Il ddl 1236 (ex 1660) è solo l’ultimo capitolo di una lunga scia di normative promulgate per la gestione dei conflitti sociali come oggetti d’ordine pubblico, secondo una logica di criminalizzazione trasversale ai partiti: approfondimento a cura del CentroDoc “Lorusso-Giuliani”, in vista di un’iniziativa organizzata a Bologna per il 4 dicembre con Archivio via Avesella e Cua.
di zic.it
“Dalle stragi di Stato allo Stato di emergenza” è il titolo di un’iniziativa organizzata dal Centro di documentazione dei movimenti “Lorusso-Giuliani”, dall’Archivio via Avesella e dal Cua che si terrà mercoledì 4 dicembre alle 18,30 al 38 occupato di via Zamboni. Parteciperanno: Claudia Pinelli (attivista), Marina Prosperi (avvocata, Giuristi democratici Bologna), Elia de Caro (associazione Antigone) e Italo di Sabato (Osservatorio Repressione).
“La repressione ha un ambito ed un obiettivo per così dire necessari: colpire e distruggere anticipatamente ogni nucleo di possibile resistenza alla ricomposizione politica capitalistica e di possibile organizzazione autonoma proletaria […] Gli operai debbono riprendere ordinatamente il lavoro secondo gli indici di produttività stabiliti dal sistema mondiale dello sfruttamento e non secondo i rapporti di forza dati dalle lotte […] E la criminalizzazione delle lotte è la spada che segue coerentemente da questa ragione di Stato”. Con queste parole, spiegano gli organizzatori dell’iniziativa, “usciva l’editoriale ‘Il Terrorismo di Stato’, apparso sul quindicinale Rosso nel 1975. Erano già esplose le bombe di piazza Fontana, piazza della Loggia, dell’Italicus. Nel frattempo il quarto governo Moro firmava l’approvazione alla Legge Reale, introducendo una serie di novità per la repressione del conflitto sociale”.
Dalla metà degli anni Settanta, prosegue la presentazione dell’iniziativa, “le tecniche repressive per sconfiggere i movimenti si affinarono in efficacia e intensità: ci fu una chiusura sempre più netta nei confronti delle rivendicazioni operaie e proletarie, mentre lo Stato iniziò a condurre una vera e propria guerra contro i movimenti di lotta. La ‘strategia della tensione’, intensificatasi con la bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, divenne a tutti gli effetti una forma di governo dei conflitti sociali. Una risposta, anche, ad una annata che è ormai un simbolo del conflitto operaio nella storia dell’Italia repubblicana: il 1969 ed il suo autunno caldo. Oltre gli anni ’70, però, abbiamo di fronte a noi una lunga scia di decreti sicurezza promulgati per la gestione dei conflitti sociali come oggetti d’ordine pubblico. E oggi? A quasi 55 anni di distanza dai fatti di piazza Fontana, ci interrogheremo sul concatenarsi nel tempo di norme repressive, leggi speciali e pacchetti sicurezza. Una serie di dispositivi ormai stratificati, di cui il dl Meloni-Salvini 1660 è soltanto l’ultimo di una lunga serie. Una discussione che oltre alla contingenza vuole inquadrare sul lungo periodo anche le attuali norme limitative proposte dal Governo Meloni”.
Pubblichiamo a seguire un approfondimento curato dal CentroDoc “Lorusso-Giuliani” in vista dell’iniziativa del 4 dicembre.
Emergenza e leggi speciali in Italia
Tra le armi usate contro i conflitti sociali la repressione è sempre stata una delle più sfruttate.
Il modello repressivo statale si è sempre “adattato” al livello di scontro sollevato dalle lotte e dai conflitti, la sua logica è sempre stata quella del “tallone di ferro” che schiaccia e soffoca le istanze sociali.
Nel clima rovente dell’autunno caldo, nell’ultimo quadrimestre del 1969, furono denunciate 8.396 persone per 14.036 reati, tra i quali 235 per lesioni personali, 19 per devastazione e saccheggio, 4 per sequestro di persona, 124 per violenza privata, 1.610 per blocchi stradali e ferroviari, 29 per attentati alla sicurezza dei trasporti, 3.325 per invasione di aziende, terreni ed edifici e 1.376 per interruzione di pubblici servizi.
