Caccia grossa al «No Tav», ora tutto è «zona rossa»
- ottobre 15, 2013
- in emergenza, lotte sociali, misure repressive, no tav
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Chi viola il divieto di entrare in siti protetti da interesse militare dello Stato è punito con detenzione da tre mesi a un anno. Era così da tempo, a norma di art. 682 del Codice penale. Ma solo da pochi giorni il divieto, e la pena, si estendono a qualsiasi sito o edificio sia in quel momento considerato off limits «per ragioni di sicurezza pubblica». Non è un nuovo pacchetto ordine pubblico. È la legge sul femminicidio, quella salutata come conquista di libertà e di civiltà.
È la stessa legge che moltiplica l’impegno dell’esercito a protezione degli impianti Tav della val di Susa, equiparati chissà come a una donna in pericolo. O che, con una serie di salti mortali fatta apposta per rendere oscuro il testo, prima equipara di fatto alla rapina l’ingresso in luoghi come i cantieri Tav, poi dispone una maxi aggravante se il fattaccio avviene in presenza di minori, inclusi quelli che manifestano e magari anche il reprobo in questione.
La legge sul femminicidio è discutibile anche nella sua prima parte, quella propriamente detta. La seconda parte, fortemente voluta dal ministro Alfano, nuovo idolo del centrosinistra, campione della bella destra che il Pd ha sempre sognato, sarebbe più onesto definirla legge «anti No Tav». A Montecitorio, tra i piddini che hanno votato la legge senza fingere anche con se stessi di non sapere di cosa si trattava, c’è chi racconta che lo stesso Alfano volesse la legge in tempi così contingentati per averla pronta il 19 ottobre.
Come gli chiedevano, e anzi gli intimava, il Siap, Sindacato di polizia dei reparti mobili, in un comunicato diramato pochi giorni prima dell’approvazione del decreto. Le giornate dal 17 al 19 ottobre a Roma venivano definite come «il nuovo G8». Il testo lamentava quindi il fatto che «con le attuali leggi chi sarà incriminato saranno solo i poliziotti che sconteranno tutte le pene, e non i «terroristi delle piazze».
Profetizzava poi lo «sfruttamento», da parte dei manifestanti, della «stanchezza psico-fisica dei “celerini”, aggredendoli solo dopo le “solite dieci/dodici ore” di servizio, così da potere avere quelle reazioni di difesa, appesantite da un eccessivo stress, che possano dar loro tanta visibilità» E se a qualcuno la frasetta pare minacciosa, si vede che soffre di acuta paranoia. Il comunicato concludeva invocando nuove leggi. Arrivate a stretto giro.
Il femminicidio, in questo caso, è stato adoperato come alibi e strumento di facile ricatto. Come ci si poteva sottrarre a una legge che contrasta uno dei reati più odiosi e odiati? In effetti, anche chi voleva bocciare questo nuovo «pacchetto sicurezza » travestito, lo ha comprensibilmente fatto, al Senato, sottraendosi al voto invece che votando contro, scelta adottata da Sel, M5S e Lega. Soprattutto, il ricatto ha funzionato a livello mediatico, con tutti i fari puntati sulla prima parte del decreto e il resto coperto da una comoda oscurità.
La stragrande maggioranza, delle forze politiche, peraltro, ha votato senza esitare. Così nella stessa settimana, si sono moltiplicati segnali che dovrebbero inquietare i democratici ben più della sorte semicarceraria di Silvio Berlusconi. La levata di scudi di Grillo, uno che capta gli umori popolari al volo, contro l’abolizione del reato di clandestinità. Il successivo blog del medesimo in cui, titillando di nuovo l’ideologia del bar, spiegava che in questo Paese tutti si preoccupano dei diritti delle minoranze ma alla maggioranza non ci pensa nessuno. La sortita di Matteo Renzi, un altro che sa compiacere la pancia di un elettorato gonfio di risentimento e rancore, contro l’amnistia e indulto, messi addirittura in contrasto secco con «la legalità».
Forse è vero che stiamo uscendo dal berlusconismo. Ma non è detto che l’orizzonte che si sta profilando sia migliore. Anzi.
Andrea Colombo da il manifesto –
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