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Il caso Mangione, l’ippopotamo Moo Deng e la lotta di classe

Da quando è stato identificato come l’assassino di Brian Thompson, CEO di UnitedHealtcare, il 26enne Luigi Mangione è diventato un idolo per milioni di persone, con fancam sui social, meme con la sua faccia circondata da cuori e recensioni negative (“un covo di spie”) per il McDonald’s dov’è stato arrestato. Non è solo un trend di internet ma forse anche un segnale della direzione in cui sta andando la nostra percezione della politica.

di Alessandro Colombini da Tempolinea

Nel primo pomeriggio di domenica 13 marzo 1881 Arkadij Tyrkov, un nobile pietroburghese di 22 anni, se ne stava seduto in un caffè del centro. Ad un certo punto entra la 28enne Sofia Perovskaja, lo nota, si avvicina e – senza neanche salutarlo – dice che “se non è morto, è gravemente ferito”. Si riferiva allo zar Alessandro II, che aveva appena subito un attentato mortale mentre sfilava con la sua carrozza per le vie di San Pietroburgo. Perovskaja e Tyrkov si conoscevano perché facevano entrambi parte della Narodnaja volja (Volontà del popolo), un’organizzazione terroristica rivoluzionaria attiva nella Russia di fine Ottocento e responsabile dell’attentato. Entrambi erano di elevatissima estrazione sociale, oltre che due dei tantissimi giovani russi che in quel periodo si dedicarono ad attività terroristiche contro la monarchia, le istituzioni imperiali ed i loro rappresentanti, in nome del socialismo o dell’anarchia, della causa contadina come di quella operaia. Come ha sottolineato lo storico Franco Venturi nella sua opera sul populismo russo, se prendiamo il campione delle 425 persone arrestate tra il 1873 ed il 1877 dalla polizia zarista, e poi trattenute con il marchio di “particolarmente delinquenti”, troviamo 147 figli di nobili, 90 figli di preti, 69 figli di militari, 54 “borghesi” (verosimilmente artigiani) e 65 tra operai e contadini. In pubblico, le autorità zariste raccontavano queste persone come folli, banditi, polacchi o ebrei, in un disperato tentativo di assoluzione della società russa. Erano ciechi, non capivano o non volevano capire che erano proprio i figli dell’élite, i prodotti dei loro privilegi, che si stavano adoperando per sventrare lo stato esistente delle cose, iniziando proprio dalla carrozza di Alessandro II.

È difficile non pensare a Perovskaja o Tyrkov da quando si è iniziato a sapere qualcosa di più su Luigi Mangione, che il 4 dicembre ha sparato tre colpi di pistola contro il CEO della compagnia di assicurazioni sanitarie UnitedHealthcare, Brian Thompson. Dopo un’intera settimana di ricerche durante la quale conoscevamo l’attentatore soltanto attraverso un fotogramma di una videocamera di sorveglianza in un ostello di New York, la sua cattura ha finalmente rivelato chi si nascondeva dietro a questo novello Robin Hood che uccide i ricchi per far memare i poveri: grazie al suo account su Goodreads sappiamo che legge Ayn Rand, il Mein Kampf, la biografia di Obama e uno studio del filosofo Peter Godfrey-Smith sulla mente dei cefalopodi; sappiamo che è italo-americano, che suo cugino è un deputato repubblicano del Maryland e che la sua famiglia è molto, molto ricca; che ha frequentato una costosissima scuola privata, ha un master in informatica alla University of Pennsylvania (circuito della Ivy League) e i suoi hanno una villa alle Hawaii. Mangione non è il buon vecchio Ted Kaczynski, figlio di lavoratori polacchi emigrati a Chicago, e per un secondo abbiamo avuto paura che fosse impresentabile come Robin Hood – dimenticandoci che in diverse versioni della leggenda il giustiziere di Nottingham è un nobile decaduto.

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A questo punto potremmo ritrovarci costretti a parlare di classe, e in effetti è una settimana che lo stiamo facendo. Magari senza accorgercene, magari mascherandolo da dibattito sulla cuteness di Mangione, ma quella parte di Occidente “giovane” e cronicamente online si è ritrovata a mettere da parte quel milione di differenze che fino a ieri sembravano dividere le persone bianche e quelle nere, di destra e di sinistra, che credono nella binarietà di genere o no, che tifano Inter o Milan. Ma non solo: l’odio per chi fa profitto sulle malattie delle persone è un sentimento inter-ideologico, interazziale, intergenere, intergenerazionale e intertutto. I meme più divertenti sono proprio quelli di chi si stupisce perché la 65enne che fa parte del club dell’uncinetto di sua mamma che per qualche motivo ha tra gli amici Facebook ha appena pubblicato un messaggio di gioia per la morte di un “porco capitalista”, o il marito che non postava niente sui social da anni e che ha appena condiviso una storia Instagram con la foto di Thompson e la scritta “coglione morto”.