Dalla metà degli anni settanta le tecniche repressive per sconfiggere i movimenti si affinarono in efficacia e intensità: ci fu una chiusura sempre più netta nei confronti delle rivendicazioni operaie e proletarie, lo Stato praticò una vera e propria guerra contro i movimenti di lotta.
La “strategia della tensione” (innescata dalla strage di Piazza Fontana) divenne una forma di governo dei conflitti sociali: ci fu una gestione dell’ordine pubblico molto dura e si arrivò all’utilizzo dello stragismo fascista da parte degli apparati statali. Si balenarono tentativi di colpi di stato e ci fu un uso ripetuto dello squadrismo fascista.
Francesco Cossiga (il Kossiga per i movimenti) fu il ministro dell’interno per eccellenza, perché incarnò solo come aveva fatto Scelba negli anni ’50, il sistema repressivo dello Stato contro le lotte. Matteo Salvini, da anni, cerca di scimmiottare questi suoi “illustri” predecessori.
La sovraproduzione di norme penali e amministrative oltre che ad avere come principale obiettivo quello di estinguere ogni forma di conflitto sociale anche nella sola espressione del dissenso verbale, per decenni ha ingrandito se non addirittura creato ex novo paure e timori, timori e paure che hanno sempre alimentato la richiesta di sistemi punitivi ogni volta più sofisticati.
La legge Reale – 22 maggio 1975
Il 22 maggio 1975 venne approvata la legge Reale (dal nome del ministro della Giustizia di allora, Oronzo Reale, segretario del Pri) che imponeva poteri speciali alle forze di polizia per la tutela dell’ordine pubblico, prevedendo un inasprimento delle pene contro i reati legati ad episodi di violenza politica.
La legge estese il ricorso alla custodia cautelare, permettendo il fermo preventivo fino a 96 ore, anche in assenza di flagranza di reato. Il periodo di fermo negli anni successivi fu diminuito, mentre è ancora in vigore la possibilità per la polizia di compiere perquisizioni senza autorizzazione del giudice in caso di presunto possesso di armi. La stretta era già iniziata da un anno prima con la legge dell’aprile 1974 che, in materia di giustizia penale, aveva portato i termini della carcerazione preventiva a 8 anni. Un’altra legge, la n. 497 del 14 ottobre 1974, aveva reintrodotto l’interrogatorio di polizia, che era stato cancellato nel 1969, dopo l’autunno caldo.
L’articolo 17 della legge Reale prevedeva la possibilità di processi in via direttissima per reati di ordine pubblico. Con l’articolo 5 introduceva la cosiddetta “norma casco” (tuttora attiva), che proibiva l’utilizzo del casco e di altre coperture del volto in pubblico senza giustificato motivo. Il provvedimento nel tempo è stato attenuato: all’inizio prevedeva l’arresto in stato di flagranza.
Con l’articolo 14 si consentì “l’uso legittimo delle armi da parte delle forze di polizia in operazioni di ordine pubblico” (per esempio: il carabiniere che uccise Francesco Lorusso nel marzo ’77 non andò mai a processo, e la stessa cosa è avvenuta con l’omicidio di Carlo Giuliani nel luglio 2001).
Questa autorizzazione a sparare per le forze dell’ordine venne annunciata con l’intento di impedire una «quantità ampia di reati», anche in assenza di situazioni di resistenza o di violenza di qualsiasi tipo. Nel caso di sospetti di abuso della facoltà di sparare da parte di agenti o di militi le indagini passavano dal giudice competente al procuratore generale presso la corte d’Appello (al quale spettava la scelta tra un procedimento del suo ufficio o la trasmissione dell’indagine alla procura). Si trattava di uno spostamento di competenze che poteva prefigurare se non proprio una garanzia di impunità qualcosa di simile.
Negli anni successivi (il periodo chiave fu il 1977) si sviluppò una legislazione d’emergenza, approvata da tutti i partiti del cosiddetto “arco costituzionale”, che aggravava le pene per i reati con finalità di eversione. Venne istituito il circuito delle “carceri speciali” (autorizzate ma mai legiferate), destinate alla distruzione psicofisica dei detenuti politici.
La legge Cossiga – 6 febbraio 1980
Nel clima di tensione sociale negli successivi al ’77, nel 1979, la magistratura lanciò un allarme che invocava leggi speciali. Così nel 1980 arrivò il pacchetto sicurezza che prese il nome del ministro dell’Interno Francesco Cossiga
La legge n.16 del 6 febbraio 1980, convertì un decreto legge del 1979 che conteneva “misure d’urgenza per la tutela dell’ordine democratico (antiterrorismo)”.
