L’invisibilità del lavoro domestico è un problema politico (e riguarda tutti noi)
- novembre 25, 2024
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puntata 3 – Lavora e crepa 2024
25 Novembre – Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – Pubblichiamo una riflessione sul lavoro domestico, tipicamente femminilizzato e a cavallo tra pubblico e privato.Una storia di lavoratrici fatta di invisibilità e sfruttamento,ma anche di interessanti pratiche di solidarietà e azione collettiva.
di Lucia Amorosi
Quando parlo con L. uno schermo media la comunicazione: siamo in piena emergenza Covid, ma anche in un periodo di “normalità” sarebbe stato molto difficile intervistare L. dal vivo. L. è un’assistente familiare convivente, la sua vita dipende dalle esigenze di tempo dell’assistito, e il tempo libero si riduce alla domenica e al pomeriggio del giovedì, uniche occasioni per socializzare, affrontare le questioni relative al rinnovo dei documenti, parlare con i familiari rimasti in Ucraina. Questa compressione totale della vita personale emerge chiaramente dalle sue parole:
“le persone quando prendono una badante…è come se avessero una schiavetta a disposizione…Se stai 24 ore in quella casa, sei agli arresti domiciliari! Non capiscono che tu devi lavorare solo le ore per cui vieni pagata…è ovvio che, se gli italiani fanno questo lavoro, preferiscono farlo in nero, perché comunque il contratto non ti tutela più di tanto. É un lavoro molto duro, e te lo dico sorridendo perché…ridere per me è una rivincita, è un pianto che ha voluto cambiare la sua essenza…”
- non è l’unica, tra le lavoratrici domestiche che ho intervistato in questi anni, a utilizzare parole particolarmente dure per autodefinirsi: schiave, oggetti, serve. La storia di queste lavoratrici (l’80% sono donne, secondo i più recenti dati INPS[1] sulla componente regolare), è fatta di invisibilità e sfruttamento, una condizione determinata da più fattori. Occorre forse partire dai dati: il tasso di irregolarità è del 51,8% secondo le più recenti stime INPS, ma occorre considerare che tale dato risente ancora degli effetti positivi dell’ondata di regolarizzazioni legate al lockdown da Covid-19 (la circolazione era consentita solo alle lavoratrici regolari), e dei -limitati- effetti della sanatoria straordinaria del 2020. La composizione interna di questa forza lavoro, poi, vede un protagonismo considerevole di donne migranti, se consideriamo che le straniere sono il 70% del totale delle lavoratrici domestiche regolari. Il lavoro domestico è un lavoro razzializzato e femminilizzato, ed è proprio questa combinazione di fattori che alimenta l’invisibilità costitutiva dello stesso. La dimensione intersezionale del lavoro domestico, da intendere come interazione simultanea tra diverse relazioni sociali nel determinare la marginalizzazione tanto delle persone che concretamente svolgono questo lavoro, quanto di questo specifico settore lavorativo in sé -a cavallo tra pubblico e privato-, se da un lato determina meccanismi articolati di sfruttamento e invisibilizzazione, dall’altro apre a interessanti pratiche di solidarietà e azione collettiva.
L’invisibilità strutturale del settore ha almeno tre dimensioni: innanzitutto, l’invisibilità storica e socialmente determinata delle attività domestiche e di cura in quanto attività riproduttive e quindi femminilizzate. Come evidenziato da molte pensatrici femministe[2], lo sviluppo del Capitalismo e la separazione tra mondo pubblico produttivo e mondo privato riproduttivo ha definito che solo il primo valesse come “vero lavoro”, mentre la riproduzione sociale – da intendere come insieme delle attività che consentono non solo il mantenimento della vita, ma della stessa struttura produttiva capitalistica- è stata collocata fuori dalla sfera del lavoro salariato, coerentemente con un processo di estrazione diretta di valore da attività che sono state socialmente costruite come vocazione naturale del genere femminile. Le donne hanno sempre lavorato, sia dentro che fuori casa, ma raramente il loro lavoro dentro le mura domestiche è stato riconosciuto come tale. Anche oggi che donne spesso migranti svolgono le stesse attività storicamente svolte a titolo gratuito dalla componente femminile della famiglia, il loro lavoro, sebbene salariato, gode ancora di un bassissimo riconoscimento sociale ed economico. Dalle parole di S. emerge chiaramente la distanza tra -eccessive-pretese delle famiglie e scarso riconoscimento del valore del lavoro domestico:
“Le famiglie, soprattutto quelle giovani vogliono tutto e…pagano niente! Quando tu chiedi quanto è lo stipendio, loro ti dicono: da tal ora a tal ora 800 euro…Addirittura si paragonano: ‘eh, io prendo 800 euro’…ma tu fai un lavoro diverso dal mio!”
