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Gli atenei laboratorio del modello autoritario

L’aggressione all’università è coerente con la verticalizzazione del sistema istituzionale, la repressione del dissenso e la demolizione dei diritti sociali. Le mobilitazioni studentesche esprimono la consapevolezza del carattere collettivo e politico della cancellazione delle risorse e delle riforme in arrivo

di Alessandra Algostino da il manifesto

L’università è, come la scuola, «organo costituzionale» (Calamandrei): partecipa al disegno della democrazia; attaccare l’università contribuisce alla neutralizzazione della democrazia.

Attraverso l’università passa la promozione della cultura e della ricerca, garantita dalla Costituzione (articolo 9), come valore in sé e come elemento fondamentale nel percorso verso il «pieno sviluppo» e l’«effettiva partecipazione», di ciascuno e di tutti (articolo tre, comma 2). L’università, cioè, è strumento di emancipazione, personale e sociale.

L’università è luogo di costruzione del sapere critico e del pluralismo che assicurano vitalità alla democrazia; è «coscienza critica del potere» (Edward Said), in quanto esercita contro-potere e concorre alla limitazione del potere connaturata alla democrazia costituzionale.

La libertà della ricerca e dell’insegnamento e l’autonomia delle università (articolo 33 Costituzione) presidiano lo spazio libero del pensiero e sono pre-condizione di esistenza del carattere conflittuale della democrazia.

L‘aggressione all’università è coerente con la verticalizzazione del potere, la repressione del dissenso, la demolizione dei diritti sociali. È un processo – mi limito a citare le “riforme” Ruberti (legge n. 341 del 1990) e Gelmini (n. 240 del 2010) – segnato da aziendalizzazione, nel doppio senso di una università che si struttura come un’azienda (anche nel linguaggio: i crediti) e che ha come interlocutore privilegiato le aziende (con ripercussioni sulla declinazione degli insegnamenti e dei corsi di studio), e da una burocratizzazione e valutazione che mortificano, asfissiano e appiattiscono sull’esistente la ricerca e il confronto. Lo studio è confinato da steccati disciplinari che chiudono l’orizzonte aperto del pensiero; è un “prodotto” da sfornare in quantità prestabilite e in tempi rapidi, in un contesto dove gerarchie baronali e rapporti vassallatici sono tutt’altro che scomparsi.

I provvedimenti del governo Meloni accelerano la sterilizzazione del pensiero divergente che deve caratterizzare, in tutti campi, l’università e affinano il suo asservimento al servizio del potere, economico e politico.

Il pesante taglio dei finanziamenti (500 milioni) in una università già sotto finanziata (in rapporto al Pil l’Italia spende per studente lo 0,96% contro l’1,55% della media dei paesi Ocse), distrugge il futuro di lavoratori e lavoratrici precari (e dell’università, data l’insostituibilità della loro presenza per la ricerca come per la didattica), impedisce la ricerca di base e libera, induce aumenti delle tasse che violano il diritto allo studio di studentesse e studenti, svuota il senso dell’autonomia come indipendenza, priva tutti del ruolo che l’università esercita nella società.

Effetto collaterale, corroborato da misure in loro favore: la crescita delle università private telematiche; dopo la sanità, anche l’istruzione è terreno di conquista per il profitto privato.

La riforma Bernini in discussione (Atto senato 1240) moltiplica e frammenta le forme di precariato (assistenza alla ricerca junior e senior, contratto post-doc, professore aggiunto), prevedendo per i pochi sopravvissuti ai tagli un lungo percorso senza le tutele che rendono il lavoro, e la vita, degna.

L’università diviene sempre più elitaria, nell’accesso allo studio come istruzione (per tutti, la mancanza di alloggi per studenti) e nella possibilità di lavorare in università.

La guerra, quindi, come orizzonte politico ed economico, oltre all’appropriazione, in stile dual use, della ricerca, favorisce la stretta autoritaria e conservatrice; l’università che non si allinea, che diserta, finisce tra i nemici, da neutralizzare.

Alla neutralizzazione, oltre i profili citati (aziendalizazzione, burocratizzazione, precariato, definanziamento), concorrono espliciti interventi repressivi, come l’ingresso della polizia nelle università, la denigrazione degli studenti in mobilitazione (le acampade per la Palestina) e l’attacco a specifici insegnamenti (il corso sulle teorie queer).

Ancora. Il disegno di legge prevede che i servizi segreti (Dis, Aise e Aisi) potranno stipulare, in nome della sicurezza nazionale, convenzioni con le università, anche in deroga alle norme in materia di riservatezza. Cosa resta dell’università come spazio di libertà?
Le assemblee precarie nate in molte università e le mobilitazioni studentesche esprimono la consapevolezza del carattere collettivo e politico del taglio dei fondi e delle riforme in discussione e rappresentano con la loro esistenza un atto di insubordinazione rispetto all’individualismo dell’imprenditore di se stesso e alla competitività dell’accademia neoliberale.

Agitiamoci tutti, a partire da chi, come scrive, ha una posizione garantita. La libertà dell’università è libertà di tutti e per tutti; è ancora una volta questione di democrazia e di possibilità di cambiare l’esistente.

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