Trattamenti inumani e degradanti, e guardie rimaste pressoché impunite. La Corte europea condanna l’Italia per le violenze di massa dei secondini nel carcere di Sassari avvenute nel 2000. Ecco cosa successe
Non fu tortura ma comunque fu un trattamento inumano e degradante quello subito da Valentino Saba nel carcere di Sassari. E gli agenti colpevoli degli atti di violenza non hanno ricevuto pene proporzionali al reato commesso. Ci sono voluti 14 anni perché la Corte europea dei diritti umani riconoscesse le ragioni di quel detenuto, uno dei tanti oggetto dell’immane violenza di massa perpetrata dai secondini.Corte europea
La Corte ha stabilito che lo Stato gli deve versare 15mila euro per danni morali. Lui ne aveva chiesti 100mila. Nel condannare l’Italia la Corte di Strasburgo mette in causa i tempi lunghi del processo, il fatto che molti colpevoli sono stati prosciolti per prescrizione dei reati commessi, e che chi è stato condannato ha ricevuto pene troppo leggere in rapporto ai fatti per cui era stato incriminato. Ad esempio i giudici indicano come pene troppo leggere la multa di 100 euro inflitta a uno degli agenti che non ha denunciato le violenze commesse dai suoi colleghi, o il fatto di aver sospeso la condanna al carcere per altri agenti.
Nella sentenza i giudici sottolineano inoltre che le autorità italiane non hanno indicato se le persone sotto processo sono state sospese durante il procedimento come stabilisce la giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Era il 3 maggio del 2000 quando furono arrestati il provveditore regionale degli istituti di pena sardi, la direttrice e il comandante degli agenti del carcere di Sassari e 18 tra ispettori e sovrintendenti; agli arresti domiciliari 59 guardie. Ottanta ordini di custodia cautelare per violenza privata, lesioni, abuso d’ufficio e violazione dell’ordinamento carcerario con tutte le aggravanti per aver agito con crudeltà su persone inermi. Con una operazione clamorosa la magistratura sassarese terminava le indagini sul pestaggio e lo sfollamento di decine di detenuti avvenuto un mese prima. Cinque commissari del comitato parlamentare per i problemi nei penitenziari – fra loro Alberto Simeone, padre della legge sulle misure alternative alla detenzione – visitarono il carcere il 17 marzo scoprendo condizioni terrificanti, condizioni «turche». I detenuti forniscono loro versioni differenti da quelle ufficiali.
La notte fra il 27 e il 28 marzo scoppia la rivolta: urla e battitura. Da due giorni è in corso uno sciopero nazionale dei direttori delle carceri; lo spaccio è chiuso e tutto ciò che comporta l’autorizzazione della direzione (spese extra, sigarette, ricevere pacchi, fare telefonate) è sospeso.
Due giorni dopo viene sostituito il comandante delle guardie, ritenuto troppo ‘morbido’.
Il 6 aprile giunge agli organi di stampa e alla procura della Repubblica un foglietto. E’ un gruppo di donne a scrivere di propri congiunti trasferiti improvvisamente da Sassari alle carceri di Macomer e Oristano. Pesti, sanguinanti, qualcuno coperto a mala pena da buste di plastica lorde di escrementi.
Saranno le stesse donne che qualche giorno dopo animeranno una via crucis fin sotto le mura del carcere, circondate da una città distratta. Scrivono a Oliviero Diliberto, creatore dei famigerati Gom, titolare della Giustizia con D’Alema (tre settimane dopo gli succederà Piero Fassino nel nuovo governo Amato): «Signor Ministro, fermi, in nome di Dio, la violenza nel carcere di San Sebastiano. Siamo stati informati che oltre cinquanta detenuti sono stati massacrati da poliziotti; almeno venti di loro versano in gravissime condizioni. La preghiamo di prendere subito tutte le misure necessarie per salvare la vita ai detenuti».
La conferma dei fatti arriva sin dal primo interrogatorio svoltosi nel carcere di Oristano: le raccapriccianti tumefazioni sul volto del recluso chiamato a incontrare gli inquirenti non danno adito a dubbi. Nel pomeriggio del 3 aprile decine di agenti in tuta mimetica, anfibi e manganello, provenienti da diverse carceri sarde, si distribuiscono lungo i bracci del carcere, aprono le celle ed entrano come furie. Urlano «dove sono i boss di Sassari? siete voi i boss?», rovesciano armadietti e brande, spargono le provviste per terra e le inondano d’acqua, fanno a pezzi le foto appese ai muri, gettano indumenti dalle finestre giù nel cortile. Ammanettano i detenuti, li trascinano fuori tirandoli per i capelli o per i polsi e li conducono alla rotonda centrale malmenandoli, colpendoli con calci, schiaffi e manganellate.
Il neo comandante (tutte le testimonianze concorderanno nell’indicarlo come «l’uomo dallo spolverino bianco») li accoglie infilando guanti di lattice e ordinando che stiano faccia al muro, urlando «Sono il vostro dio. Il lager è un paradiso al confronto di questo posto». Ad alcuni fanno tenere una mela appoggiata tra la fronte e il muro, e giocano a fargliela cadere: ogni volta che la mela casca sono botte. Vengono fatti spogliare e per piccoli gruppi fatti passare per il corridoio che unisce la rotonda alla sala colloqui, tra due file di agenti che li percuotono al passaggio. Nel parlatorio alcuni vengono inondati con acqua gelata ed esposti all’aria che penetra dalla finestra aperta, a un altro che sanguina abbondantemente dal naso e dalla bocca viene immerso il viso nell’acqua di un secchio, tenendogli un piede sulla nuca fin quasi a soffocarlo.
Un altro subisce la ‘risonanza magnetica’: gli viene infilato in testa un altro secchio che viene poi colpito selvaggiamente con manganelli e con la gamba di un tavolo della sala colloqui fatto a pezzi.
A settembre di dieci anni dopo il proscioglimento di sette agenti per i quali «il tempo trascorso dai fatti ha inevitabilmente fatto maturare i termini massimi di prescrizione». Ma la sentenza precisa che «la legalità cedette il passo alle manifestazioni di istinti, di rancori repressi, di spirito di rivalsa, di volontà di mostrare la propria durezza al nuovo comandante».
Precedentemente, nel giugno 2007, erano stati condannati definitivamente con rito abbreviato il provveditore regionale (sedici mesi), la direttrice (dieci mesi e venti giorni) e il comandante delle guardie (venti mesi). Tutti gli altri imputati sono stati assolti o prosciolti. I giudici scrissero di essere consapevoli del fatto che assoluzioni avrebbero potuto «mandare esenti da pena molti responsabili», ma avvertirono che «non è ammissibile, a nessun patto, il rischio di far pagare a diversi imputati azioni da essi non realizzate e non condivise».
A Sassari, fuori dall’abitato, è in corso la costruzione del nuovo carcere. Cinquantotto milioni di euro, appaltante l’Anemone Costruzioni del famigerato Anemone coinvolto nello scandalo della Protezione Civile e coinvolto nella nuova caserma della Guardia di Finanza. Dopo gli incidenti del 27 marzo uno dei secondini dichiarò: «Una normale protesta che sarebbe passata inosservata se il carcere fosse stato da un’altra parte e non al centro della città»
di Checchino Antonini da popoff.globalist.it