L’articolo 3 introduceva il nuovo reato di “associazione ai fini di eversione e terrorismo”, con condanne che si aggiungevano a quelle per il reato di associazione sovversiva. L’aggravante per reati “a fini di eversione e terrorismo” prevaleva sempre su qualsiasi circostanza attenuante.
L’articolo 6 ripristinava il fermo per 96 ore per individui che “stanno per commettere un reato”. L’articolo 9 estendeva i poteri di perquisizione, permettendola per cause d’urgenza, anche senza il mandato del magistrato competente. L’articolo 10, nei casi di eversione, estendeva di un terzo il periodo massimo di carcerazione preventiva a ogni fase di giudizio. Veniva incentivato il fenomeno del pentitismo, con sconti di pena per chi collaborava con la giustizia.
I Daspo – 13 dicembre 1989
La legge era la n. 401 ; approvata il 13 dicembre 1989, interveniva in situazioni di violenza negli stadi italiani; i relatori sostennero che le curve si erano politicizzate e radicalizzate.
Prevedeva il divieto, per un soggetto considerato pericoloso, di partecipare a manifestazioni sportive, anche con l’obbligo di presentazione a un ufficio di polizia. Il Daspo veniva emesso anche in seguito a una semplice denuncia, perché considerato una misura di prevenzione.
Dopo le modifiche del decreto Amato, tramutato in legge il 4 aprile 2007, le norme vennero aggravate.
Venivano previsti controlli più stringenti agli ingressi degli stadi e il divieto di accesso anche a chi, pur se provvisto di biglietto, non aveva con sé un documento di identificazione
Tutte le sanzioni furono inasprite: chi provocava lesioni gravi a pubblici ufficiali in servizio di ordine pubblico poteva essere punito da 4 a 10 anni, e per le lesioni gravissime era prevista una pena che andava dagli 8 ai 10 anni. Era vietata l’esposizione di striscioni “che comunque incitano alla violenza o che contengono insulti o minacce” ed erano previste pene da uno a cinque anni.
Veniva confermato l’arresto differito, con la possibilità di mettere le manette in flagranza di reato entro 48 ore, anziché 36.
Il Daspo venne rafforzato e poteva essere applicato anche ai minorenni, con la diffida ad assistere agli eventi sportivi per un periodo che andava da uno a cinque anni per i provvedimenti firmati dal questore, e da due a otto anni per quelli emessi dal giudice.
Si autorizzava l’utilizzo di steward all´interno degli stadi, cioè di personale non appartenente alle forze di polizia.
Al momento dell’approvazione della legge in molti dichiararono che la sperimentazione sugli “ultras del calcio” sarebbe poi stata allargata nei suoi provvedimenti restrittivi anche ad altre “emergenze politiche e sociali”.
La legge Pisanu – 31 luglio 2005
Negli scenari del post “11 settembre 2001” vennero sollecitati “provvedimenti d’urgenza” e “controlli collettivi”. La legge era la n.155, fu approvata il 31 luglio 2005 (a sette giorni di distanza dagli attentati avvenuti a Londra nello stesso mese di luglio) e convertiva un decreto dello stesso ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu.
Prevedeva un inasprimento normativo nei confronti dei cittadini migranti, cui veniva concesso il permesso di soggiorno se collaboravano con le forze dell’ordine (art.2 permessi di soggiorno a fini investigativi) e che potevano essere espulsi se ritenuti pericolosi, anche se non avevano commesso il fatto per cui erano sospettati (art.3 “nei cui confronti vi siano fondati motivi di ritenere che la loro permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali”). La legge introduceva l’allargamento dei controlli sul traffico telefonico e telematico (che rendeva difficile l’apertura di internet point e vietava wi-fi e connessioni senza registrazione).
In una serie di articoli era prevista maggiore attenzione poliziesca negli aeroporti e sui voli aerei. In altri erano contenute nuove misure per arresti e fermi. Insieme a un’unità antiterrorismo (art. 5 “apposite unità investigative interforze, formate da esperti ufficiali e agenti di polizia giudiziaria delle forze di polizia, individuati secondo criteri di specifica competenza tecnico-professionale”), le forze di intelligence avevano più facilitazioni.
