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Omicidio Magherini, “l’asfissia come concausa del decesso”

La perizia dei medici legali della Procura. Tra le altre cause anche lo stress e la cocaina assunta. A sei mesi di distanza dai fatti si cominciano a scrivere le prime parole definitive sulle cause che portarono alla morte di Riccardo Magherini, l’ex calciatore della Fiorentina deceduto la notte del 2 marzo scorso dopo essere stata fermato a Firenze dai carabinieri.

E a mettere alcuni punti fermi sono i periti nominati dalla procura di Firenze, secondo i quali Magherini morì in seguito agli effetti della cocaina che aveva assunto, dello stress provato nei momenti precedenti e durante il fermo e a causa dell’asfissia provocata dalle azioni di contenimento messe in atto dai carabinieri al momento dell’arresto.

Conclusioni che confermano quelle raggiunte a maggio da tutti i periti, che indicarono come la morte dell’ex calciatore fosse “legata a un meccanismo complesso di tipo tossico, disfunzionale, cardiaco e asfittico”. “Questi ultimi risultato confermano quanto sapevano e confermano in pieno la tesi sulla responsabilità dei carabinieri. È ora che si vada a processo”, commenta l’avvocato Fabio Anselmo, che assiste la famiglia Magherini.

Sono undici le persone indagate finora per la morte di Magherini. Oltre ai quattro carabinieri, accusati di omicidio preterintenzionale, figurano anche cinque volontari, tra medici e infermieri intervenuti sul posto e due operatori del 118.

La sera in cui è morto Magherini l’aveva trascorsa in un locale insieme a degli amici. Prima di rientrare a casa, però, in preda a una crisi di panico aveva girato per le strade di Borgo San Frediano chiedendo aiuto e urlando di sentirsi minacciato. Grida sentite da molti abitanti del quartiere, alcuni dei quali hanno chiamato il 112. Secondo la famiglia, ci sarebbe stato un uso eccessivo di forza da parte dei carabinieri nel momento del fermo, e molti testimonianze parlano di calci sferrati a Magherini dai militari dopo che erano riusciti a fermarlo ammanettandolo e tenendolo steso a terra col peso del proprio corpo.

“L’intossicazione acuta da cocaina sotto l’effetto della quale era il Magherini – scrivono i medici legali Gian Aristide Norelli e Martina Focardi – la immobilizzazione da parte delle forze dell’ordine nel tentativo di contenere il soggetto quale fonte di ulteriore stress catecolaminergico nonché nei tentativi di liberarsi fatti dal soggetto medesimo sia prima della immobilizzazione che dopo, una volta a terra, e la posizione in cui è stato tenuto, almeno da quanto emerge dalle testimonianze riportate agli atti, sono tutti fattori che hanno contribuito, sinergicamente, al decesso del soggetto”.

Uno dei punti più delicati riguarda i momenti successivi al fermo dell’ex calciatore, quando i carabinieri – nonostante non ce ne fosse più bisogno visto che Magherini era ormai ammanettato, continuarono a tenere l’uomo a terra. “Si può ritenere che i carabinieri intervenuti – scrivono ancora i due periti – una volta operata la immobilizzazione del Magherini, mantennero il soggetto in posizione prona con immobilizzazione posteriore degli arti superiori e, forse, con ulteriori sistemi di contenimento coattivi.

Tale stato si protrasse dalle 1,20-1,25 alle ore 1,44 e cioè per 20-25 minuti ed in tale periodo si determinò la componente asfittica sopra discussa. In tale condotta – proseguono ancora i periti – non può che ravvisarsi il mancato rispetto di norme cautelari, produttivo del meccanismo asfittico che, con ogni probabilità, ove si fosse ottemperato a facilitare l’attività respiratoria facendo assumere al soggetto, quanto meno, la posizione supina (o meglio seduta o eretta essendo applicate le manette) non si sarebbe determinato”. In altre parole, se dopo essere stato ammanettato, e quindi reso inoffensivo, a Magherini fosse stata data la possibilità di alzarsi in piedi o di sedersi, probabilmente oggi sarebbe ancora vivo.

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Caso Magherini, le tecniche asfissianti delle forze dell’ordine

Caso Magherini. Si immobilizza la persona, la si rovescia prona a terra, si portano le braccia dietro la schiena e si bloccano i polsi con manette. Quindi, un numero variabile di agenti, anche quattro, gravano sulla sua schiena per impedirne qualsiasi movimento. Si determina qualcosa che possiamo chiamare compressione toracica e che porta all’infarto o all’asfissia

Quanto emerge dalla perizia sul corpo di Riccardo Magherini è l’ennesima conferma, e non ce n’era bisogno, che esiste un enorme problema di formazione, intesa nei suoi termini più concreti e operativi. Ovvero che esiste un modus operandi, utilizzato dagli appartenenti alle forze dell’ordine per effettuare i fermi, decisamente pericoloso per l’incolumità del fermato. Lo si è visto nelle vicende della morte del tunisino Bohli Kayes a San Remo e di Aldrovandi, Rasman e Ferrulli; e in chissà quanti altri casi che non hanno portato alla morte del fermato o che, pur causandone il decesso, non sono diventati noti.

La tecnica è la seguente: si immobilizza la persona, la si rovescia prona a terra, si portano le braccia dietro la schiena e si bloccano i polsi con manette. Quindi, un numero variabile di agenti, anche quattro, gravano sulla sua schiena per impedirne qualsiasi movimento. Si determina qualcosa che possiamo chiamare compressione toracica e che porta all’infarto o all’asfissia.

Com’è possibile che dopo una serie di decessi in simili circostante, una modalità del genere venga ancora utilizzata? Sì, è possibile, perché è quella che risulta più facile e più immediata. Ma che denuncia, appunto, un incredibile deficit di competenza. Quando ho chiesto al generale Leonardo Gallitelli, comandante dell’Arma dei Carabinieri, e al prefetto Alessandro Pansa, capo della Polizia di Stato, se esistano protocolli precisi su ciò che è possibile fare e ciò che va assolutamente evitato, al fine di bloccare un individuo che si ritiene pericoloso, mi è stato risposto che questo tipo di tecniche e di regole sono tuttora in corso di definizione.

A me sembra terribilmente tardi. O meglio, ogni giorno che passa, a seguire le cronache, è sempre più tardi. Senza affrontare il complicato capitolo della morte di Davide Bifolco a Napoli, anche da lì emerge una domanda non troppo diversa: com’è possibile che per affrontare due giovani, palesemente privi di armi da fuoco o da taglio, almeno fino a prova contraria, un carabiniere spiani una pistola con il colpo in canna e senza sicura?

È pensabile che qualcuno gli abbia insegnato che quella fosse la tecnica più opportuna? O, al contrario, non dovevano spiegargli che era proprio la modalità più inutile e più pericolosa? Come si vede, il problema della formazione è enorme. E della formazione culturale (quali sono i diritti e le garanzie dei cittadini) e della preparazione tecnica: come si affronta una manifestazione, come si ferma un individuo armato e come uno disarmato, come si opera un inseguimento. Mi sembra che, su tutto ciò, il ritardo sia addirittura di molti decenni. Ed è un’autentica tragedia.

Luigi Manconi da il manifesto