Le guerre culturali sembrano finite. Lo slittamento del dibattito pubblico su tematiche socio-culturali è stato in grado di monopolizzare qualsiasi livello di politica nella contemporaneità. Nel suo saggio Guerre culturali e neoliberismo, il professore di critica letteraria Mimmo Cangiano parla di queste culture wars come di “uno dei principali campi di discrimine fra gli opposti schieramenti, e dunque uno dei centri attorno ai quali si articola l’intero dibattito politico, oltre che la personale coscienza di stare da una parte o dall’altra della barricata”. Grazie alla pistola stampata in 3D di Mangione, questa bolla nella quale abbiamo vissuto recentemente è scoppiata in un istante. Abbiamo riscoperto un’altra barricata: quella tra chi pensa che – riprendendo il manifesto del giovane – i CEO delle compagnie di assicurazioni sanitarie siano dei “parassiti” che “se la sono meritata” e chi invece pensa il contrario, magari perché Thompson era pur sempre un essere umano, un padre e un marito, o semplicemente perché non vede niente di sbagliato nel funzionamento del sistema.

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Negli ultimi anni niente è stato in grado di stuzzicare il vecchio gigante impolverato della coscienza di classe come l’omicidio di Brian Thompson. Avevamo visto qualcosa di interessante durante le proteste di Black Lives Matter, ma lì c’era da fare i conti con un’intersezionalità che rendeva il messaggio meno pervasivo, virale e globale di quello di Mangione: i ricchi sono diventati sempre più ricchi a discapito dei poveri, che sono diventati sempre più poveri. Ora, è il momento di fargliela pagare. È l’aspetto meno impegnativo e più godibile della lotta di classe, quello della vendetta. Come scriveva anche Marx: “noi non abbiamo riguardi; non ne attendiamo da voi. Quando verrà il nostro turno, non abbelliremo il terrore” (uno slogan peraltro già comparso sotto forma di graffito a Minneapolis durante le proteste per l’omicidio di George Flyod). Il pensiero di Mangione non si sviluppa dopo anni di theory, mattoni di 700 pagine sul marxismo nella società contemporanea o corsi per decostruire il maschio alfa presente in te: certe volte basta un mal di schiena, quello che aveva tormentato il ragazzo negli ultimi anni, per farti prendere la decisione di diventare agente attivo del terrore.

Questo evento è stato anche un’utilissima cartina al tornasole in grado di evidenziare le priorità ideologiche di chiunque si identifichi in una qualche parte politica. A sinistra è emerso chiaramente chi fonda il proprio pensiero esclusivamente sul piano simbolico, a discapito dell’elemento di classe – ad esempio mostrando una certa diffidenza nei confronti di Mangione perché è un uomo bianco e probabilmente cis etero, perché legge roba abbastanza orribile, perché è ricco di famiglia o perché non boicotta Starbucks. A destra, invece, stanno venendo fuori i conservatori culturali con una coscienza di classe e chi, invece, non è altro che un utile idiota del potere finanziario in controllo di ogni minimo aspetto della società capitalistica. Figure di primo piano della destra statunitense come Ben Shapiro e Matt Walsh hanno affrontato la questione dell’omicidio nei loro podcast, demonizzando la sinistra per aver gioito della morte di un essere umano. Nella sezione commenti centinaia di utenti, molti dei quali si identificano come conservatori e hanno votato per Trump, hanno scritto che “i CEO non sono persone come noi” e che Mangione è “un eroe contemporaneo”. “Wow, Ben”, ha scritto un utente sotto il video di Shapiro, “se odiare questa gente è di sinistra allora mi sa che sono di sinistra”.

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L’iconico cappello verde di Luigi – il fratello di Mario nell’universo Nintendo – sta andando a ruba su Amazon; a New York nei giorni scorsi una folla si è riunita per una competizione tra sosia del killer; un post su Facebook di UnitedHealthcare in memoria di Thompson è stato accolto con più di 90mila laugh reacts; i contenuti sull’omicidio della CNN sono pieni di commenti tipo “mi dispiace, l’empatia non è coperta dalla sua assicurazione”. Lo studioso di cultura internet Joshua Citarella sul suo Substack parla di “un cambiamento sociale e politico decisivo”, con “le nostre precedenti divisioni culturali riallineate lungo nuovi e inaspettati poli”. Siamo finalmente tutti uniti, con un viscerale odio verso il profitto che prevarica la salute ad accomunarci. Per citare il famoso scambio di battute tra Gimli e Legolas ne Il signore degli anelli: non avremmo mai pensato di morire combattendo fianco a fianco con dei normie.