Poi, in caso di emergenza e necessità, la polizia poteva procedere agli arresti secondo le norme della legge Reale del 1975.
Venivano anche introdotte nuove norme sull’identificazione personale («Se gli accertamenti comportano il prelievo di capelli o saliva e manca il consenso dell’interessato, la polizia giudiziaria procede al prelievo coattivo nel rispetto della dignità personale del soggetto, previa autorizzazione scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, del pubblico ministero») e nuove disposizioni in materia di arresto e di fermo.
Per quanto riguardava le misure di prevenzione, «se l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno», si applicava la pena della reclusione da uno a cinque anni ed era consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza.
Infine, si allargava l’utilizzo di servizi di vigilanza privata, senza l’impiego di personale delle forze di polizia, in servizi di sicurezza sussidiaria nell’ambito dei porti, delle stazioni ferroviarie e dei relativi mezzi di trasporto e depositi.
Pacchetto sicurezza Maroni – 2008
Il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, fu approvato in via definitiva al Senato il 23 luglio 2008.
Prevedeva un ulteriore inasprimento delle attività di contrasto delle “migrazioni irregolari” e confermava una chiusura delle vie legali di ingresso in Italia, oltre che un’ulteriore contrazione del numero delle persone che avevano avuto accesso alla procedura di asilo in Italia.
Con i provvedimenti annunciati dal nuovo governo in materia di sicurezza il nostro paese si collocava al di sotto della soglia più bassa di garanzia consentita dalle direttive comunitarie in materia di immigrazione ed asilo. Veniva ripristinato un illimitato potere discrezionale della polizia, sottratto ad un effettivo controllo giurisdizionale. Il decreto infrangeva consolidati principi costituzionali, ribaditi sino a pochi anni prima da importanti decisioni della Corte Costituzionale ( sentenze n.222 e 224 del 2004) che avevano scardinato la disciplina delle espulsioni introdotta dalla legge Bossi-Fini.
Venne introdotto il reato di immigrazione clandestina con pene da sei mesi a quattro anni per migranti entrati “illegalmente nel territorio dello Stato”. Tutte le pene previste dal codice penale per reati comuni come il furto venivano aumentate di un terzo se si trattava di reati commessi da immigrati clandestini. Erano previste espulsioni più rapide per i clandestini, con pene fino a quattro anni di reclusione per i trasgressori dell’ordine di espulsione o di allontanamento dal territorio italiano.
Veniva elevata la durata dell’internamento degli immigrati irregolari nei centri di detenzione amministrativa fino a 18 mesi, i CPT si trasformavano di fatto in carceri etniche.
Si ampliava ulteriormente la sfera di discrezionalità nella qualificazione dei “motivi imperativi di pubblica sicurezza” che consentivano l’espulsione e la detenzione amministrativa anche dei cittadini comunitari.
Venivano attribuiti poteri speciali ai sindaci in materia di sicurezza urbana e incolumità pubblica.
Si consentiva alle amministrazioni locali di negare l’iscrizione anagrafica quando mancassero i requisiti di reddito o di alloggio. Si susseguirono provvedimenti che criminalizzavano l’accattonaggio o facilitavano la sottrazione dei bambini alle loro famiglie, come successe con le ordinanze sui lavavetri nella Firenze di Dominaci. I sindaci potevano indicare alla polizia, tramite la collaborazione dei vigili urbani, gli immigrati da espellere, anche se si trattava di cittadini comunitari. I provvedimenti concernenti le limitazioni ai matrimoni misti e ai ricongiungimenti familiari restrinsero le possibilità di stabilizzazione e di integrazione dei e delle migranti.
Con un altro decreto voluto da Maroni, il 6 ottobre 2009, il settore della sicurezza si arricchì di una nuova figura professionale: “l’addetto ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento e di spettacolo in luoghi aperti al pubblico”.
Con questi nuovi provvedimenti il carcere diventava lo strumento principale per affrontare i problemi sociali.
Decreto Minniti-Orlando “sul contrasto dell’immigrazione illegale” – 2017
Il 13 aprile 2017 la Camera approvò definitivamente il disegno di legge di conversione del decreto-legge 17 febbraio 2017, n.13 (Legge 13 aprile 2017, n.46), che portava il nome del ministro dell’interno Marco Minniti e del ministro della giustizia Andrea Orlando e che conteneva “disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”.
