Non ha senso fare gli indovini su cosa succederà in Siria, in una situazione che sta rimescolando i profondi disequilibri già esistenti. Ma è chiaro il pericolo che corre l’esperienza civile e democratica di Rojava e del popolo kurdo, riferimenti fondamentali per un nuovo cammino della storia, sotto attacco da parte delle milizie filoturche e della stessa Turchia. Spetta anche alla comunità internazionale, oggi in preoccupante silenzio, preservarla e salvaguardarla
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E se fosse proprio in questo nome, che si trova assolutamente a stento nelle cronache che in questi giorni sono impegnate a fornire le più diverse letture degli scenari del Medio Oriente, che occorre cercare una delle chiavi di lettura più di fondo di quanto sta succedendo?
Rojava è il nome di una “rivoluzione delle donne” che è stata protagonista prima della resistenza, e poi della sconfitta definitiva dell’Isis in anni che sembrano lontanissimi, dal 2014-2015. La storia di quel tempo e di quella vittoria riconosciuta come strettamente kurda, al di là del parziale supporto aereo degli Usa, e come allo stesso tempo prodotto e nuovo inizio di un processo di democrazia radicale, ha una letteratura internazionale a supporto e, in Italia, è stata oggetto di pubblicazioni anche recentissime, di grande successo, di Zero Calcare. Con Afrin e Kobane, le città-simbolo, Rojava costituisce di fatto il punto di riferimento, culturale oltre che politico, di infiniti gruppi, con fortissimo protagonismo di donne, che hanno visto nella società creata nel Nord Est della Siria un indicatore, incredibile per la sua concretezza, di un cammino nuovo della storia. La perfetta condivisione di responsabilità di uomini e donne a tutti i livelli, compreso quello militare (rimasto obbligatorio anche dopo la sconfitta dell’Isis, per gli attacchi mai interrotti e ora ad altissima intensità della Turchia) è senza dubbio, non solo per quei paesi, l’aspetto più evidente. Combinata però con l’originalità strutturale, provocatoria, della sperimentazione di un modello di democrazia sostanziale che viene applicato in tutti i settori, dall’economia, alla sanità, alla scuola, alla giustizia, pur in condizioni permanenti di precarietà: qualcosa che non nasce dal nulla, ma ha radici nel pensiero di Öcalan, leader indiscusso delle lotte per il diritto alla autodeterminazione del popolo kurdo, prigioniero da decenni, in isolamento assoluto e incomunicato nella prigione turca dell’isola di Imrali.
Nelle mappe che in questi giorni si sono moltiplicate per dare nomi e luoghi di vita alla frammentazione delle tante minoranze, etnie, popoli, realtà della Siria (Alevis, Armeni, Yazidi, Drusi, Assiri…), la Amministrazione Autonoma del Nord-est, riconosciuta a livello internazionale con questo nome, rappresenta di fatto uno dei fili conduttori più di fondo per comprendere che cosa è in gioco. Il silenzio, che è di fatto una cancellazione di questa centralità, è il segnale più preoccupante della direzione che ci si può attendere o, meglio, temere. Alla dittatura che si è ‘dileguata’, più che essere sconfitta, con l’appoggio-collaborazione della Turchia (e l’intervento massiccio di Israele, distruttivo di tutto l’apparato militare) non è previsto, anzi è decisamente proibito, che possa succedere un tempo che abbia all’ordine del giorno il riconoscimento di un destino di civiltà per i popoli che hanno un loro progetto. Anche e soprattutto di quello kurdo, che è la dimostrazione indiscutibile che ‘si può fare’: anche e soprattutto in quell’area, in cui la versione ufficiale della storia sembra dipenda prevalentemente da ideologie travestite da ‘regimi’ religiosi, più o meno funzionali a strategie di poteri globali.
Non ha senso giocare a fare gli indovini su una situazione talmente imprevista per la forma che ha preso, e che ha rimesso in discussione tutti i disequilibri già esistenti. L’obiettivo di questo pro-memoria è molto limitato, e accorato: chiedere, a tutti, in tutti i modi, di non cancellare, nascondere, distruggere nel silenzio connivente della comunità internazionale una rara esperienza di civiltà come Rojava. È lo stesso destino che si cerca di ‘assegnare’ al popolo palestinese: e il popolo di Rojava è più piccolo, poco noto, parte di vecchissime e rinnovate divisioni-trattati coloniali che non si può nemmeno pensare di toccare.
In gioco è qualcosa di più profondo e grave: consolidare e rendere normale la decisione di fare della storia una partita a scacchi dei poteri statali, economici, militari di turno. Non importa con quali forme di dittature: le mosse che si devono fare prescindono dai loro costi umani, che sono obsoleti come categoria obbligatoria di riferimento. Si possono-debbono includere nelle cronache come descrittori, da sommare giorno per giorno, con la sola attenzione di mimare attenzione stratificando le vittime per donne e bambini: effetti indesiderati e inevitabili. Nulla di nuovo. Neppure per le centinaia di migliaia (per la Siria, da tempo, milioni) di migranti più o meno affidati a ‘flussi’ che fanno sempre più parte di considerazioni di mercato. Su tutto, trasversalmente, Erdogan insegna ed è rispettato.
Nonostante tutto: ricordiamoci di Rojava. Come tutti i popoli che sperimentano vita, sono loro che diranno, sopravvivendo o meno, da che parte siamo andati anche noi, che non possiamo essere solo spettatori rassegnati.
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