Italiani, brava gente. Che tortura
- novembre 20, 2024
- in misure repressive, riflessioni, tortura
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Torture made in Italy
di Marco Sommariva
Non so se succede anche a voi ma, mentre mi capita di dimenticare facilmente letture che non son state in grado di lasciare in me alcun segno e, al contrario, diverse le ricordo a lungo, ce ne sono alcune che diventano vere e proprie pietre miliari della mia crescita, perché capaci di modificare fortemente ciò che ero, per via dei ragionamenti che mi hanno costretto a fare, frutto dei nuovi e più ampi orizzonti che hanno saputo aprirmi; per esempio, per il dodicenne che ero, sono state pietre miliari Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, Fantozzi di Paolo Villaggio, L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque oppure, molti anni dopo, Non ho risposte semplici di Stanley Kubrick, L’isola dei pinguini di Anatole France, Memorie intime di Georges Simenon e Autunno tedesco di Stig Dagerman.
Fra le altre mie pietre miliari, è senza dubbio compresa Sala 8 di Mauricio Rosencof.
L’autore di questo libro – dirigente dell’MLN-T, Movimiento de Liberación Nacional – Tupamaros, organizzazione di guerriglia urbana d’ispirazione comunista, attiva in Uruguay tra gli anni Sessanta e i Settanta – viene fatto prigioniero nel 1972 e, a partire dal settembre 1973, è tenuto in isolamento per undici anni, ostaggio dell’allora dittatura militare; Rosencof verrà liberato solo dopo tredici anni di prigionia, nel 1985.
La Sala 8 del titolo è quella dell’ospedale militare dove arrivano i prigionieri ridotti in fin di vita per essere rimessi in sesto e di nuovo rimandati nella sala delle torture, oppure alla “soluzione finale”; è un luogo senza possibilità di futuro, dove il tempo è fermo e il destino già deciso: “Gli conficcarono un manganello nel culo, fino al manico, dopo una tortura di quelle pesanti, chiedendogli: “Ti è piaciuto, negro? […] Te lo muovo?” Ma a quel punto squillò la tromba del rancio, e avevamo fame. “Andiamo” disse uno. “Lo lasciamo così?” chiese l’altro. “Tiralo fuori, ne sentirà la mancanza. Dai, presto, si fredda la polenta.” Tolsero il manganello di scatto, si creò un vuoto e insieme al bastone estrassero venti centimetri di intestino. Una fatica staccare le viscere dal manganello ma alla fine ce la fecero”.
La voce narrante è quella di un desaparecido che si muove in questo spazio spettrale raccontandoci la terribile condizione delle vittime dell’ultima dittatura militare uruguagia, private della loro stessa umanità da un regime deciso ad annientare ogni loro traccia, come se non fossero mai esistite; qui lo fa sotto forma di metafora: “Conosco molte storie sulla mia vita come pane. Sono stato condiviso, tagliato, sminuzzato, mi hanno messo il nastro da pacchi sugli occhi, tre giri di nastro, mi hanno legato col fil di ferro, quieto, duro, mi hanno dovuto togliere dal bidone perché, a mollo, la mollica diventava poltiglia e si afflosciavano i giri di fil di ferro. […] Mi hanno spezzato il cantuccio con le tenaglie, mi hanno lasciato senza crosta, mi hanno ridotto in briciole. Poi le hanno spazzate e, di sicuro, le hanno buttate sulla piazza d’armi dove immagino che passerotti e piccioni abbiano fagocitato i miei resti. Quello che è rimasto è andato a finire nella Sala 8”.
Quando leggo storie di torture non riesco a farle scivolare via, finisco col provare a masticarle e ingoiarle, e benché il reflusso me le riporti continuamente in gola per farmele vomitare, alla fine le ributto giù non per provare a digerirle ma perché non mi va di sbarazzare lo stomaco: è bene che qualcosa ci sia sempre ad appesantirlo; se no, temo mi sfugga la Realtà.