Secondo le dichiarazioni degli stessi ministri, il decreto nasceva dall’esigenza del governo di accelerare le procedure per l’esame dei ricorsi sulle domande d’asilo, che nell’ultimo anno erano aumentati e avevano intasato le aule dei tribunali. Dall’altra parte il governo voleva aumentare il numero delle espulsioni di migranti irregolari.
Veniva introdotta un linea dura sui rimpatri forzati, la prima e più fondamentale esigenza del Viminale era rimandare al loro paese quanti più “irregolari” possibili. Questo voleva dire accelerare ed aumentare i rimpatri forzati, soprattutto attraverso la firma di accordi bilaterali con i paesi di origine e transito dei migranti, anche se si trattava di dittature come quella sudanese o paesi noti per le sistematiche violazioni dei diritti umani come la Libia. E, infatti, l’effettiva esecuzione dell’accordo firmato con il governo libico era tra le prime priorità del Ministero. Minniti fece un accordo con varie milizie libiche (mai confermato ufficialmente, ma raccontato da diverse inchieste giornalistiche) affinché bloccassero le partenze dei migranti, mantenendoli nei centri di detenzione libici. Per l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) l’accordo con la Libia era “in totale spregio del diritto di asilo consacrato nella Costituzione italiana e del dovere di rispettare i diritti umani”.
Altro punto significativo della ricetta di Minniti fu l’estensione del sistema della detenzione amministrativa. Nell’attesa di stipulare e rendere esecutivi altri accordi come quelli già siglati per ottenere l’accelerazione delle procedure di rimpatrio, la soluzione passò, ancora una volta, attraverso la detenzione amministrativa, che cambiava nome da Cie a Cpr (centri per il rimpatrio), ma non la sostanza. Veniva quadruplicata la capienza dei centri – dai nemmeno 400 posti precedenti a 1600 – tramite l’apertura di nuove strutture, che, nella visione del Ministro, avrebbero dovuto raggiungere l’obiettivo di un Cpr per ogni regione.
Il contrasto all’immigrazione illegale avveniva anche attraverso un Sistema Informativo Automatizzato (Sia) monitorato dal dipartimento della Pubblica sicurezza del ministero, interconnesso con altri sistemi informativi tra i quali il Sistema informativo Schengen.
Veniva introdotto il rito abbreviato nei giudizi sui provvedimenti di espulsione di cittadini stranieri per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato e per motivi di prevenzione del terrorismo.
Il terzo obiettivo di Minniti e Orlando fu quello di accorciare i tempi delle procedure d’asilo, riducendo le garanzie. La situazione, infatti, cambiò in peggio non solo per i cosiddetti “irregolari” ma anche per i richiedenti la protezione internazionale. Per intervenire sul sovraccarico del sistema d’asilo e di accoglienza e ridurre i tempi eccessivamente lunghi delle procedure, il governo propose una soluzione molto semplice: ridurre le garanzie in sede giurisdizionale con l’eliminazione del grado di appello per chi aveva ricevuto un diniego dell’asilo in primo grado, sacrificando così in maniera evidente i diritti delle persone vulnerabili all’esigenza di alleggerire il carico dei Tribunali e dei centri di accoglienza.
Nel provvedimento fu trattato anche il tema dell’identificazione nei “punti di crisi” delle strutture di prima accoglienza dei cittadini stranieri soccorsi durante operazioni di salvataggio in mare o rintracciati come irregolari in caso di attraversamento della frontiera, con contestuale informazione su protezione internazionale, ricollocazione in altri Stati Ue e possibilità di rimpatrio volontario assistito. Era previsto il trattenimento in caso di “rifiuto reiterato” di sottoporsi all’identificazione.
Inoltre, i richiedenti asilo ospitati nei centri di accoglienza o nel circuito della rete Sprar che venivano iscritti all’anagrafe della popolazione residente “potevano svolgere volontariamente, a titolo gratuito, attività di utilità sociale a favore della collettività locale”. Su questo tema il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) dichiarò che sarebbe stato assolutamente inammissibile rendere questi lavori socialmente utili obbligatori ai fini dell’accoglienza o in qualche modo condizionanti il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.
Insomma la nuova legge, oltre le forti criticità, aveva innanzitutto l’obiettivo di limitare per i migranti ancora di più diritti e garanzie che erano già molto fragili.