Come nota Citarella, però, l’odio non è il solo collante. Esiste infatti anche un “disprezzo trasversale per la ‘supremazia della legge’, che segna uno sviluppo significativo nel declino della legittimità del regime americano”. Responsabile di ciò, nel contesto statunitense, sono tanto democratici quanto i repubblicani. Basti pensare a come Trump abbia trovato proprio nella sua condanna per il caso Stormy Daniels la benzina necessaria per incendiare la sua campagna elettorale, o a Joe Biden che, poche settimane prima di andarsene dalla Casa Bianca e verosimilmente mettere fine alla sua carriera politica, ha deciso di graziare il figlio Hunter senza neanche preoccuparsi di inventare una scusa decente. È chiaro a tutti che la legge sia solo uno strumento politico, che “non si pone al di fuori delle affiliazioni politiche come un quadro imparziale e oggettivo”, ma che si configura come l’espressione di un potere ben saldo “nelle mani di chi la esercita in quel momento”. E quando cade la legittimità della legge, a cadere è il mondo intero. A quel punto vale tutto, oggi sparare ad un CEO in mezzo alla strada e ieri far esplodere la carrozza di Alessandro II.

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E rieccoci finalmente tornati all’attentato del 13 marzo 1881 che uccise lo zar. Ovviamente Alessandro II non è Brian Thompson, i nobili russi di fine Ottocento non sono le famiglie italo-americane del Maryland, Mangione è diverso da un’organizzazione come Narodnaja volja e i lumpen-PMC – ovvero i membri declassati del ceto professionale-manageriale – rapiti magicamente dalle gesta di Mangione sono diversi dagli operai delle fabbriche ai quali si rivolgevano i populisti russi. Se i due eventi restano intimamente connessi tra di loro non è per i personaggi coinvolti, né per i loro moventi ma in ragione del quadro storico in cui si collocano: in questo senso, l’esecuzione di Thompson è l’ennesimo segno di un mondo che si muove sempre più velocemente verso il proprio disintegramento, così come l’attentato allo zar era un segnale prematuro e acerbo di quello che poi sarebbe successo nel 1917 con i bolscevichi. Il liberalismo sta scomparendo, l’Illuminismo è una barzelletta, le guerre culturali ci sembrano improvvisamente irrilevanti – tutto ci parla di classe, guerra e violenza.

E ce ne parla in una maniera tipicamente contemporanea, quella della memificazione e della conseguente desacralizzazione. Il gesto di Mangione, sia che lo si interpreti come un genuino episodio di lotta di classe o come un guscio vuoto evanescente, ha occupato lo spazio pubblico nella stessa identica maniera del tenerissimo ippopotamo pigmeo e celebrità di internet Moo Deng. Siamo tutte e tutti delle bimbe di Luigi: facciamo collage, creiamo clips, scriviamo fanfiction e inondiamo internet di meme con la sua faccia. Grazie all’amoralità del suo nemico – un personaggio verso il quale è difficile provare alcuna empatia –, ai suoi bei lineamenti, al suo non essere nero o arabo ma nemmeno nazista, Mangione risulta una figura in generale spendibile per le regole dei social network e si trasforma così in un terrorista con il quale è finalmente possibile identificarsi. Non è vero che tutti vorremmo essere lui, altrimenti andremmo a cercare i “nemici del popolo” casa per casa. Eppure non possiamo fare a meno di pensare genuinamente che quello che ha fatto sia in qualche modo giusto, siamo affascinati dalla sua personale rivoluzione, desideriamo ma non siamo in grado di farla anche noi, e ci limitiamo a celebrarla con i meme. La guerra di classe è finalmente tornata, anche se non sembra una cosa seria.

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Quello che rimane da capire, ora, è il domani. Il domani di Mangione non sembra luminoso, con il carcere a vita che rappresenta una prospettiva verosimile. Il futuro della UnitedHealthcare non è a rischio in alcuna maniera, e probabilmente il nuovo CEO prenderà più soldi di Thompson considerato il rischio di essere ammazzato che quel lavoro ora comporta. Il futuro della classe lavoratrice americana? Dovremmo chiederlo ai diretti interessati, ma nessuno sembra interessato a farlo se consideriamo il cono d’ombra in cui è bloccata l’unica persona working class di questa storia – vale a dire il cassiere di McDonald’s che ha fatto la spia con la polizia portando all’arresto di Mangione. Il futuro di tutte le altre persone che non lavorano da McDonald’s ma non sono neanche CEO, e hanno gioito appena saputo dell’esecuzione? Bella domanda. In assenza di una sfera di cristallo, possiamo solo affidarci alla suggestione storica che ci ha accompagnato fino ad ora: quel 13 marzo 1881 in Russia non scoppiò nessuna rivoluzione, l’unica conseguenza dell’uccisione dello zar fu la nomina di un altro zar e la condanna a morte della maggior parte dei membri dell’organizzazione. Ci vollero 36 anni per vedere la rivoluzione da quelle parti, e in tanti ora hanno la faccia tosta di dire che sarebbe stato meglio di no. Che Thompson e Mangione, alla fine, sono uguali. Ma che siamo, in un film di Alberto Sordi?

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