In secondo luogo, queste lavoratrici scontano l’invisibilità fisica dello spazio di lavoro, ovvero il domicilio privato, che gode di uno statuto di eccezionalità proprio perché estraneo alla sfera pubblica esplicitamente produttiva, e che vede un datore di lavoro assolutamente sui generis, ovvero la famiglia, intesa esclusivamente come attore sociale. Infine, considerata l’elevata presenza di donne migranti, queste lavoratrici sperimentano spesso l’invisibilità derivante da un regime migratorio che restringe l’accesso legale per motivi di lavoro[3] mentre consente la riproduzione di nicchie lavorative informali a basso costo dove impiegare forza lavoro migrante spesso priva di documenti. Come mi disse una volta un lavoratore: “tanti connazionali dicevano che l’Italia è tranquilla, che non fanno espulsioni anche se ti trovano senza documenti…non è come altri paesi europei”. Decenni di retorica anti-immigrazione si infrangono sullo scoglio dello sfruttamento economico e della necessità di produrre una forza lavoro altamente ricattabile.
Questa triplice invisibilità, tuttavia, non può essere intesa come un’eccezione, ma è la normalità in un settore lavorativo come quello domestico e di cura: l’informalità strutturale è conseguenza diretta dell’assenza di un sistema di welfare pubblico efficiente. Se, come dimostra la letteratura, l’Italia non ha mai visto un welfare reale, configurandosi come sistema familistico in cui le famiglie, e quindi le donne, si sono assunte a titolo gratuito certe responsabilità, nemmeno i recenti cambiamenti demografici e sociali hanno messo in discussione tale modello, riproducendo familismo e femminilizzazione della cura. La dimensione strutturale dell’informalità del settore emerge anche dall’analisi della normativa e del CCNL di riferimento, che si contraddistinguono per un approccio derogatorio su maternità, malattia, licenziamenti, calcolo dei contributi etc…[4] Su tutti questi temi le lavoratrici domestiche non godono degli stessi diritti delle altre lavoratrici, nonostante l’esistenza di un contratto collettivo. D’altro canto, il domicilio privato come luogo di lavoro consente di ricorrere più facilmente a forme di lavoro nero e grigio nell’ottica di abbattere i costi per le famiglie, una priorità reale all’interno di quello che ormai viene definito Do-It-Yourself welfare. In un simile contesto, il nero spesso conviene anche alle lavoratrici: a fronte di un contratto poco tutelante, lavorare informalmente consente di guadagnare di più nel breve periodo, con evidenti conseguenze positive sulle rimesse da inviare nel paese di origine o per la stessa sopravvivenza in Italia. La scarsa tutela derivante dalla formalizzazione del rapporto di lavoro emerge anche dalle parole di un’altra intervistata, M:
“La differenza tra lavorare con contratto e senza è poca, io non ho mai percepito disoccupazione, malattia…non so cosa significa ammalarsi…noi lavoratrici domestiche siamo quelle che lavoriamo e abbiamo paura di ammalarci, se ci facciamo male, meglio che non lo diciamo perché … perchè essere collaboratrice domestica vuol dire essere sempre disponibile, h24”.
In un simile contesto, fatto di invisibilità, sfruttamento e eterogeneità della forza lavoro, anche l’organizzazione collettiva e sindacale è difficile. Raggiungere queste lavoratrici non è immediato, essendo spesso divise da fratture etniche e di nazionalità, ma ancora più difficile è immaginare forme di azione collettiva che siano efficaci in un settore segnato da una dimensione esclusivamente individuale. In un contesto simile non si può pensare di ricorrere agli strumenti classici del sindacalismo, considerando che le principali sigle sindacali da un lato firmano il CCNL del settore, e dall’altro devono tutelare gli interessi dei datori di lavoro, ovvero i e le pensionati/e iscritti al sindacato. La dipendenza dal datore di lavoro è un grande ostacolo in questo settore, come testimonia questa lavoratrice: “Le lavoratrici hanno paura, non si vogliono esporre. E’ successo anche a me: quando sono andata dal sindacato ho chiesto: ma il mio datore di lavoro viene a saperlo? E il signore mi ha detto: ovviamente! Dobbiamo chiamarlo…. Allora si pensa: come faccio a pagare l’affitto, le spese…tante poi hanno i figli…”.