Il Daspo urbano di Minniti – il Decreto legge sulla sicurezza urbana – 2017
Sull’onda di un’insistente domanda di sicurezza il Governo intervenne con il decreto-legge 20 febbraio 2017 n. 14, dal titolo “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”(convertito in legge il 18 aprile 2017, legge n. 48) dai più conosciuto come d.l. “Minniti” sulla sicurezza urbana, dal nome dell’allora Ministro dell’Interno che lo propose. L’obiettivo del provvedimento era di rinforzare la collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e, in particolare della sicurezza urbana, concetto che pervadeva tutto il decreto.
Infatti, venne previsto il potenziamento dei poteri dei sindaci (nella loro doppia veste di rappresentanti della comunità locale e rappresentanti del Governo), con la chiamata in causa di altri due attori istituzionali della sicurezza sul territorio: il questore e il prefetto.
La legge indicava che i sindaci potessero adottare ordinanze «in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche».
La “sicurezza urbana” veniva perseguita da Minniti attraverso i nuovi “Daspo urbani”: “misure a tutela del decoro di particolari luoghi” che prevedevano l’ordine di allontanamento e il divieto di accesso. Questi provvedimenti potevano essere disposti nei confronti di chi “sia colto in stato di manifesta ubriachezza, compia atti contrari alla pubblica decenza, eserciti il commercio su aree pubbliche senza autorizzazione e fuori dal territorio previsto dalla autorizzazione stessa, eserciti abusivamente l’attività di parcheggiatore o guardiamacchine”.
Altre “armi” a tutela della sicurezza urbana furono le disposizioni attuative prefettizie di provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria “concernenti le occupazioni arbitrarie di immobili”.
Si pervenne ad elevate sanzioni pecuniarie (da euro 1.000 a euro 3.500) per coloro che esercitavano abusivamente “l’attività di parcheggiatore o guardiamacchine”.
Relativamente, invece, a misure strettamente penali, veniva introdotta la possibilità che, “in caso di condanna per il delitto di deturpamento e imbrattamento di cose altrui avvenuto su beni immobili o su mezzi di trasporto o su cose di interesse storico o artistico, la concessione della sospensione condizionale della pena possa essere subordinata all’adempimento dell’obbligo di ripristino e di ripulitura dei luoghi ovvero, qualora ciò non sia possibile, l’obbligo di sostenerne le spese o di rimborsare quelle a tal fine sostenute”.
Per concludere questo capitolo pubblichiamo come esempio una delle ordinanze di un sindaco emesse sotto la spinta del decreto Minniti: «Gli organi di polizia hanno rilevato l’esistenza di un costante assembramento di persone nel centro storico con asserita riduzione della libera fruizione degli spazi pubblici e pregiudizio per il decoro e la sicurezza della città, a causa dei rifiuti abbandonati dagli stessi responsabili e per la loro “molesta mendicità”. Per porre freno a tali sostenute problematiche si introduce: il divieto di bivaccare nel centro abitato e il divieto di consumare bevande alcoliche, al di fuori delle aree pertinenziali dei pubblici esercizi regolarmente autorizzati; di detenere o utilizzare strumenti idonei all’imbrattamento di immobili e arredi urbani; di praticare ogni forma di accattonaggio, sollecitare o richiedere denaro o altra utilità economica, con particolare riguardo ai parcheggi pubblici o nelle adiacenze dell’ospedale cittadino».
I due decreti sicurezza targati Salvini
In un breve lasso di tempo, che andava dal 1° dicembre 2018 al 14 luglio 2019, il governo “giallo-verde” Conte/Salvini predispose, con due incursioni di calibro securitario, la conversione in legge di due decreti sicurezza/migranti, timbrati “Salvini atto primo” e “Salvini bis”. Si trattò di un’azione “populistico/emergenziale” che prese prima il nome di «Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica», a cui seguì un’altra ondata di demagogia securitaria attraverso la stratificazione di norme sui temi dell’immigrazione, dell’ordine e sicurezza pubblici, della violenza in occasione di manifestazioni sportive, con un’ulteriore riforma sul tema della legittima difesa.