In Notturno cileno Roberto Bolaño fa i conti con la storia del suo Cile, e lo fa scegliendo il punto di vista di un uomo equivoco, che ha badato a tenersi lontano dai rischi, che s’è piegato a compromessi e macchiato di viltà: un sacerdote che, in una notte di agonia e delirio, ripercorre la propria esistenza: “poi ammazzarono il consigliere militare di Allende e ci furono disordini, male parole, i cileni bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi mezzo milione di persone sfilò in una grande marcia di appoggio ad Allende, e poi ci fu il colpo di Stato, il sollevamento, il pronunciamento militare, e bombardarono il palazzo della Moneda e quando smisero di bombardare il presidente si suicidò e tutto finì. Allora io rimasi immobile, con un dito sulla pagina che stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla finestra: che silenzio. Il cielo era azzurro, un azzurro profondo e limpido, spruzzato qua e là di nuvole. In lontananza vidi un elicottero. Senza chiudere la finestra mi inginocchiai e pregai, per il Cile, per tutti i cileni, per i morti e per i vivi”.
Il colpo di stato in Cile avviene l’11 settembre 1973, stesso mese e anno in cui inizia l’isolamento del prigioniero Rosencof.
Il rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador Allende che morì durante il colpo di stato, è opera dell’esercito e della polizia nazionale; le forze armate cilene diedero vita a una giunta militare guidata da Augusto Pinochet che – instaurando un regime autoritario e dittatoriale, e rendendosi responsabile di crimini contro l’umanità – restò al potere sino al marzo del 1990.
Durante il regime di Pinochet, funzionarono in tutto il Cile centinaia di centri di detenzione dove le persone arrestate venivano torturate e molte delle quali non sono state mai più viste; dal sito di Amnesty International leggo che sono state oltre 40.000 le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990, mentre il numero ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3.216 e quello di chi ha subìto detenzione politica e/o tortura è di 38.254.
Quasi tutte le donne che furono torturate subirono violenze sessuali, a prescindere dall’età; una donna arrestata nel 1974, racconterà d’esser stata costretta a far sesso con suo padre e suo fratello, mentre una ragazza di sedici anni dichiarerà d’esser stata bruciata con le sigarette, seviziata, tenuta legata a una barella dove alcuni cani addestrati la violentarono e le furono messi dei topi vivi “dentro”.
In Puttane assassine, l’ultima raccolta di racconti allestita prima di morire nel 2003, Roberto Bolaño scrive: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non ci sono più tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì, sono stati coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del MIR [Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole topi vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel Distrito Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per via di tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire di tristezza”.
Dietro queste torture c’era la DINA, ossia la polizia segreta cilena nel primo periodo della dittatura di Pinochet.
Nominata la DINA, non posso fare a meno di riprendere un passaggio del sopraccitato Notturno cileno: “E poi arrivò la democrazia […] e allora si seppe che James Thompson era stato uno dei più importanti agenti della DINA e che usava la sua casa come luogo di interrogatori. I sovversivi passavano dai seminterrati di James, dove lui li interrogava, gli tirava fuori tutte le informazioni possibili, e poi li mandava in altri centri di detenzione. A casa sua, di regola, non si ammazzava nessuno. Si interrogava soltanto, anche se qualcuno era morto”.
In quella casa succedeva che, ogni tanto, mentre gli inquilini guardavano la televisione coi bambini, andava via un momento la luce; dallo scantinato non arrivava alcun urlo, unico segnale delle torture che avvenivano era l’elettricità che se ne andava di colpo e poi tornava.
Restando in argomento tortura, mi torna in mente la storia di Anna Politkovskaja, giornalista russa con cittadinanza statunitense, che il 7 ottobre 2006 viene ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre all’insegna del coraggio e della verità. Il killer, ripreso dalle telecamere dell’edificio, le spara un colpo al petto e tre al capo. Subito, amici e colleghi che stimavano il suo lavoro si dirigono sul luogo del delitto per renderle omaggio; anche l’intervento della polizia è tempestivo: entrano in casa della giornalista e le sequestrano il computer. Dopo l’omicidio, Putin puntualizzerà che la Politkovskaja “aveva un’influenza minima sulla vita politica russa”, e che “il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla Cecenia che qualunque dei suoi articoli”; questo potrebbe essere il motivo per cui i telegiornali governativi russi non parlarono del funerale.