L’organizzazione di forme di azione collettiva nel lavoro domestico chiama direttamente in causa il tema della sindacalizzazione in chiave intersezionale.[5] Il tema non è solo quello di avere a che fare con una forza lavoro particolarmente frammentata e marginalizzata simultaneamente lungo la linea del genere e della nazionalità/etnia, ma anche l’avere a che fare con un lavoro difficilmente riconosciuto come tale perché svolto in ambiente domestico dalla componente femminile della popolazione (migrante o meno). La costruzione sociale del lavoro domestico come lavoro sottopagato e sotto-tutelato e, dunque, svolto da una forza lavoro marginalizzata socialmente, è logica conseguenza della volontà di abbattere i costi all’interno di un sistema di welfare sempre più privatizzato e mercificato. Secondo le stime di DOMINA, Associazione Nazionale Famiglie Datori di Lavoro Domestico[6], nel solo settore dell’assistenza agli anziani, lo Stato dovrebbe spendere circa 8 miliardi di euro all’anno se volesse esonerare le famiglie da questa spesa. Si capisce che il tema è tutto politico, e riguarda la scelta di socializzare e politicizzare le attività della riproduzione sociale. É impensabile ottenere migliori condizioni di impiego e di lavoro nel settore domestico fino a quando questo verrà identificato come sola responsabilità familiare -e femminile-, in cui l’abbattimento dei costi resta la principale priorità per le famiglie. La controparte, anche in termini sindacali, è lo Stato, e ogni rivendicazione sindacale non può mantenersi distaccata da più chiare rivendicazioni contro discriminazioni di genere e su base nazionale/etnica. La dimensione politica innovativa dei processi di sindacalizzazione nel settore emerge anche dalle esperienze di altri contesti, come l’organizzazione spagnola “Territorio Doméstico” che, non a caso, parla di Biosindacalismo[7], un sindacalismo della vita che tiene insieme l’identità sociale con l’identità lavorativa delle lavoratrici domestiche migranti coinvolte. Nelle parole delle lavoratrici migranti di Territorio Doméstico: “È una forma di lotta per il diritto di tutte le persone ad avere una vita che valga la pena e, soprattutto, la gioia di essere vissuta. Perché lottiamo e vogliamo continuare a lottare per tutti i diritti che sono in gioco nella vita di tutti i giorni, e da qui il gioco con il prefisso “bio”. (2023, p. 15)
Ciò presuppone costruire alleanze con movimenti e realtà femministe e antirazziste, necessarie a superare la frammentazione degli approcci al tema e delle possibili soluzioni. Solo così si può mettere in pratica l’intersezionalità, parola che viene spesso abusata se funzionale a descrivere la marginalizzazione e la vulnerabilizzazione dei singoli, ma altrettanto spesso dimenticata quando si tratta di passare dal piano individuale a quello collettivo e di organizzarsi su più fronti, a partire da prospettive diverse, per garantire un accesso effettivo ai diritti a quante più persone possibile.
Note
[1] Si veda https://www.inps.it/it/it/inps-comunica/notizie/dettaglio-news-page.news.2023.06.osservatorio-sui-lavoratori-domestici-i-dati-2022.html
[2] Da Silvia Federici a Angela Davis, da Mariarosa Dalla Costa, a Nancy Fraser.
[3] Il sistema di quote del Decreto Flussi ha dimostrato di essere decisamente inadeguato negli anni, e per quasi un decennio non ha programmato ingressi nel settore domestico. Spesso, l’unico modo che queste lavoratrici hanno per regolarizzarsi è attraverso sanatorie straordinarie che, vista la dimensione di eccezionalità, le condannano ad anni e anni di ricattabilità e dipendenza dai datori di lavoro.
[4] Silvia Borelli, “Who cares? Il lavoro nell’ambito dei servizi di cura alla persona”, Jovene Editore, Napoli, 2020.
[5] Sabrina Marchetti, Daniela Cherubini. Giulia Garofalo Geymonat, “Global Domestic Workers. Intersectional Inequalities and Struggles for Rights”, Bristol University Press, Bristol, 2021.
[6] Osservatorio Nazionale DOMINA, “Quinto Rapporto Annuale sul Lavoro Domestico”, Roma, 2023
[7] Si veda: https://laboratoria.red/publicacion/biosindicalismo-desde-los-territorios-domesticos/
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