In molti descrissero quei provvedimenti come liberticidi, lesivi dei diritti umani e delle garanzie individuali. Il cosiddetto “diritto penale della sicurezza contemporanea” riprendeva modelli autoritari dello Stato totalitario novecentesco. In particolare, il “penale dell’immigrazione” era teso a tutelare, più che la sicurezza territoriale, la sicurezza dell’identità etnica e razziale, basata sulla criminalizzazione, sull’espulsione e sul respingimento del corpo estraneo, adottando gli schemi del “diritto penale del nemico”.
Non esistevano equivoci sul fatto che i nuovi nemici da combattere fossero gli stranieri, la tutela granitica della collettività era messa a repentaglio dagli “incontenibili fenomeni migratori”.
Il primo “decreto sicurezza” entrò in vigore il 5 ottobre 2018 e intervenne soprattutto sul sistema di accoglienza italiano del nostro paese. La principale misura contenuta nel provvedimento fu l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituita da altri permessi più specifici e praticamente impossibili da ottenere. Si prevedeva una specifica procedura per le domande presentate alla frontiera dopo che il cittadino straniero fosse stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli, con la previsione del trattenimento dei richiedenti asilo al fine di accertare l’identità o la cittadinanza del richiedente. Per una serie di tipologie di reati si prevedeva, in caso di condanna in primo grado, la sospensione del procedimento per la concessione della protezione e l’espulsione del cittadino straniero. Inoltre, poche settimane dopo, il ministero dell’Interno emise un bando di gara per i centri di accoglienza che di fatto depotenziava il sistema complessivo stanziando meno fondi per i cosiddetti Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria).
Furono introdotte nuove misure urgenti per assicurare l’effettività delle misure di rimpatrio per i cittadini stranieri; ci fu un prolungamento da 90 a 180 giorni della durata massima del trattenimento dei migranti nei Centri di permanenza per il rimpatrio.
Nelle pieghe del decreto, furono formalizzate delle norme che sanzionavano il blocco della circolazione su strade e autostrade, reintroducendo il reato di “blocco stradale” (era stato depenalizzato nel 1998) e, se il fatto fosse stato commesso da più persone, la pena prevista portava la reclusione da 2 a 12 anni.
In materia di sicurezza, il provvedimento introduceva l’utilizzo dei dispositivi elettronici per particolari fattispecie di reato, come maltrattamenti e stalking, e inseriva prescrizioni in materia di contratti di noleggio di autoveicoli per la “prevenzione dei fatti di terrorismo”, con l’estensione dell’ambito di applicazione del Daspo urbano anche a “indiziati di reati di terrorismo”.
Venne poi annunciata una particolare disposizione che consentiva anche agli agenti di Polizia municipale di utilizzare, in via sperimentale, armi comuni ad impulso elettrico.
Erano altresì inasprite le pene per i casi di occupazioni di immobili nei confronti dei promotori od organizzatori dell’invasione, e si prevedeva la possibilità di utilizzare nei confronti di costoro anche le intercettazioni. La questione venne trattata direttamente da una circolare del capo di gabinetto di Salvini, quel Matteo Piantedosi (già prefetto di Bologna e di Roma) oggi sulla poltrona di ministro dell’Interno. Nel documento si ordinava una vera e propria accelerazione per un piano di sgombero di immobili occupati, fornendo indicazioni precise su come gestire “l’ordine e la sicurezza pubblica” e le fasi delle procedure di sfratto dei cosiddetti abusivi. Secondo il documento del Viminale l’occupazione degli immobili costituiva da tempo una delle “principali problematiche che affliggono i grandi centri urbani del Paese” e altresì si rilevava che “la gestione del tema dell’occupazione arbitraria degli immobili non ha compiuto significativi passi avanti, se non rispetto alle misure di natura preventiva rivolte ad evitare nuove occupazioni”.
Il 15 giugno 2019 entrà in vigore il decreto legge n. 53/2019, noto alle cronache come “decreto sicurezza-bis” in ragione della sua ideale continuità con il decreto legge n. 113/2018 (conv. con modif. in legge n. 132/2018), pure recante misure in materia di immigrazione e sicurezza pubblica, a sua volta noto come “decreto Salvini”.
Il Decreto sicurezza bis attribuiva al Viminale e alle Direzioni distrettuali antimafia competenze che erano prima del ministero dei Trasporti e delle Procure ordinarie, modificando il codice della navigazione e conferendo al Ministero dell’Interno il controllo sul divieto di transito nelle acque territoriali di navi, “qualora sussistano ragioni di sicurezza e di ordine pubblico”.