Verrebbe da pensare qualcosa tipo “Va be’, comunque si sta parlando di regimi – uruguagio, cileno e russo – e di un bel po’ di anni fa, di certo non accadrà nulla di simile in Italia nel 2024”. Ma non si fa in tempo a terminare un pensiero un po’ superficiale come questo – ogni tanto, giusto per sopravvivere, provo a raccontarmela – che già un amico mi spedisce sul cellulare questo link https://www.lindipendente.online/2024/09/20/roma-agente-confessa-hasib-ragazzo-disabile-e-finito-in-coma-per-sfuggire-alle-torture/ con tanto di invito a leggere l’articolo. E così vengo a conoscenza che Fabrizio Ferrari, l’agente di polizia che il 25 luglio 2022 si trovava al terzo piano di un edificio in zona Primavalle, a Roma, mentre il suo collega Andrea Pellegrini sottoponeva a tortura Hasib Omerovic – un giovane sordomuto di etnia rom senza precedenti penali –, ha patteggiato una pena a undici mesi di reclusione. Leggo che il “Ferrari ha confessato di aver assistito al momento in cui il ragazzo si è lanciato dalla finestra per sfuggire alle torture di Pellegrini, un gesto disperato che gli è costato lunghi mesi di coma in ospedale e un lungo percorso di recupero ancora in corso”.
In pratica, succede che manca poco all’ora di pranzo quando quattro agenti in borghese si presentano alla porta del trentaseienne Hasib Omerovic, riferendo di dover eseguire un controllo dei documenti. Nonostante non vi sia mai stata conferma o riscontro, gli agenti decidono d’intervenire dopo che alcuni residenti hanno accusato Hasib su Facebook, di aver importunato alcune ragazze del quartiere. Secondo il racconto reso da Ferrari al Pubblico Ministero, Pellegrini avrebbe prima schiaffeggiato Omerovic, per poi minacciarlo con un coltello da cucina. L’agente avrebbe poi sfondato la porta della stanza dell’uomo, nonostante questi “si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi”, lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una volta riuscito a liberarsi, Omerovic si è poi gettato dal balcone della sua stanza per sfuggire ai soprusi, finendo in coma in ospedale per diversi mesi.
“Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, avrebbe detto l’agente; proprio come succedeva in Uruguay durante la dittatura militare degli anni Settanta: “Gli conficcarono un manganello nel culo”, ricordate?
Non faccio in tempo ad “archiviare” questa brutta notizia che già ne leggo una peggiore: “11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi. Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci.”
Messo al corrente di questi casi di tortura made in Italy, un collega mi confessa di non riuscire a spiegarsi come un popolo di così “brava gente”, tanto affettuoso con gli animali in generale e coi cani in particolare, possa commettere atti del genere. Mi sorprendo nell’aver la risposta pronta, e questo grazie al fatto che ho avuto la fortuna d’aver letto poco prima un interessante articolo su Il Foglio Quotidiano, intitolato “Cani e gatti nel Terzo Reich”, a firma di Siegmund Ginzberg.
E così, riporto al mio collega diverse informazioni lette sul giornale, su cui ragionare, giusto per non farsi fagocitare dall’oscuro tunnel della superficialità dove, anche il sottoscritto, ogni tanto è tentato d’infilarsi.
Una delle primissime leggi approvate con Hitler cancelliere fu quella contro “la crudeltà verso gli animali” in cui si proibisce la vivisezione, il procurare loro ogni forma di “tormento e maltrattamento” e il loro utilizzo in esperimenti medici.
Il dottor Mengele, assolutamente ligio alle leggi, come i suoi colleghi medici ad Auschwitz, non vivisezionava animali. I suoi orribili e sadici esperimenti, senza anestesia, li conduceva su esseri che per lui erano subumani, molto meno che animali. Poi tornava a casa a coccolare il suo cane: “Coccolano i loro cani, ma erigono Dachau”, da La scimmia e l’essenza di Aldous Huxley.
E ancora, Hitler ebbe e si affezionò a numerosi cani, fino all’ultimo: la femmina di pastore tedesco Blondi, che volle accanto a sé anche nel bunker di Berlino, l’avvelenò amorevolmente prima di suicidarsi.
Infine, altro grande amante degli animali e orgoglioso allevatore di cani, fu Rudolf Höss, il comandante del campo di sterminio su scala industriale di Auschwitz.
Se qualcuno di voi ritenesse d’aver, comunque, riscontrato una certa logica in quanto letto sinora, aggiungo un ultimo elemento: alla fine del loro arruolamento, le reclute della unità cinofili delle SS erano costrette a spezzare il collo del cane che avevano addestrato, di fronte al proprio ufficiale superiore, per dimostrare disciplina, obbedienza assoluta e necessaria spietatezza.
Chiuderei con una frase del già menzionato Bolaño, che mi pare la degna conclusione a quanto riportato sinora: “Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto”.
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