restare. (Intervista acura di Daniele Nalbone e Ylenia Sina)
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