Prevedeva multe salate per chi “nello svolgimento di operazioni di soccorso in acque internazionali, non rispetta gli obblighi previste dalle Convenzioni internazionali”, cioè tutte le condotte che Salvini attribuiva alle navi umanitarie delle Ong. Le sanzioni riconosciute erano di due tipi: da 3.500 a 5.500 euro per ogni migrante trasportato e, nei casi reiterati, se la nave era battente bandiera italiana la sospensione o la revoca della licenza da 1 a 12 mesi. Per Salvini “tutte le navi che trasportino migranti sono una minaccia per la sicurezza nazionale”.
Il decreto modificava pure il codice di procedura penale per il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Non sarebbero state più le procure ordinarie a indagare, ma diventavano competenti le Direzioni distrettuali antimafia.
Un altro pacchetto sanciva una vera e propria deriva penale applicata a ogni forma di perturbazione dell’ordine pubblico. Venivano inasprite le sanzioni per chi “devasta o danneggia luoghi pubblici nel corso di manifestazioni”. Inasprimenti delle pene anche per chi “con azioni si oppone a pubblici ufficiali con qualsiasi mezzo di resistenza attiva o passiva, dagli scudi alle mazze e ai bastoni”. Il reato per violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale diventava, con il decreto-bis, molto più grave.
Per l’ennesima volta venne perfezionato ed esteso il dispositivo del Daspo. Ad essere interessata fu l’intera gamma delle “necessità di sorveglianza del territorio”. Quello che si intendeva garantire era un sistema di “zone esclusive” in cui venivano allontanati “soggetti indesiderati”. Veniva poi indicato un accrescimento esponenziale delle pene carcerarie per forme consuetudinarie di pratiche del conflitto sociale come il blocco stradale o la “invasione” di spazi pubblici (un’occupazione studentesca di una scuola o un presidio di protesta davanti a un’aula di tribunale).
Infine, il “Salvini bis” prevedeva un aumento di poliziotti, con tre milioni di euro che venivano stanziati per l’impiego di agenti stranieri in operazioni sotto copertura contro le “organizzazioni di trafficanti di uomini”.
Il “tallone di ferro” dell’emergenza
Sulla “Legge Salvini” non si levò nessuna voce istituzionale. L’ulteriore incrudimento autoritario di norme già previste nel codice penale dalla legislazione del ventennio fascista, dall’eccezione bellica e dall’emergenza della repressione politica degli anni Settanta non scandalizzò nessuno dei frequentatori dei palazzi. Il reato di danneggiamento equiparato a quello di devastazione, la manifestazione non preavvisata fatta sconfinare dalla contravvenzione al delitto, l’arresto in flagranza per travisamento, erano questioni che riguardavano frequentatori e frequentatrici di strade e piazze.
C’è una tradizione nel nostro paese che è partita con il codice Rocco del 1930, quel testo, voluto dal regime fascista e in vigore nei decenni successivi, prevedeva la categoria dei delitti politici contro la personalità dello Stato, tra questi erano compresi i reati di associazione sovversiva, propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale, insurrezione armata contro i poteri dello Stato, guerra civile, cospirazione politica mediante associazione, banda armata.
A partire dagli anni Cinquanta l’ordine pubblico è stato lo scenario in cui lo Stato ha fronteggiato i conflitti politici e sindacali, operai e studenteschi, poi i conflitti sociali prodotti dalla crisi economica. Gli esponenti dei vari governi di centro-destra e centro-sinistra, tecnici o di “unità nazionale”, “giallo-verdi” o di “destra-destra” hanno sempre optato per scelte emergenziali che hanno supportato le logiche di criminalizzazione.
Una riflessione che parte dall’ultimo disegno di legge sulla sicurezza (il Meloni-Salvini n.1660) non può soffermarsi solo sull’attualità come se i “decreti sicurezza” o le varie “leggi di riforma” fossero il frutto di un singolo governo o di un particolare momento storico. La compressione in norme sempre più limitative, il ricorso allo stato di eccezione, sono state caratteristiche ricorrenti della storia italiana. Come in altri periodi, l’emergenza di oggi, basata su false percezioni della realtà, è figlia degli “allarmi” sbraitati ad intervalli ricorrenti da vari governi e rappresenta il limite entro il quale la libertà delle persone può essere sacrificata alle emergenze di turno.
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